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Parmigiano Reggiano, Deserti: “Le quote di produzione fanno più ricca l’intera filiera”

FIRSTonline

Le quote di formaggio varate dopo la fine delle quote latte Ue hanno creato le condizioni di stabilità e crescita del settore. E il prezzo per gli allevatori è balzato da 50 a 70 centesimi al litro    

Il Parmigiano Reggiano rafforza il suo primato nella classifica delle eccellenze agroalimentari made in Italy che viaggiano sui mercati domestici e internazionali con la targa europea Dop, che sta per Denominazione di origine controllata. 

Con un balzo di quasi il 20% porta il suo fatturato alla produzione a quota 1,2 miliardi  (il doppio se calcolato al consumo) scavalcando di un centinaio di milioni gli storici cugini rivali del Grana padano. 

I dati, riferiti al bilancio dell’annata 2017, sono quelli sfornati dall’annuale report Ismea-Qualivita, la dettagliata analisi economica del più vasto pianeta delle denominazioni geografiche, di cui First&Food ha già pubblicato un ampio resoconto in occasione della presentazione dello studio.  

Siccome ai vincitori è sempre dovuto il posto d’onore, abbiamo pensato di approfondire le ragioni di un balzo così importante del re dei formaggi, la più grande Dop a livello mondiale

In questa intervista il direttore generale del Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, Riccardo Deserti, spiega le ragioni di questo successo.

A cosa attribuite una crescita così importante?

Siamo molto soddisfatti di questo risultato, i consumi hanno tenuto e l’export continua ad andare bene. Ma siamo doppiamente soddisfatti perché questi risultati che arrivano dal mercato sono anche il frutto della complessa riorganizzazione dell’intera filiera, sia dal punto gestionale che produttivo.

Ci può spiegare cos’è cambiato?

Se si dà uno sguardo alle statistiche storiche delle quotazioni del Parmigiano reggiano si vede come la curva dei listini alla produzione alterna grandi impennate a rapide discese, un’altalena che non faceva certo bene alla stabilità economica dell’intera filiera .

 Ora le cose sono cambiate, abbiamo creato le condizioni di stabilità e di crescita, sfruttando la possibilità, prevista dalla normativa europea che, in deroga alle normativa antitrust, all’indomani dell’abolizione delle famigerate quote latte ha permesso l’autodisciplina produttiva per fare da argine al prevedibile ritorno dei surplus di latte.

Vuol dire che il temuto salto nel buio per la fine delle quote latte è stata la molla che ha fatto scattare questa riorganizzazione? Ci può spiegare come funziona?

Semplificando, siamo passati dalle quote latte Ue che per decenni hanno fatto da tappo alle eccedenze comunitarie, alle quote di produzione di formaggio assegnate ai caseifici.  Non sono quote fisse, possono essere modificate in base alle esigenze di mercato. Insomma una crescita pilotata, come dimostra l’aumento del 13% del latte trasformato, con risultati che si annunciano positivi anche per il bilancio del 2018.

Che benefici hanno avuto gli allevatori da queste performance?

Il dato di più immediata lettura è il positivo trend del prezzo del latte liquidato ai 2.900 allevatori che conferiscono in un anno circa 20 milioni di quintali di latte ai 330 caseifici del nostro comprensorio: attualmente per i nostri associati il prezzo viaggia anche oltre i 70 centesimi al litro, mentre prima a stento se ne prendevano 50.

Ma ci sono anche altre significative ricadute: così strutturate, le quote di produzione di formaggio portano in dote un importante valore patrimoniale all’aziende titolare, un asset che può rendere meno problematico l’accesso al credito. Azzardando un parallelo con un altro prodotto blasonato come la nostra Dop, possiamo dire che le quote produttive stanno al parmigiano reggiano come le quote di vigneto alla produzione di Champagne.

Come vanno le vendite sui mercati esteri, dove il parmigiano è sempre citato come il principale bersaglio dei falsari delle eccellenze agroalimentari Made in Italy?

La quota dell’export vale già il 40% della produzione, circa 600 milioni di euro, e il trend è attualmente in crescita intorno al 4-5 per cento. Le principali destinazioni sono i mercati europei e il Nord America; stiamo però lavorando molto per rafforzare la nostra presenza nei Paesi del Golfo e del Sudamerica.

Dal punto di vista commerciale quali sono le strategia del Consorzio  per conquistare nuove quote di mercato?

Il punto di partenza mira sempre a valorizzare la forte distintività del nostro formaggio,la qualità del prodotto e il forte legame con il territorio dove è prodotto. 

Altro obiettivo è rafforzare la gamma di fascia alta, esaltando le stagionature. Un percorso già avviato con buoni risultati, visto che a fronte di una maturazione minima di 12 mesi prevista dal nostro disciplinare di produzione, le forme con stagionatura di 30 mesi pesano già per circa il 15% della produzione totale. L’intenzione ora è di alzare l’asticella di invecchianento fino a stagionature di 40-45 mesi. Un po’ come succede per vini e spumanti con i loro cru e millesimati.

 E il mercato interno  come si sta muovendo

Nella Grande distribuzione i prezzi sono cresciuti del 2-3/%, con una sostanziale tenuta dei volumi. In crescita il settore Horeca e anche le vendite dirette da parte dei caseifici che scommettono, anche sull’e-commerce.

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