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Piccole e medie imprese, nulla è più come prima: ecco perchè

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Qualcosa di sconvolgente

Giulio Sapelli ed Enrico Quintavalle sono una coppia così ben assortita che, per capacità, competenze ed esperienze, potrebbe trionfare nella finale del doppio di Wimbledon. Sapelli studia da decenni l’ontologia e la fenomenologia dell’economia polifonica, della quale le piccole e medie imprese sono un pilastro. Quintavalle lavora sul campo e più di ogni altro ha l’orecchio proprio dentro al secchio. Dalla collaborazione dei due è nato un libro di grandissimo interesse e anche accessibile Nulla è come prima. Le piccole imprese nel decennio della grande trasformazione (Guerini, 2019, pp. 200). Il libro sarà disponibile in edizione cartacea e digitale dal prossimo 29 maggio 2019.

I due autori partono da un assunto che hanno voluto veder stampato anche in copertina. Questo:

Quando, nel settembre 2008, i media di tutto il mondo trasmettevano le immagini degli impiegati di Lehman Brothers che lasciavano per sempre i loro posti di lavoro, l’opinione pubblica mondiale comprendeva che qualcosa stava cambiando per sempre.

E in effetti è successo. In questi dieci ultimi anni Le piccole e medie imprese hanno attraversato una dura e crudele selezione ma nel loro complesso sono state capaci di sopravvivere e di trasformarsi. Anche l’avvento della nuova economia, il secondo tsunami ad abbattersi sul sistema economico delle pmi, è stato sì un disastro, ma anche un guanto di sfida e un’opportunità non da poco per allargarne il raggio d’azione delle pmi. Grazie all’e-commerce, alla coda lunga, all’azione dei motori di ricerca il «valore artigiano», come lo chiama Fumagalli nella introduzione al libro, dei manufatti delle piccole imprese ha avuto la possibilità di presentarsi su uno scenario globale.

Oltre la dimensione economica la piccola e media impresa è anche una forma di organizzazione umana che merita di esser indagata in ogni suo aspetto e sfaccettatura. Questo il tentativo che Giulio Sapelli compie nella riflessione, tratta dal libro, che vi proponiamo qui di seguito.

La copertina del volume di Giulio Sapelli e Enrico Quintavalle disponibile in libreria e in rete sia in formato cartaceo che digitale.

Questo nostro lavoro vuole essere un ulteriore passo innanzi per comprendere il posizionamento delle piccole imprese nell’universo delle popolazioni organizzative attive sui mercati, attraverso lo studio di un cluster di popolazioni specifico e ben definito storicamente come le piccole imprese italiane.

Vuole altresì, attraverso questo sforzo cognitivo, contribuire all’elaborazione di uno strumento euristico che ancora non abbiamo: una teoria dell’impresa.

Dell’impresa tout court, iniziando da quell’impresa che è per sua natura ontologica al confine tra la società segmentata — la famiglia e le comunità — e la società differenziata — le società nazionali e internazionali –, oggi sovradeterminate dalla finanza capitalistica e da un cluster inusitato di ondate Kondratiev: dalle scienze del Dna ai campi magnetici, al mining, all’Itc. Si tratta di passare dal concept alla teoria.

Nulla di più idoneo per far ciò che passare dall’astratto al concreto e poi tornare all’astratto, per giungere in tal modo alla teoria.

Fonte: Sapelli, Quintavalle, “Nulla è come prima”, cit., pag. 17

La piccola impresa come fenomeno storico concreto

Siamo convinti, sulla scorta dell’insegnamento della Penrose, che le imprese siano popolazioni organizzative che possono essere tanto a direzione manageriale quanto a direzione che chiameremo diretta, ossia fondata sulla proprietà che non delega la direzione.

La piccola impresa, allora, si differenzia da tutte le altre forme di organizzazioni produttrici di valore in primo luogo per essere fondata sulla relazione personale anziché su un sistema di ruoli; e questo perché, seguendo Cajanov, la piccola impresa e quindi l’impresa artigiana in specie si sviluppa, cresce, declina, confrontandosi con l’ambiente esterno in un percorso di adattamento che ne garantisce la sopravvivenza avendo come regolatore non solo il profitto capitalistico — che le consente di collocarsi nell’economia monetaria e della produzione di merci — ma, innanzitutto ossia in prima istanza nei processi di sopravvivenza, grazie alla famiglia, alla famiglia biologica, naturale, tipica della segmentazione sociale anziché della differenziazione che invece prevale nel capitalismo dispiegato e nella grande impresa privata manageriale o di proprietà statale manageriale.

La piccola impresa è la prova della validità delle teorie di Tönnies, per il quale la comunità si riattualizza nella società attraverso la riproposizione dei legami agnatici tipici delle famiglie, oppure della costituzione di comunità di pari (su cui la filosofia politica e la sociologia in lingua tedesca hanno riflettuto per almeno due secoli, da Brunner, a Simmel, a Weber e Sombart e tutta la «scuola storica»).

È stato Alfred Marshall (1842–1924), il più influente ecomomista del suo tempo ad apprezzare il modello cooperativo come forma non predatoria di proprietà collettiva

Comunità: come era un tempo tipico degli ordini cavallereschi per finire con le sempre attualissime imprese cooperative che attrassero la meditata ammirazione di Alfred Marshall nei suoi Principi di economia politica e che continuano a riprodursi incessantemente come le altre forme di allocazione dei diritti di proprietà collettiva di piccoli gruppi o generatrici di imprese che non hanno nel profitto altro che un regolatore e non un assetto proprietario come accade su scala planetaria nelle imprese not for profit oppure nei common goods.

Il fenomeno storico-concreto delle piccole imprese artigiane italiane è esemplare a questo riguardo, ossia è l’illustrazione concreta della vitalità della poligamia delle forme dello scambio e della produzione.

Dinamica del Pil pro capite nei quinquenni 2007–2012 e 2012–2017 nei principali paesi Ue — variazione % 2007–2012, 2012–2017 e variazione % cumulata 2007–2017, prezzi costanti. Fonte: Sapelli, Quintavalle, “Nulla è come prima”, cit., pag. 129. Questo schema, elaborato dagli autori, mostra la profondità della crisi italiana anche in relazione alle altre grandi economie europee.

La grande recessione del 2007

Se si guarda a cosa accadde in Italia dopo la grande recessione del 2007, si ha un’altra esemplare dimostrazione di ciò. Da tale recessione ancora non si è usciti, per ripiombare di nuovo in una incipiente e prossima depressione mondiale di grande intensità, come s’intravede dal blocco della crescita cinese e dalla crisi in cui sono immerse le grandi corporation nordamericane e le grandi banche universali, in primis quelle tedesche (oggi come nell’Ottocento e nel primo Novecento).

L’acquisto di azioni proprie per sostenere i valori di Borsa che gonfiano i piani manageriali di stock option e le leve finanziarie unite alla produzione di ersatz money sotto forma di derivati da parte delle grandi banche universali (il mostruoso e non benefico riproporsi di quel prodigioso costrutto che furono le grandi banche miste dell’Ottocento capitalistico e imperialistico), hanno via via disgregato le grandi corporation che hanno perduto, dopo il managerial capitalism sostituito dall’owner capita­ lism delle stocks options, ogni punto di riferimento, tra la rarefazione verticistica della proprietà, la moltitudine delle cuspidi di comando: in un dilagare della disuguaglianza che disgrega la società e con essa anche quella che un tempo era l’alta direzione d’impresa.

Mentre tutto ciò s’invera e si manifesta insieme in una crisi degli equilibri mondiali terrificante, le piccole imprese artigiane hanno affrontato, come meteore nei cieli planetari del capitalismo mondializzato, la deflazione europea secolare da dominazione politica tedesca e ora affronteranno la depressione internazionale con una resilienza inaudita e inusitata: non prevista dagli economisti neoclassici, come ben spieghiamo in questo libro.

Valore nozionale dei derivati negoziati fuori Borsa sul Pil mondiale in Usd correnti. Elaborazione degli autori su dati Bri. Fonte: Sapelli, Quintavalle, “Nulla è come prima”, cit., pag. 105.

La crisi del credito

E questo «fa» il problema storico, sociologico, antropologico e infine economico: è il passaggio decisivo da compiere sul ponte tibetano che attraversa la valle tra il concept e la teoria: dalla piccola impresa risaliamo alla teoria dell’impresa.

Grazie alla luce che traspare dal cielo delle orbite planetarie d’impresa si comprende meglio il problema del credito: esso è diventato cruciale perché si sono intrecciate la crisi delle piccole banche territoriali cooperative e quella delle imprese piccole e medie, nella trasformazione delle banche miste in produttrici di rendita finanziaria anziché di profitto realizzato grazie alla concessione di credito alle famiglie e alle imprese.

La conseguenza sono stati due decenni circa di deflazione e quindi di caduta dei tassi di profitto, con banche centrali che si ostinano a ritenere che sia la politica monetaria e non la ripresa degli investimenti e quindi del profitto capitalistico la chiave di volta della crescita.

Ecco i bassi tassi di interesse che drenano risorse dalle piccole banche soffocate dall’iper-regolazione eurocratica e non, con redditività negativa delle stesse; così generando eccessi di costo per via delle moltitudini di contratti costosi in misura sempre più rilevante, senza poter sperare, per via dell’arretratezza tecnica (per le resistenze all’adozione delle tecnologie digitali senza eccessi di disintermediazione) e quindi la scarsità di innovazioni che spostino la produzione di algoritmi dalla finanza distruttrice di valore a vantaggio della rendita verso, invece, la buona finanza che favorisce la circolazione del capitale evitando l’eccesso di bolle speculative.

L’esaurimento delle internazionali domande interne per le crisi di sottoconsumo arginate illusoriamente con l’eccesso della rendita e delle innovazioni tecnologiche non creatrici né di valore né di produttività ha ingenerato l’attuale situazione di crisi di un tardo capitalismo che non sarà salvato dal finanziario «prendere tempo» (i Grundrisse del vecchio Marx sono sempre attualissimi…).

L’economia circolare

La polifonia delle forme d’impresa è una delle architravi etiche del nostro avvenire.

Il ripensamento in corso nelle centrali del capitalismo oligarchico e finanziarizzato conduce ciò che rimane dei gruppi dirigenti delle grandi imprese e ciò che rimane delle classi politiche disintermediate dalla distruzione incipiente delle classi medie a cercare una salvezza — ideologica prima che economica — nei paradigmi dell’economica circolare e della sostenibilità, che altro non sono che la riproposizione in forma drammatica delle responsabilità dell’alta direzione che all’inizio degli anni Ottanta del Novecento anche chi scrive contribuì ad elaborare sotto le forme della Corporate Social Responsibility.

Oggi a essa si dà il nome di «economia circolare» e ci si illude di poterla inverare con accordi multilaterali tra Stati, ricadendo nell’onnipresente errore dello statalismo pervasivo anziché perseguire la via della benevolenza autoregolata d’impresa, che è la sola strada non per guadagnare tempo, ma per ricercare una trasformazione riformista del capitalismo dinanzi alla caduta tendenziale del saggio di profitto e alla perdita drammatica di legittimazione dell’industria, della finanza e dell’impresa tout court nei confronti dei popoli che si levano come minacciose onde contro i costrutti sociali imprenditoriali (quale forma di allocazione dei diritti di proprietà essi abbiano) che hanno costruito il mondo in cui siamo immersi e in cui dobbiamo continuare a vivere pensando oltre i conformismi e le mode dello Zeitgeist.

La polifonia delle forme d’impresa e la buona governance sono gli architravi culturali e morali della possibilità di continuare a costruire il futuro, grazie alla diversità delle forme d’impresa socialmente trasformate e alla potenza della soggettività della persona.

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Categories: Economia e Imprese