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Referendum Jobs Act: il miraggio del quorum, l’illusione dell’articolo 18 e l’altalena delle astensioni

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L’Ipsos ha reso noto un sondaggio sui votanti nei referendum dell’8 e 9 giugno (4 sul lavoro e 1 sulla cittadinanza) dal quale (si veda la tabella) risulta netto il fallimento del quorum e quindi l’invalidità della consultazione.

Avvicinandosi l’appuntamento con le urne si intensificano le polemiche, quasi sempre a senso unico; ovvero è la Cgil (che ha presentato i quesiti e raccolto le firme) e che ha arruolato nell’impresa le sinistre, che si agita nell’indifferenza dei partiti di maggioranza, i quali hanno dato indicazioni per la non partecipazione al voto.

Come capita spesso c’è stata qualche sbavatura che ha fornito un po’ di ossigeno a un’opposizione “clamans in deserto”: il presidente del Senato Ignazio La Russa, dimenticando il suo ruolo istituzionale, ha dichiarato che farà campagna elettorale perché gli elettori stiano a casa. Nei giorni precedenti la polemica aveva preso di mira tutta la maggioranza, rea di attentato alla democrazia per la posizione assunta sul voto, come se non fosse invalso l’uso di boicottare i referendum avvalendosi della rendita di posizione garantita dal non voto per il mancato raggiungimento del quorum.

Nel referendum sui quesiti radical-leghisti sulla giustizia il Pd diede libertà di voto, mentre i DS nel 2003, con segretario Piero Fassino, diedero l’indicazione del non voto su un quesito della Cgil sull’articolo 18 dello Statuto. Nel 2017, quando si votò per il referendum sulle trivellazioni in mare, il Presidente del Consiglio e segretario del PD Matteo Renzi rivendicò la legittimità dell’astensione, definendo il referendum “una bufala”. Tesi simili espresse anche il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, difendendo il diritto all’astensione e giudicando l’iniziativa “inconsistente e pretestuosa”.

Poi – siamo onesti – accertato che il non voto è un diritto come il voto, la questione si sposta sul piano politico. Per quanto si possa avere un’opinione negativa dei dirigenti dei partiti della maggioranza, è difficile immaginare che siano tanto ingenui da regalare – inviando gli elettori ai seggi – il raggiungimento del quorum e una vittoria del sì all’opposizione sindacale e politica su norme di cui il centro destra non porta alcuna responsabilità perché è quasi tutta farina del sacco di governi di centro sinistra a guida dei riformisti del Pd.

Nessuno può sostenere che il governo subirebbe una sconfitta in caso di vittoria del sì ed è proprio questa estraneità della maggioranza a depotenziare i referendum, inizialmente pensati come corollari del referendum sulla legge Calderoli (il cui quesito abrogativo non è stato ammesso dalla Consulta), che avrebbe prodotto sicuramente una maggiore mobilitazione sia delle forze delle minoranze che della maggioranza.

Una battaglia persa tra Landini, Schlein e il Jobs Act

Ma Landini “l’hanno rimasto solo”. Ha trovato solidarietà solo in Elly Schlein, che ha deciso di coinvolgere il Pd in una battaglia perduta, per motivi poco chiari.

Il governo non ha neppure incaricato – come invece avviene di solito –  l’Avvocatura dello Stato di una difesa di ufficio delle norme sub referendum in udienza alla Consulta, perché si tratta di un conflitto tutto interno alla sinistra: una vendetta di Maramaldo Landini contro Matteo Renzi alias Francesco Ferrucci e il suo governo.

La sinistra reazionaria (copyright Tony Blair) vuole cancellare quanto fatto dalla sinistra riformista mentre era al governo. Il saracino della giostra è il jobs act che è il nome assunto (nella metafora di una parte per il tutto, visto che il ‘’pacchetto’’ contiene altri dlgs) dal decreto legislativo  n.23/2015 che ha istituito il contratto a tutele crescenti. Un istituto già depotenziato nei suoi principali contenuti innovativi in materia di licenziamento da una discutibile giurisprudenza della Corte Costituzionale, tanto che i giudici delle leggi, nell’ammettere il quesito, si sono spinti fino a sottolinearne la pratica inutilità.

Infatti, suggeriamo a chi volesse farsi un’idea compiuta e imparziale di scaricare dal web la sentenza n. 12 del 7 gennaio 2025 con la quale i giudici delle leggi hanno ammesso i quesiti referendari.

La Consulta smonta il mito del ritorno all’articolo 18

Prima di passare alla parafrasi della sentenza, proviamo a riassumerne il senso. La Consulta afferma che non avrebbe potuto non ammettere i quesiti poiché vi erano tutti i requisiti richiesti , ma si spinge fino a sottolinearne la pratica inutilità, come se volesse avvertire l’elettorato  di correre il rischio di pronunciarsi su di un malinteso prodotto da una “pubblicità ingannevole”; ovvero a credere  sul ripristino – in caso di vittoria dei Sì – del leggendario articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, mentre questo effetto non ci sarebbe. “I promotori rilevano, in particolare, che l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 determinerebbe – è scritto nella sentenza del 7 gennaio 2025 – la riespansione della disciplina di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. In caso di abrogazione del dlgs n.23, invece, la disciplina uniforme del licenziamento diverrebbe quella sancita, nell’articolo 18 novellato, dalla legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro), che, nel caso del licenziamento per giustificati motivi oggettivi (economici) illegittimi, ha già messo in discussione la sanzione della reintegra, assumendo come dato generale il risarcimento economico. La Corte poi richiama tutte le precedenti decisioni assunte a modifica della normativa del decreto n.23/2015 ai fini di una maggiore tutela del lavoratore ed elenca i casi in cui l’approvazione del quesito abrogativo determinerebbe un arretramento della tutela stessa. 

Scheda:

Modifiche ai fini della maggior tutela del lavoratore derivanti da sentenze della Consulta

Sulla tutela indennitaria hanno inciso le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, all’esito delle quali è venuto meno l’automatismo di calcolo dell’indennizzo previsto solo per i licenziamenti soggetti al d.lgs. n. 23 del 2015, che “è ora fissato in una forbice tra un minimo e un massimo e non è più quantificato in modo rigido unicamente secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio” (sentenza n. 7 del 2024).

Quanto, invece, alla tutela reintegratoria, la sentenza n. 22 del 2024, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 per eccesso di delega, limitatamente alla parola “espressamente”, ha realizzato un significativo ampliamento del campo di applicazione della tutela reintegratoria “piena”: per effetto di questa pronuncia, infatti, il regime del licenziamento nullo intimato ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 trova oggi applicazione sia nel caso in cui nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa e testuale sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, ma sia possibile rinvenire, comunque, il carattere imperativo della prescrizione per la presenza di un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

Infine, la sentenza n. 128 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo in esame, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria “attenuata”, ivi riservata alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, si applichi, in luogo di quella meramente indennitaria originariamente prevista, anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale rimane estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.

Le minori tutele per il lavoratore che deriverebbero dall’abrogazione in toto del decreto n.23/2015

Resta, comunque, che, in controtendenza rispetto al complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita, la disciplina di cui al d.lgs. n. 23 del 2015  in alcuni casi particolari comporta un ampliamento delle stesse.

Ciò si verifica nelle ipotesi del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore prima del superamento del cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, secondo comma, codice civile, all’esito della citata sentenza n. 22 del 2024 di questa Corte) e in quelle in cui il giudice accerti che il licenziamento intimato per disabilità fisica o psichica del lavoratore è ingiustificato perché l’inidoneità allo svolgimento delle mansioni assegnategli “non [era in realtà] riconducibile ad una condizione di disabilità” (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 maggio 2024, n. 14307). In questi casi, infatti, è garantita la tutela reintegratoria “piena”, anziché quella “attenuata” prevista dall’art. 18 statuto lavoratori.

Parimenti di favore è l’estensione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 9, comma 2) ai licenziamenti intimati dalle cosiddette organizzazioni di tendenza, esclusi invece dal campo di applicazione dell’art. 18 statuto lavoratori.

Conclusioni

Il quesito referendario – sottolinea la Corte – punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente. In sostanza – afferma la Corte – non è vero che in caso di vittoria del referendum si torni ai fasti dell’art.18; è vero, invece, che in questi dieci anni la giurisprudenza costituzionale aveva demolito in molti aspetti il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e che se dovesse passare il referendum vi sarebbero più svantaggi che maggiori tutele per i lavoratori.

La presa di distanza della Corte diventa ancor più evidente nel seguente brano della sentenza:

“La circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito medesimo. Questo chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione”.

In altre parole: i guai ve li siete andati a cercare da soli; noi non potevamo impedirvelo perché gli aspetti formali del referendum erano regolari; se un giorno dovreste accorgervi che vi hanno ingannato sulle aspettative non fatevela con noi che vi avevamo avvertiti.

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