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Tra la crisi americana e quella europea c’è un Oceano

Aeroporto di Parigi, martedì 28 agosto, ore 7.00 del mattino: Il nostro volo Air France da New York è in ritardo di un’ora e molti passeggeri rischiano o hanno già perso le coincidenze per varie destinazioni. Noi, insieme a una decina di altri passeggeri, dobbiamo partire alle 7,30 per Bologna. La hostess ci dice che possiamo farcela, perché il volo per Bologna è sempre Air France, basta sbrigarci e passare dal terminal 2 E al terminal 2 G. Scendiamo e cominciamo a correre, condotti da una freccia che ci indica la meta. Passiamo il visto dei passaporti e poi via, bagaglio a mano in spalla e ancora pedalare. Quando crediamo di essere arrivati ci accorgiamo che siamo solo a un treno che ci porterà al 2 G, più o meno.

Fermata 1 e ricominciano le indicazioni, riparte la nostra corsa. Scale mobili, camminamenti, non sappiamo più quante volte abbiamo fatto su e giù in questo aeroporto enorme. La freccia è sparita, dov’è il 2 G? Finalmente un’anima pietosa ci dice che dobbiamo uscire e prendere il bus, sono quasi le 7,15, abbiamo il fiatone, ma corriamo alla fermata. L’autobus arriva e spegne il motore. Dico all’autista che abbiamo il volo alle 7,30 e gli chiedo quando ripartirà. Non alza lo sguardo, non pronuncia una parola, mi mostra solo il suo orario: partenza 7,17, arrivo al 2G alle 7,23. E’ una partita che si gioca sul filo del rasoio, eppure l’autista si mette a chiacchierare con altri passeggeri e non sembra intenzionato a partire; sono già le 7,19. Senza dire nulla gli mostro l’orario sul mio telefonino e lui, sbuffando, mette in moto. Corriamo dentro al 2G, ma dobbiamo rifare i controlli di sicurezza. Cerchiamo di saltare la fila spiegando che stiamo perdendo il volo, i passeggeri non protestano, invece la polizia francese non ha nessuna fretta. Con varie scuse ci fermano più o meno tutti. A me fanno togliere anche un fazzolettino da collo, che tengo per proteggere la gola dall’aria condizionata. Discutendo animatamente riusciamo finalmente a passare e ci precipitiamo al gate: l’aereo è ancora fermo di fronte a noi, sono le 7,32, scendiamo le scale per passare la porta d’imbarco, ma hanno appena chiuso.

Nessuno dei 10 passeggeri per Bologna può salire. Siamo esterrefatti, stanchi morti, arrabbiatissimi, odiamo tutti i francesi e cominciamo a inveire, poi ci mettiamo in fila per essere riprotetti su un volo successivo, dovrebbe partire alle 9,30, ma ha un’ora di ritardo e partiremo alle 10,30. Per consolarci ci danno un buono per una colazione. Chiedo alla barista se invece di cappuccino e croissant posso avere dell’acqua. Sì, dice trattenendo il voucher non utilizzato, purché la paghi.

E’ questo il benvenuto che ci dà l’Europa dopo qualche settimana negli Usa: superficialità (potete farcela), incomprensione (nessuno ci aiuta ad accelerare questo percorso), poca professionalità (nessuno ci spiega la strada da fare), scarsa collaborazione, antipatia (reciproca).

Ho tempo di riflettere su un articolo del New York Times che ho letto in aereo: “L’Europa ha fallito?”, di Nicholas Sambanis, professore di scienze politiche a Yale. La tesi di Sambanis è che la crisi europea non è solo economica e finanziaria, c’è anche “un crescente problema di identità, un conflitto etnico”. Le elite europee in sostanza avrebbero prefigurato qualcosa cui le popolazioni, divise da abitudini, ma anche da pregiudizi reciproci, non sono pronte. Mi viene in mente la poesia di una giornalista italiana, Valentina Desalvo: “Fra il reale e il possibile è qualcosa di fattibile, fra il possibile e il reale ci riesce sempre male: questo è lo scacco dell’uomo sociale”. Per il professore di Yale, l’Europa del nord guarda a quella del sud con una notevole dose di disprezzo, ben sintetizzata dall’acronimo PIGS a indicare i paesi con più problemi. Per uscire da questo circolo vizioso l’americano suggerisce una discussione franca, aperta, soprattutto interna alla Germania.

Interessante no? Certo non basta il piccolo incidente occorso a noi all’aeroporto per dire che gli europei non si amano e non si aiutano, però è forte la sensazione che dietro a quello che ci accade ci sia anche un problema antropologico e culturale.

Cosa succede invece dall’altra parte dell’Oceano, dove c’è un paese di oltre 50 Stati, cementati da un incredibile sentimento di identità nazionale?

C’è meno ricchezza e molta più inflazione di un tempo. New York sembra invecchiata, con la polvere sui grattacieli (dopo aver visto lo sfavillio degli Emirati o di Shangai) e l’immondizia accumulata accanto a Time Square. Non sembra più la reginetta della festa, con un cantiere aperto ancora, dopo 11 anni dall’11 settembre. Nelle grandi città ci sono migliaia di homeless; a Boston vediamo una marcia di reduci senza casa in fila per andare a mangiare qualcosa. Eh sì, perché mangiare, malissimo, costa di più che in Europa (o almeno che in Italia). Persino da McDonald è difficile cavarsela con meno di 20 dollari e capisci perché la Coca Cola è indispensabile: altrimenti come digerisci tutti i grassi che metti dentro?

Però sotto la polvere accumulata, accanto agli gli errori e probabilmente ai falsi miti che abbiamo recepito, c’è qualcosa di incredibile che  a me capita di trovare ogni volta che vado negli Stati Uniti: ci si sente accolti. Certo ci sono le impronte digitali e la foto alla frontiera, i controlli, i limiti, ma c’è anche il “patto sociale” che funziona veramente. Persi a Washington ci si avvicina un signore e ci chiede: avete bisogno di aiuto? Yes, thank you. You welcome. A una grande manifestazione sportiva a Long Island un simpatico operaio del luogo ci conduce per mano dai controlli di sicurezza all’autobus. All’uscita temiamo file chilometriche per il rientro, ma l’organizzazione è così perfetta che non aspettiamo un minuto. Ogni volta che abbiamo bisogno di qualcosa i nostri interlocutori si fanno in 4 per aiutarci: Thank you, You welcome.

Ancora due piccoli episodi, tanto per rendere l’idea. Miami, due anni fa. Viaggio di ritorno. Arriviamo al check in e la hostess si accorge che il mio biglietto stampato a casa ha sfasato le righe. Morale dovevamo partire il giorno prima, quel foglio che ho in mano è carta straccia e la responsabilità è completamente mia. Il volo che pensavamo di prendere è pieno come un uovo, ma la hostess Maria, di American Airlines non si arrende e lavora per un’ora e mezza come una pazza. Morale: alla fine ci trova due posti su un volo successivo, arrivo a Londra invece che a Madrid e collegamento con Bologna. Nel cambio ci guadagniamo persino un paio d’ore, costo: zero. Non so come ringraziarla: Maria thank you, You welcome.

Lunedì 27 agosto, quando dobbiamo rientrare da New York, abbiamo delle coincidenze faticosissime. Partenza alle 18,20, arrivo a Parigi alle 7, volo per Roma alle 17,40, volo per Bologna alle 21,25. Chiamo Alitalia il lunedi mattina (gli operativi erano con i partner) e chiedo se c’è possibilità di andare direttamente da Parigi a Bologna, mi dicono di no.

Andiamo all’aeroporto qualche ora prima e la hostess americana Rina al chek in ci chiede se vogliamo anticipare il rientro alle 16,50 perché il nostro volo in arrivo da Parigi è in ritardo. Accettiamo e, nell’occasione le chiedo se per caso possiamo andare direttamente da Parigi a Bologna. “Ci provo”, mi risponde. Lavora mezzora sulla nostra pratica e alla fine trova i posti e cambia il biglietto. Sono ammirata, esterrefatta: good job Rina, thank you; You welcome.

You welcome è il loro modo di rispondere prego, più americano che inglese. Credo non sia solo un modo di dire. C’è molta sostanza in quella frase, che sarebbe bello trovare anche da noi: l’impegno a fare al meglio qualsiasi attività si stia compiendo, l’impegno a soddisfare l’altro, cliente o interlocutore che sia. Ecco, superata, si spera, la crisi dei debiti pubblici del vecchio continente, aggiustate le storture economiche e fiscali che ci dividono, penso che sarebbe bello cominciare a lavorare per un’Europa “you welcome”. Sempre che la “balcanizzazione” paventata Nicholas Sambanis non abbia il sopravvento. 

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