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Racconto della domenica: “Fiori” di Armando Ventorano

Fu un’imprevedibile quanto banale associazione mentale a fargli ritrovare quelle parole proprio lì, in quel momento.

Stava passeggiando tra i colorati sentieri del cimitero diretto alla nicchia in cui stava stipato suo padre, forse l’unica persona al mondo che avesse mai odiato. 

No dai, non scadiamo nei luoghi comuni, ho solo pensato di odiarlo

Le occasioni in cui andava a trovarlo in quella pacifica oasi di vegetazione, fiaccole e mendicanti erano piuttosto rare, un po’ per ragioni logistiche, visto che non tornava più tanto spesso al paese, un po’ perché non voleva sorprendersi ad andarci di malavoglia. Suo padre era ospitato in una cripta appartenente a un’altra famiglia, questo faceva sì che il suo nome e la sua foto spiccassero tra le altre come l’opzione esatta nella domanda più facile di un quiz televisivo. Preferiva andare lì da solo, così da sentirsi libero di guardarlo negli occhi e parlargli ad alta voce come fanno le vedove. 

Mi sono anche messo a piangere una volta. Solo poche gocce però.

Quella domenica fu molto sorpreso di trovare, ai piedi dell’angolo dedicato a suo padre, un vaso di cristallo con dentro un grosso girasole. Non era la prima volta che qualcuno lasciava lì dei fiori ma era quasi certo di non aver mai visto un girasole in un cimitero. Prima, molto prima di chiedersi chi poteva essere stato, si ritrovò in bocca la frase che lo scaraventò in un inatteso flashback: Sono morta in un grande girasole.

Sorrise.

Era a letto con Clara, la prima ragazza con cui aveva fatto l’amore. 

Nel senso che ci ero andato a letto perché ne ero innamorato, non per avere qualcosa da dire agli amici.

In effetti le sue esperienze passionali precedenti non erano state brillanti. 

Intendiamoci, quello deludente ero io, anche se spesso raccontavo l’esatto contrario. La verità era che ci avrei riprovato con ognuna di loro se solo mi avessero concesso un’altra chance. 

L’aveva conosciuta per caso durante il trasloco da una zona all’altra di Roma. Lui era inciampato sotto il peso di alcuni scatoloni e lei si era offerta ridacchiando di dargli una mano, dimostrando una forza sorprendente rispetto alla sua figura minuta. Scoprì che abitava proprio nel palazzo di fronte a quello che lui stava lasciando. Se si fossero incontrati appena un anno prima, la loro relazione sarebbe stata più comoda; ora invece per vederla era costretto ogni volta ad affrontare il girone dei mezzi pubblici diurni, pomeridiani, notturni e spesso scioperanti. Molte delle loro conversazioni iniziavano proprio con delle filippiche contro quei cafoni degli autisti.

Potrei raccontarne tante su quei pezzi di merda. Lasciamo stare.

Condividevano poco, anzi per molti versi erano assolutamente agli antipodi, eppure, chissà come, tutto sembrava funzionare. Forse il segreto stava proprio nella grandissima intesa sessuale, dove l’esuberanza e la curiosità di lei combaciavano perfettamente con lo sperimentalismo inespresso e un po’ pigro di lui.

Fosse stato per lei l’avrebbe fatto continuamente. Io invece ero più per la qualità.

Quegli amplessi teneri e poetici rendevano entrambi sempre più docili e soddisfatti. Gli amici di lui dicevano che da quando Clara era entrata nella sua vita era diventato meno polemico e pure un po’ più simpatico.

Su questo non sono mai stato d’accordo.

Nessuno dei due si sentiva oggettivamente attraente eppure la constatazione di riuscire a mandare in visibilio l’altro con un niente li elettrizzava. A lui ad esempio bastava soffiarle forte nell’orecchio per vederla partire in quarta, mentre lei riusciva a renderlo inerme accarezzandogli le vene bluastre sporgenti dal polso. Ciò che però lo colpiva in maniera crescente era l’immaginario inesauribile con cui Clara condiva i loro rapporti. In particolare si ricordava dei fiori, principali protagonisti del suo piacere. 

Forse però è più opportuno cominciare dai colori.

Tutto era iniziato coi colori. “Era verde chiaro”, “giallo dorato striato di fucsia”, “stavolta era un bel blu profondo”, “rossissimo, con qualche venatura viola”, queste le frasi che Clara usava per descrivere ciò che aveva provato durante il climax. Era il suo modo per fargli sapere “com’era stato”, per rispondere a quella domanda che tutti i maschi si fanno ma a cui solo i meno delicati danno voce. Sintetizzava tutto così, senza bisogno di aggiungere altro, prima di godersi in religioso silenzio l’estasi del post. 

Si vergognava tantissimo a pronunciare la parola “orgasmo”. Quando proprio non poteva farne a meno, lo diceva a voce bassa.

Una volta lei gli spiegò che l’intensità del suo piacere era proporzionale alla gradazione dei colori che vedeva: più erano scuri più era stato bello. Il massimo quindi doveva essere il nero, colore che però lui non riuscì mai a ottenere per quanto si sforzasse di miscelare meglio che poteva le sue abilità cromatico-amatorie. 

Man mano che la loro relazione maturava, i colori furono gradualmente spodestati dai fiori. Lei amava molto la natura e gli animali anche se lui, figlio delle metropoli, provava un’innata ostilità verso tutto ciò che non contenesse cemento oltre a un odio profondo nei confronti di insetti e cani. La rivoluzione dei fiori rese il concetto di piacere molto più sfumato, meno misurabile. La pur imprecisa matematica delle tinte lasciava finalmente spazio all’arte dell’immagine, alla pura e inafferrabile suggestione. Lui non era in grado di stabilire se il papavero fosse meglio della ginestra, non aveva idea se era stato più bravo nell’evocare un’orchidea o un nontiscordardimé. Però fu sicuro di averla resa felice quando una volta lei, crollando, gli sussurrò: “Sono morta in un grande girasole”. Il fatto che lei avesse tirato in ballo la morte nel momento in cui la vita si manifesta con tutta la sua forza, lo lasciò piacevolmente sconvolto. Clara iniziò a far sbocciare fiori uno dietro l’altro, sempre più particolari e colorati, tanto che di alcuni lui ignorava persino l’esistenza. A volte, dopo che si erano rivestiti, lei gli si avvicinava in una goffa imitazione di Nilla Pizzi e cantava “Graaazie dei fiooor…” tenendo il pugno sulla bocca a mo’ di microfono.

La loro felicità sembrava inesauribile al punto che lui, trascinato dalle metafore floreali, paragonava spesso i loro sentimenti ai fiorai ambulanti di Roma, quelli che stanno sul ciglio dei marciapiedi e che anche di notte non chiudono mai.

Poi l’ho scoperto perché non chiudono mai. Una volta alle tre del mattino mi sono avvicinato a uno di loro e gliel’ho chiesto. Ha sorriso lasciando intuire che non ero il primo a fargli quella domanda e poi ha detto che è per via di un’ordinanza del comune. Visto che gli è permesso usare solo pochi metri quadrati di suolo pubblico, le bancarelle e i gazebo che possono montare non sono mai abbastanza grandi da chiuderci dentro tutte le loro piante. L’unica soluzione è quindi restare aperti ventiquattro ore su ventiquattro, facendo la veglia a turno, come un avamposto militare. E io che pensavo nascondessero qualche strano traffico. 

I fiori restarono sempre il soggetto principale delle visioni di Clara, anche se talvolta sparivano inspiegabilmente in favore di immagini inedite e spesso decisamente enigmatiche. Una volta si era ritrovata distesa in uno sterminato prato verde, cosa a cui lui per ovvie ragioni non fece troppo caso. Restò invece piuttosto interdetto quando un paio di settimane dopo lei disse: “Mi avevi promesso fiori e invece erano barche a vela”. La beatitudine con cui pronunciò la frase gli permise di scacciare subito il timore di una prestazione poco entusiasmante ma gli sarebbe piaciuto approfondire il significato di quella strana visione. 

Più che altro sarebbe stato divertente inaugurare un nuovo filone marinaresco, anche perché lei adorava i film di pirati. Invece le barche non tornarono più. Adesso che ci penso anche la morte nel girasole ci fu solo quella volta.

Forse proprio per quello che il girasole trovato lì in pieno cimitero l’aveva trascinato così irresistibilmente indietro nel tempo. Erano anni che non associava più i fiori al sesso. 

E pensare che quando gli adulti spiegano la riproduzione ai bambini iniziano sempre dall’ape che impollina il fiore. 

Per un momento sperò che fosse stata proprio Clara a lasciare il girasole, con la doppia funzione di omaggio e richiamo, un modo discreto e inequivocabile di dirgli: “Sono tornata”. Ma no, era assurdo che si fosse presa la briga di trascinarsi fin lì, e poi non l’avrebbe mai fatto in quel modo. La morte, quella vera, non faceva per lei, non era il suo campo.

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Lasciò il loculo con la mente ancora fissa sul fiore e le sue conseguenze, tanto che finì per ritrovarsi improvvisamente colpevole di un’imbarazzante erezione. Si sedette su un muretto lì vicino per evitare che qualche moralista dalla coscienza imbrattata lo notasse. Abbassò di poco la testa e si ritrovò occhi negli occhi con suo padre, la cui foto continuava a guardarlo pacioso dalla piccola finestra della cripta. Arrossì come colto sul fatto; poi, dopo una rapida alzata di spalle, gli rivolse un largo sorriso di complicità.

L’autore

Armando Vertorano nasce nel 1980 in provincia di Salerno. Dopo una laurea in Scienze della Comunicazione, si trasferisce prima a Torino, dove frequenta un master in Scrittura ed editing di prodotti audiovisivi, e poi si trasferisce a Roma dove gli propongono un lavoro bizzarro: scrivere domande per quiz televisivi. Nel tempo libero scrive racconti, romanzi, sceneggiature e canzoni. Con goWare ha pubblicato la raccolta Dindalé, da cui è tratto questo racconto.

Categories: Arte