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Russia-Ucraina: la guerra è una tragedia ma smentisce la teoria dello scontro di civiltà di Huntington

FIRSTonline

Ross Douthat è un editorialista di orientamento conservatore dello staff giornalistico del “New York Times”. Ogni martedì il giornale pubblica un suo commento nella pagina OP-ED. Prima di unirsi allo staff del “New York Times” Douthat è stato senior editor a “The Atlantic”. In questo intervento egli discute l’applicabilità interpretativa delle tesi del politologo americano Samuel Huntington al periodo che stiamo attraversando scaturito dal conflitto tra Russia e Ucraina e alle sue cause e conseguenze.

In un libro importante e giustamente famoso, Huntington avanzava la tesi che le fonti di conflitto nel mondo uscito dalla guerra fredda non sarebbero state né ideologiche né economiche, ma legate alla cultura prodotta dalle diverse civiltà presenti sul pianeta. Gli Stati nazionali avrebbero continuato a essere i protagonisti del contesto mondiale, ma i conflitti più importanti sarebbero scoppiati tra nazioni e gruppi di nazioni appartenenti a differenti culture. Lo scontro di civiltà avrebbe così caratterizzato la scena mondiale. “Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”, concludeva Huntington. L’articolo di Douthat – che pubblichiamo sotto in versione italiana -discute in quale misura questa teoria può spiegare quello che accade in Ucraina e le nuove dislocazioni internazionali che sono derivate dal nuovo stato di cose. Una riflessione che si può non condividere, ma che fa pensare.

L’equilibrio di potere tra le civiltà

Nel 1996 il politologo americano Samuel Huntington ha elaborato delle tesi dirompenti sul cammino del mondo dopo la guerra fredda. Osservava che la politica globale stava diventando non solo “multipolare” ma “multicivilizzata”, con potenze in competizione che stavano modernizzandosi lungo differenti linee culturali senza convergere, come si tendeva a pensare all’epoca, verso il modello liberal-democratico occidentale. L’equilibrio di potere tra le civiltà si stava trasformando e l’Occidente era in procinto di entrare in un periodo di progressivo declino.

Stava emergendo un “ordine mondiale basato sulla civiltà” all’interno del quale le società “culturalmente affini” tendevano a raggrupparsi in alleanze o blocchi. E l’aspirante universalismo dell’Occidente stava preparando il terreno per un conflitto prolungato con le civiltà alternative, in particolare con la Cina e il mondo islamico.

Attualità della tesi di Huntington

Questa tesi era la spina dorsale del libro di Huntington “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (trad. it. Garzanti 2000) che costituiva di fatto una interpretazione alternativa alla “fine della storia” di Francis Fukuyama, che propugnava una sua visione ottimistica della democrazia liberale come l’orizzonte verso il quale le società del dopo guerra fredda stavano tendendo. La tesi di Huntington, un po’ lasciata in ombra nell’ultimo decennio, sta tornando ad essere discussa sulla scia dell’aggressione di Putin all’Ucraina, accompagnata dalla risposta sorprendentemente unitaria dell’Occidente e dalle reazioni incerte di Cina e India. Negli ultimi tempi Huntington è sempre più citato sulla base della considerazione che Putin vuole uno scontro di civiltà. In realtà la tesi di Huntington sembrano effettivamente messe in discussione e anche contraddette dal tentativo di Putin di ripristinare una Grande Russia.

C’è davvero scontro di civiltà in Ucraina?

Questo è l’argomento sostenuto, per esempio, dallo studioso francese dell’Islam Olivier Roy in una recente intervista a “Le Nouvel Observateur”. Roy parla della guerra in Ucraina come “la prova definitiva (perché ne abbiamo molte altre) che la teoria dello scontro di civiltà non funziona” – soprattutto perché Huntington ha ipotizzato che i paesi di confessione cristiano-ortodossa difficilmente si sarebbero scontrati in modo armato. Qui invece abbiamo la Russia di Putin che fa la guerra, e non è la prima volta, contro un vicino a maggioranza cristiano-ortodossa, cioè una nazione di cultura ortodossa, anche se ci sono delle enclave musulmane all’interno della Russia, si scontra con una cultura del tutto simile anche nella sua origine.

… o c’è un scontro di ideologie?

Scrivendo per la nuova rivista “Compact”, che raccoglie sia radicali di sinistra che di destra, Christopher Caldwell (autore di The Age of Entitlement: America Since the Sixties, considerato dal “Wall Street Journal” il miglior libro di storia del 2020) accoglie parzialmente le tesi di Huntington sull’unità dei cristiani ortodossi, ma motiva anche perché l’applicazione della tesi di Huntington al momento che stiamo attraversando è da respingere. Caldwell sostiene che lo scontro di civiltà è stato un modello utile per comprendere gli eventi negli ultimi 20 anni, ma ultimamente ci stiamo muovendo verso un mondo di conflitti esplicitamente ideologici: da una parte c’è un’élite occidentale che predica un vangelo universale di “neoliberalismo” e di “wokeness”, e dall’altra ci sono regimi e movimenti che stanno cercando di resistere a tale narrazione. Questa è una lettura di destra del panorama mondiale, una lettura ostile allo zelo missionario occidentale. Ma l’analisi di Caldwell assomiglia al popolare argomento liberale che il mondo è sempre più diviso tra liberalismo e autoritarismo, democrazia e autocrazia, piuttosto che diviso in poli multipli e civiltà concorrenti.

Com’era 30 anni fa

Tuttavia, entrambi questi argomenti offrono un quadro interpretativo più debole di quello tracciato da Huntington. Certo, nessuna teoria elaborata un trentennio fa può essere una guida applicabile agli affari mondiali di oggi. Ma se si vuole capire la direzione della politica globale in questo momento, la tesi di Huntington è più rilevante che mai. Per capirne il motivo, bisogna tornare indietro con la mente agli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del suo libro – la fine del millennio, gli anni di Bush e l’inizio di Obama. In quei giorni l’analisi di Huntington era spesso richiamata per spiegare l’ascesa del terrorismo jihadista e la resistenza islamista al potere dell’Occidente. Ma la sua tesi sembrava difficilmente estendibile a ogni altro teatro del mondo. Il potere americano non sembrava essere ancora in declino. La Cina stava integrandosi con il mondo occidentale e, in una certa misura, si stava liberalizzando e non stava tracciando un proprio percorso egemonico di civiltà. La Russia del primo mandato di Putin sembrava aspirare ad alleanze con l’America e l’Europa e a un certo tipo di normalità democratica.

In India le forze del nazionalismo indù non erano ancora così in ascesa. E anche nel mondo musulmano c’erano fermenti democratici diffusi, dal Movimento Verde in Iran alla Primavera Araba, che sembravano promettere rivoluzioni liberal-democratiche stile 1989 seguite da un dislocamento verso l’Occidente.
I primi anni del XXI secolo, in altre parole, hanno fornito una discreta quantità di casi circa l’appeal universale esercitato dal capitalismo occidentale, dal liberalismo e dalla democrazia, con l’opposizione dichiarata a questi valori confinata ai margini: islamisti, critici di estrema sinistra della globalizzazione, il governo della Corea del Nord.

La svolta dell’ultimo decennio

L’ultimo decennio, d’altra parte, ha reso le previsioni di Huntington sul conflitto di civiltà molto più cogenti. Non è solo il fatto che il potere americano è chiaramente diminuito rispetto alle nazioni rivali e concorrenti, o che gli sforzi dopo l’11 settembre per diffondere i valori occidentali con la forza delle armi si sono spesso rivelati un fallimento. È il fatto che le divergenze tra le maggiori potenze mondiali hanno seguito, in generale, il modello di civiltà che Huntington ha delineato. Abbiamo visto imporsi la meritocrazia monopartitica cinese, lo zar senza corona di Putin, il trionfo post-primavera araba della dittatura e della monarchia sul populismo religioso in Medio Oriente, il nazionalismo Hindu che sta trasformando la democrazia indiana.

Queste non sono tutte forme indistinguibili di “autocrazia“, ma sviluppi culturalmente distinti che ben si adattano alla tipologia di Huntington, cioè alla ipotesi che specifici connotati di civiltà si manifestino man mano che il potere occidentale diminuisce, man mano che la potenza americana si ritira.
In modo molto significativo, la regione nella quale questa recente tendenza è stata più debole, e l’ondata di democratizzazione post-guerra fredda più resistente, è l’America Latina, riguardo alla quale Huntington ha avuto qualche incertezza sul fatto che meritasse una propria categoria di civiltà, o se appartenesse a quella degli Stati Uniti e all’Europa occidentale. Ha scelto la prima, ma la seconda sembra oggi più plausibile.

Non ci sono state alleanze di civiltà, anzi…

Che dire poi delle previsioni di Huntington sull’Ucraina, criticate da Roy e Caldwell? Beh, lì ha sbagliato qualcosa, anche se ha previsto con accuratezza la divisione interna all’Ucraina, cioè la divisione tra l’est ortodosso e russofono e l’ovest più cattolico e di tendenza occidentale, ma la sua ipotesi che gli allineamenti di civiltà avrebbero prevalso su quelli nazionali non è stata confermata dalla guerra di Putin, durante la quale l’Ucraina orientale ha resistito ferocemente alla Russia.

Quell’esempio si adatta a un modello più ampio. Nessuna delle grandi potenze non occidentali emergenti ha ancora costruito vaste alleanze basate su affinità di civiltà, il che significa che una delle grandi previsioni huntingtoniane sembra oggi piuttosto debole. Egli immaginava, per esempio, che una Cina in ascesa potesse essere in grado di integrare pacificamente Taiwan e forse anche attrarre il Giappone nella sua sfera d’influenza. Questo scenario sembra altamente improbabile al momento. Invece, ovunque i paesi più piccoli siano in qualche modo “lacerati”, per usare il suo linguaggio, tra qualche altra civiltà e l’Occidente liberale, di solito preferiscono l’alleanza con l’America ad un allineamento con Mosca o Pechino.

L’Occidente all’offensiva

Questo è prova della capacità di resistenza dell’Occidente e dei durevoli vantaggi offerti dagli americani anche in un mondo multipolare. Ma non significa che il liberalismo sia pronto per un ritorno travolgente alla posizione che occupava quando la forza dell’America era al suo apice. Nessuna delle reazioni ambigue e ambivalenti alla guerra di Putin al di fuori dell’alleanza euro-americana suggerisce un’improvvisa primavera per l’ordine mondiale liberal-internazionale. E mentre gli aspetti della fine della storia di Fukuyama si sono chiaramente diffusi oltre l’Occidente liberale, a prevalere oggi è il lato più oscuro della visione occidentale – il consumismo e l’anomia senza figli – piuttosto che l’idealismo della democrazia e dei diritti umani. Il conflitto in Ucraina significa che l’esportazione della “wokeness” all’americana, per quanto possa preoccupare Putin, non è pronta a diventare il punto focale di un nuovo conflitto ideologico globale.

L’ambito “locale” della “wokeness

Al contrario, la maggior parte della “wokeness” si rivolge verso l’interno e presenta un aspetto campanilistico, rivela di essere una risposta specificamente occidentale e specialmente anglo-americana alle delusioni del periodo neoliberale. Piuttosto che offrire un messaggio universale, i suoi slogan e le sue idee chiave hanno davvero senso solo all’interno dell’America e dell’Europa – cosa potrebbe mai significare “mettere in discussione l’esser bianchi” per la classe media di Mumbai o Giacarta o per le giovani élite del Bahrain o di Pechino? Sembra un’ideologia fatta su misura per un’epoca di percepito declino americano. Offre un programma di rinnovamento morale e spirituale, ma è anche un modo per giustificare una certa mediocrità e un torpore perché, dopo tutto, troppa attenzione all’eccellenza o alla competizione ha il sapore di supremazia bianca.

Il significato della wokeness

È interessante notare che le guerre di wokeness rivelano che Huntington potrebbe aver sbagliato. Il suo timore principale era che il mondo occidentale in un’epoca di competizione tra civiltà avrebbe potuto abbandonare la propria specificità culturale e che il multiculturalismo in particolare sarebbe stato la sua rovina, addirittura che gli Stati Uniti potessero frammentarsi in enclave di lingua inglese e spagnola sotto la pressione dell’immigrazione di massa. Alcune delle recenti convergenze tra la politica nordamericana e quella latinoamericana come il crescente appeal del populismo di destra e del socialismo negli Stati Uniti, l’ascesa dell’evangelicalismo e del pentecostalismo in Sud America, s’inseriscono in queste previsioni. Le battaglie sulla wokeness non sono necessariamente un esempio di balcanizzazione etnica o di multiculturalismo finito oltre misura.

La posta in gioco in America

Invece l’attuale guerra culturale può effettivamente ridurre la polarizzazione etnica dei partiti politici americani, spingendo alcune minoranze razziali verso destra, per esempio, mentre fa riemergere alcune delle più antiche divisioni nella politica anglo-americana. I “woke” sembrano spesso gli eredi dei puritani del New England e dello zelo utopico dello Yanketudine; i loro nemici sono spesso gli evangelici del Sud e i cattolici conservatori e i discendenti libertari degli scozzesi-irlandesi. La posta in gioco di queste dispute sono enormi: i fondamenti della nazione americana, la Costituzione, l’interpretazione della guerra civile e dell’ideologia della frontiera.

Tratto da: Ross Douthat, Yes, There Is a Clash of Civilizations, The “New York Times”, 30 marzo 2022

Ross Douthat è opinionista del “New York Times” dall’2009. La sua rubrica appare al martedì e alla domenica. In precedenza è stato senior editor di “The Atlantic”. È il critico cinematografico della “National Review”. È autore di The Deep Places: A Memoir of Illness and Discovery, pubblicato nell’ottobre 2021. I suoi altri libri sono To Change the Church: Pope Francis and the Future of Catholicism (2018); Bad Religion: How We Became a Nation of Heretics (2012); Privilege: Harvard and the Education of the Ruling Class (2005); The Decadent Society (2020); con Reihan Salam, Grand New Party: How Republicans Can Win the Working Class and Save the American Dream (2008).

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