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Stellantis ed ex Ilva: due crisi diverse, un unico fardello per l’industria italiana. Qual è la via d’uscita?

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Nel panorama industriale italiano, due nomi evocano un passato di gloria: Fiat, ora parte di Stellantis, e Ilva (Acciaierie d’Italia) un tempo regina dell’acciaio europeo. Oggi, entrambe sono impantanate in crisi profonde, diverse per natura ma ugualmente pesanti per l’economia nazionale. Manca innovazione, la strategia industriale è confusa, le politiche pubbliche sono arrivate in ritardo e la competitività internazionale corre molto più veloce. Senza interventi rapidi, il futuro rischia di lasciare solo macerie.

Il caso Stellantis: produzione in calo e strategie confuse

Il 2024 è stato un anno difficile per Stellantis in Italia, ma il 2025 è iniziato ancora peggio. Nei primi sei mesi, la produzione complessiva di veicoli (auto e commerciali) è crollata del 26,9%,passando da 303.571 a 221.885 unità. Il dato più allarmante riguarda le sole autovetture, la cui produzione è scesa del 33,6% rispetto allo stesso periodo del 2024. La crisi è trasversale: tutti i principali stabilimenti italiani sono coinvolti, con percentuali drammatiche in alcuni casi: Melfi -59,4%, Pomigliano -24%, Mirafiori -21,5%. A Modena (-71,9%) sono state prodotte solo 45 auto in sei mesi, più simili a un laboratorio artigianale che a una fabbrica industriale. Anche Cassino,Sevel e Termoli registrano contrazioni, tra fermate tecniche, investimenti posticipati e produzioni ridotte all’osso. Nel frattempo, il ritardo nella messa in produzione della nuova Fiat 500 ibrida – inizialmente prevista nei primi mesi del 2025, ora rimandata a novembre – posticipa ulteriormente i benefici previsti per Torino.

Investimenti rinviati e modelli obsoleti

Le cause sono molteplici, ma convergono su un punto comune: una gestione industriale priva di una visione strategica chiara. Stellantis, nel passaggio da Fiat Chrysler all’attuale conglomerato nato dalla fusione con Psa, ha ereditato un parco modelli ormai datato e ha optato per aggiornamenti minimi, anziché puntare su nuovi progetti capaci di sostenere l’occupazione e l’innovazione. A questo si aggiunge una transizione elettrica troppo lenta e investimenti continuamente annunciati ma mai pienamente concretizzati.

La tanto attesa gigafactory di Termoli, progettata per produrre batterie per veicoli elettrici, è slittata più volte. Doveva aprire nel 2026, con circa 1.800 assunzioni previste; oggi, a metà 2025, il cronoprogramma è ancora avvolto nella nebbia. Nel frattempo, la produzione di veicoli si ferma, le vendite calano e il gruppo perde terreno nei confronti dei giganti cinesi e americani (come BydTesla e Geely).

Le previsioni sindacali indicano che, entro fine anno, la produzione in Italia si fermerà a 400mila unità, contro le 475.090 del 2024. Le auto prodotte non supereranno le 250mila, con un impatto diretto su migliaia di posti di lavoro: solo a Melfi, dal 2021, sono già usciti oltre 2.000 lavoratori con incentivi volontari, e la tendenza sembra destinata a proseguire anche altrove.

Il caso ex Ilva: il nodo dell’acciaio tra fermate, bonifiche e promesse

Mentre Stellantis rallenta, l’ex Ilva di Taranto è praticamente ferma, riproponendo l’amara abitudine italiana: si aspetta che tutto crolli prima di decidere chi deve intervenire. Un tempo locomotiva della siderurgia nazionale, oggi l’acciaieria è un colosso in stallo che genera più incertezza che acciaio.

Il confronto serrato: 48 ore per decidere, ma senza intese

Lunedì 7 luglio FimFiom e Uilm hanno incontrato i ministri Adolfo Urso (Imprese) e Marina Calderone (Lavoro). Oggi, martedì 8 è iniziata una seduta interministeriale a oltranza con enti locali e commissari straordinari per affrontare il futuro produttivo e occupazionale. “Ho liberato la mia agenda per i prossimi due giorni – ha detto Urso – perché abbiamo 48 ore di tempo per decidere”. Ma l’entusiasmo è stato subito raffreddato dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano: “Nessuna intesa oggi, si riparte da zero”. Anche il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, ha chiesto chiarezza sulle proposte, sottolineando la responsabilità ma rifiutando di “dire sì al buio”.

Produzione in caduta libera e rischio occupazionale crescente

Nonostante i 200 milioni stanziati dallo Stato, gli impianti restano in gran parte fermi: l’altoforno 2(Afo2) è fermo da tempo, l’Afo4 è afflitto da guasti cronici e, dal 7 maggio, anche l’Afo1 è fuori uso a causa di un incendio che ha portato al suo sequestro da parte della magistratura. La produzione è crollata da 6 a 4 milioni di tonnellate annue ed è destinata a scendere ancora. I quasi 4.000 lavoratori in cassa integrazione – 3.538 solo a Taranto – rappresentano solo la punta dell’iceberg di un rischio occupazionale che coinvolge oltre 10mila persone e migliaia di aziende dell’indotto.

Fallito il piano con Baku Steel, l’ex Ilva resta in stallo

Solo pochi mesi fa, l’accordo con la cordata azera Baku Steel sembrava vicino: nei corridoi del ministero regnava l’ottimismo, le conferenze stampa promettevano un rilancio imminente. Poi l’incendio, il sequestro dell’altoforno e il passo indietro degli azeri, probabilmente legato al no degli enti locali e dei sindacati alla nave rigassificatrice – infrastruttura chiave per alimentare futuri impianti Dri (a riduzione diretta del ferro), fondamentali per la decarbonizzazione.

Un colpo duro per il governo, che puntava su un partner privato per risollevare l’acciaieria. Ora, senza investitori all’orizzonte, il peso della ristrutturazione ricade sullo Stato. La nazionalizzazione – un tempo impronunciabile – è tornata d’attualità nei palazzi romani: per molti non è più una scelta ideologica, ma un ancora di salvezza. Tuttavia, il ministro Urso ha richiamato i vincoli costituzionali (articolo 43), spiegando che l’Ilva non rientra tra i servizi pubblici essenziali o monopoli. Uno stop prudenziale, che raffredda l’ipotesi di un esproprio diretto e riporta il confronto sul piano politico: commissariamento a oltranza o un nuovo piano industriale pubblico, ma con partner privati?

Ex Ilva: zavorra o locomotiva?

La crisi dell’ex Ilva non è semplicemente una questione aziendale: è lo specchio di un Paese in difficoltà a gestire le proprie transizioni industriali. In un’epoca in cui la Germania investe per riportare la manifattura entro i propri confini, l’Italia si ritrova a chiedersi se l’altoforno sia ancora acceso.

Il caso evidenzia ritardi strutturali su decarbonizzazione, sicurezza, governance e visione strategica a lungo termine. Anni di promesse non mantenute e decisioni rimandate hanno portato a un degrado irreversibile. I sindacati lanciano allarmi e chiedono tavoli permanenti e interventi urgenti, ma nelle officine resta più polvere che acciaio. Taranto ha già pagato un prezzo altissimo in termini ambientali, sanitari e sociali e oggi è intrappolata tra due slogan contrapposti: “Non possiamo chiudere” e “Non possiamo continuare così”.

Il vero paradosso è che la crisi dell’ex Ilva supera il singolo stabilimento, diventando il simbolo di un’Italia industriale che non decide, non programma e non protegge. Quella che era una locomotiva siderurgica è diventata una zavorra per tutto il sistema produttivo.

Un quadro industriale fragile: settori strategici in affanno

In questo scenario, Stellantis e l’ex Ilva sembrano due facce della stessa moneta: un Paese che ha smesso di credere nella propria industria. Dove le grandi fabbriche non producono più futuro, ma incertezza. Dove ogni crisi si trasforma in un déjà vu. E dove il prezzo lo pagano sempre gli stessi: i lavoratori, le famiglie, i territori.

L’Italia non può più permettersi di galleggiare tra rinvii, tavoli tecnici e promesse inevase. Senza un’industria forte, l’irrilevanza in Europa non è più una minaccia, ma un destino che si fa sempre più concreto.

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Categories: Economia e Imprese