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Serie tv, “Il racconto dell’ancella” senza tregua: 65 ore di sofferenza e non solo dell’ancella. Ecco il suo valore simbolico

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Martedì 27 maggio 2025, con il decimo episodio della sesta stagione, si è chiuso “Il racconto dell’ancella”: 8 anni, 6 stagioni, 66 episodi e quasi 4.000 minuti di visione per l’adattamento televisivo scritto da Bruce Miller. Tratta dall’omonimo romanzo del 1985 di Margaret Atwood, la serie è prodotta da MGM e Hulu. La scrittrice ha avuto il ruolo di consulente di produzione, affiancando il team creativo sin dal 2017.
In un’intervista al NYTimes del 2019, la Atwood ha chiarito di aver avuto “influenza ma non il potere di dire l’ultima parola, tipo: non potete far uccidere quella persona” (riferita a Zia Lydia).

E in effetti non è accaduto, tanto che Zia Lydia sarà una delle protagoniste del sequel de Il racconto dell’ancella, I Testamenti. Il 7 aprile 2025 sono iniziate le riprese della nuova serie a Toronto. Tratta anch’essa dall’omonimo romanzo della Atwood pubblicato nel 2019, la serie potrebbe essere trasmessa nel corso del 2026, benché Hulu non abbia ancora annunciato una data ufficiale di uscita. Speriamo di non dover soffrire in questo sequel quanto abbiamo sofferto nelle 65 ore di visione richieste da Il racconto dell’ancella: vedere, in fondo, fa più male che leggere. Che ci sia concessa un po’ di tregua. “Sia benedetto il frutto”.

Gilead

Gilead, teocrazia androcratica e distopia nata da problemi reali della contemporaneità, scuote la nostra fiducia nel principio secondo cui tutto ciò che è reale sarebbe anche necessariamente razionale. L’esperienza di Gilead ci ipnotizza, spingendoci verso la filosofia della sofferenza, dalle parti di Schopenhauer e Nietzsche. Poi ci ridestiamo: Gilead non esiste! È solo finzione, nata dalla mente feconda di Margaret Atwood. Sia lode!

Alex DeLarge

Molti ricorderanno le scene finali di Arancia Meccanica. Alex DeLarge, il teppista appassionato di Ludvig Van e della Bibbia, viene scelto per un programma governativo di riabilitazione. Una delle “terapie” lo immobilizza su una sedia: occhi tenuti aperti da morsetti per guardare ore e ore di filmati violenti e degradanti, senza tregua e senza possibilità di distogliere lo sguardo.

La cura sembra efficace: reinserito in società, Alex non può più agire con violenza, subisce tutto con nausea e rassegnazione. È svuotato, inabile a difendersi, privato di volontà e apparentemente mansueto.
Non dico accada lo stesso con la visione seriale de “Il racconto dell’ancella”, ma quell’interminabile catena di sopraffazioni, abusi e crudeltà genera sofferenza. Guardarla diventa un incubo, un’esperienza al limite del tollerabile.

È un “girone infernale (hellhole)”, è scritto in una recensione della critica. In un’altra: “implacabilmente cupa”. E infine in una terza: “sofferenza che svuota l’anima. Disperazione allo stato puro.” Nemmeno il decimo episodio della sesta stagione, che chiude definitivamente la serie, offre conforto. June si congeda da Mark Tuello (Sam Jaeger), rappresentante del governo americano in esilio e ufficiale della Cia. Nel salutarlo, June lo chiama “Capitano Tuello” e lui la corregge: “Comandante, in realtà”. Il dettaglio è significativo: anche i leader di Gilead portavano quel titolo. Forse la cultura totalitaria si è infiltrata ovunque, persino tra chi lotta per la libertà?

Finzione e realtà

Non è solo L’ancella a calare il pubblico nella condizione di Alex. A me è accaduto anche con “Melancholia” di von Trier, “The Whale” di Aronofsky, “Zona d’interesse” e “Il cavallo di Torino”, il lento e apocalittico film di Béla Tarr. Questa capacità di assorbire le persone e inglobarle nella finzione non è un difetto, ma una straordinaria abilità narrativa che annulla il confine tra realtà e racconto tanto da rilasciare uno strascico emotivo reale e duraturo. Mia madre non tollerava nei film neppure il minimo sindacale di sofferenza o violenza: solo commedie e musical. Per lei tutto era vero: il pomodoro finto, le lacrime di glicerina, i roghi di cartapesta, i colpi a salve, il pulp.

Forse quel rifiuto nasceva dal trauma dell’infanzia: i bombardamenti, le granate, le requisizioni, il rombo degli aerei, il rifugiarsi nelle fosse. Un dolore sedimentato che il cinema non doveva risvegliare. Con “Il racconto dell’ancella”, soprattutto se consumato a rullo, la sofferenza diventa estrema, simile a quella patita in una maratona di 250 chilometri nella foresta pluviale, con umidità al 99% e tre fiumi da attraversare.

Un’estensione forzata

Il romanzo di Atwood funzionava per la sua densità e compattezza. Espanderlo in sessantacinque ore ne ha rarefatto l’intensità, indebolendo la forza con cui il tema centrale raggiungeva il fruitore. Un limite notevole della serie è proprio l’aver prolungato la storia oltremisura. Conclusa la trama del romanzo nella prima stagione, gli sceneggiatori si sono trovati a proseguire senza un riferimento letterario solido. Mantenere alta la tensione e coinvolgente la trama è diventato sempre più arduo. June (Elisabeth Moss) ha dovuto guidare una narrazione che, erraticamente, cercava un nuovo centro e una direzione credibile.
Il personaggio è rimasto intrappolato in una circolarità narrativa: cattura, fuga, ritorno. Questa circolarità ha logorato la struttura del racconto, minando la verosimiglianza e la resistenza emotiva del pubblico.

La sfida al pubblico

Come si chiede l’editorialista dell’Economist, fino a che punto una serie televisiva, pur acclamata e sorretta da una metafora efficace, può spingersi nel mettere alla prova la resistenza emotiva di chi ne sta fruendo?
La serialità televisiva, a differenza dei cinema, impone un impegno prolungato. Senza pause, senza spiragli di speranza, anche la distopia più riuscita rischia di trasformarsi in una sorta di sadismo narrativo.
Esiste un limite fisiologico alla quantità di sofferenza indotta che il pubblico può tollerare. È un promemoria: il progetto deve trovare equilibrio tra rilevanza e intrattenimento, come ha fatto il melodramma. Quando la “rilevanza” diventa l’unico criterio di valore, si rischia di creare opere che invecchiano male, stancano, perdono pubblico e mancano l’obiettivo: lasciare un segno autentico e duraturo nel tempo.

Tempismo politico

Con questo l’ancella il suo segno lo ha lasciato. Uscita nel 2017, la serie è diventata un manifesto politico contro l’alt-right e il fondamentalismo religioso, ergendosi a manifesto di opposizione culturale e ideologica. Molti vedevano nell’oppressione delle donne e nella deriva autoritaria della società di Gilead non un atto di finzione, ma uno sbocco inquietante di certe culture diventate mainstream.

In un intervento del 2017, la Atwood ha spiegato che il romanzo, autenticamente femminista, nasce da eventi reali. Gilead si fonda sull’eredità puritana del Seicento, radicata nella cultura dell’America più profonda. La trama si ispira a fatti storici concreti: esecuzioni pubbliche, leggi suntuarie, roghi di libri, il programma nazista Lebensborn, i furti di bambini in Argentina, la schiavitù e la poligamia nella storia americana. Nel 2017, la serie tratta dal libro, ha toccato un nervo scoperto della società americana. Il tempismo perfetto ha favorito il riconoscimento della critica e decretato un successo di pubblico immediato e forte.

I riconoscimenti

È stata la prima serie in streaming a vincere l’Emmy come Miglior Serie Drammatica, aggiudicandosi altri sette premi, tra cui quelli a Elisabeth Moss (June/Offred) e Ann Dowd (zia Lydia). Il romanzo ha superato gli 8 milioni di copie vendute nel mondo, con oltre 3 milioni acquistate dopo le elezioni presidenziali americano del 2016, quando l’interesse per la distopia di Gilead è esploso. Nel nono episodio della sesta stagione, trasmesso il 20 maggio 2025, l’apertura è accompagnata da “Look What You Made Me Do (Taylor’s Version)” di Taylor Swift, il fenomeno globale del pop. La versione ri-registrata del brano del 2017 accompagna la scena in cui June Osborne guida una ribellione contro i comandanti di Gilead: un chiaro endorsement simbolico alla lotta femminile contro l’oppressione.

Gilead non è venuta e non verrà

Un critico ha raccontato di aver avuto un attacco di panico dopo la visione. Per chi teme per la democrazia americana, “Il racconto dell’ancella” non offre scampo, offre solo sofferenza e presagi oscuri.
Come scrive in Diario di un dolore C.S. Lewis (Cronache di Narnia) la sofferenza somiglia alla paura. E nel 2017, quella paura aveva un nome preciso: Gilead, simbolo di una prossima ventura deriva autoritaria.
Poi la Repubblica di Gilead non è arrivata e probabilmente non arriverà mai. La serie ha perso l’attualità politica del suo messaggio, scivolando lentamente verso il declino di “The Walking Dead”, la cui parabola le somiglia. Attendiamo con interesse l’adattamento di ”I Testamenti”, il seguito. Come nota “The Economist”, osservare le vittime di un regime totalitario è deprimente, ma assistere alla sua caduta è avvincente.

Che sia lode!

Dimenticavo! Margaret Atwood è canadese di Ottawa. Nel continente dominato da Gilead, il Canada rappresenta un territorio libero e democratico, al di fuori del controllo teocratico dell’America gileadizzata. “In Canada ti lasciano guidare. Ti fanno studiare. Puoi parlare. Persino scrivere”. Moira dice a June/ Offred nel bordello segreto di Gezebele a Gilead, raccontando della sua fuga fallita e della speranza, ormai svanita, di riuscire a raggiungere il Canada. (In “Il racconto dell’Ancella”, “Gezebele”, Stagione 1, Episodio 8).

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