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OLIMPIADI – Nel 1908 Dorando Pietri vince la maratona ma viene squalificato e diventa leggenda

1908: non è solo l’anno delle prime Olimpiadi di Londra. Nasce la General Motor ed Henry Ford produce il primo modello della Ford T mentre in Virginia muore Thomas Selfridge passato alla storia per essere stato la prima vittima di un incidente aereo. In Austria l’imperatore Francesco Giuseppe proclama l’annessione della Bosnia ed Erzegovina innescando i prodromi che porteranno alla prima guerra mondiale. In Italia in ottobre Camillo Olivetti avvia a Ivrea la prima fabbrica di macchine da scrivere. Il 27 dicembre vede la luce il Corriere dei Piccoli. Non passano 24 ore che alle 5.21 del giorno successivo, è un lunedì, la terra trema per un sisma tra i più sconvolgenti che rade al suolo Reggio Calabria e Messina facendo circa 130mila vittima. Una tragedia immane che in Italia chiude un anno in cui l’evento più popolare era diventato la disavventura alle Olimpiadi di un maratoneta emiliano, Dorando Pietri, che ai giochi di Londra si era visto squalificare in una gara che l’aveva visto vincitore, stremato tanto da rischiare la vita ma comunque primo.

Quella squalifica sarà anche la sua fortuna: Arthur Conan Doyle scriverà sul Daily Mail: «Questa sconfitta darà al piccolo italiano maggior celebrità di mille vittorie». E il celebre scrittore non si sbagliava. La regine Alessandra d’Inghilterra gli consegna una coppa piena di sterline, quindi, al termine delle Olimpiadi Pietri viene chiamato in America dove lo coprono di dollari per partecipare a numerose gare. Ha anche l’opportunità di confrontarsi con Johnny Hayes, il campione olimpico di Londra. Il 25 novembre si svolge al Madison Square Garden di New York il grande avvenimento: Hayes contro Pietri nella maratona su una pista allestita per l’occasione. E l’italiano ha così l’occasione di prendersi una rivincita battendo il grande rivale. Pietri correrà ancora fino al 1911 intascando delle cifre straordinarie per quei tempi, anche se l’impresa più grande della sua breve carriera resta quella di essere entrato nella leggenda olimpica senza aver mai vinto una medaglia.

Ma non è solo la squalifica di Pietri a infuocare di polemiche le Olimpiadi che Londra, con un immenso dispendio di mezzi, organizza per la prima volta nel 1908. Simbolo dei giochi e orgoglio architettonico degli inglesi è il White City Stadium, il più grande stadio fino ad allora costruito, un’arena che ospita la pista per il ciclismo, quella per l’atletica e la piscina, capace di contenere 150mila persone, 68mila sedute, realizzato in tempi brevissimi. Tra le novità c’è anche il primo villaggio olimpico. Gli atleti che gareggiano salgono ad oltre duemila, mentre vengono fissate nuove regole per partecipare. Anzi che iscriversi a livello personale come era avvenuto nelle prime edizioni, gli atleti debbono farlo tramite il comitato olimpico della propria nazione. Questo per limitare il numero di partecipanti di una stessa nazione ad ogni singola gara, numero che viene fissato a 12 atleti.

Per il barone De Coubertin, deluso dalle due precedenti edizioni di Parigi (1900) e Saint Louis (1904), c’erano tutte le condizioni perché Londra fosse una sede dei giochi ideale e rassicurante, anche se in verità la prima scelta del barone era caduta su Roma ma il governo italiano con Giolitti premier aveva risposto no per problemi di budget (gli stessi motivi – la storia si ripete – che hanno indotto Monti nei mesi scorsi a non sponsorizzare la candidatura della Città eterna per i Giochi del 2020). Ma proprio nella solenne inaugurazione del 27 aprile De Coubertin si accorge di essere stato fin troppo ottimista. Gli atleti finlandesi sfilano senza bandiera piuttosto di marciare sotto il vessillo russo. Non pochi rappresentanti irlandesi disertano i giochi all’ultimo momento perché rifiutano di far parte della rappresentativa inglese. Lo spirito olimpico deve fare i conti con l’ingerenza della politica e con i fermenti nazionalistici che avanzano in tutta Europa. Ma è niente di fronte allo sgomento che prova De Coubertin quando al passaggio di fronte al palco reale, il portabandiera statunitense, Ralph Rose, non abbassa la bandiera, come avevano fatto gli alfieri delle altre nazionali: “La bandiera statunitense – spiegherà poi Rose con dura fierezza – non si inchina di fronte a nessun re della terra”.

Un incidente diplomatico che coinvolge le due nazioni sportivamente più forti dei Giochi. Non è un bel inizio. Un gesto che avrà ripercussioni anche sulle gare in quanto i giudici – tutti rigorosamente britannici tra cui lo stesso re Edoardo VII negli sport preferiti dal monarca – probabilmente risentiti dall’atteggiamento degli atleti Usa, li danneggeranno vistosamente con decisioni arbitrali a dir poco contestate. Clamoroso quello che avviene nella gara dei 400 metri corsi in una pista non ancora divisa in corsie. I finalisti sono tre americani e un inglese, Windham Halswelle. Il White City Stadium è una bolgia. Lo starter dà il via e due yankees, William Robbins e John Baxter Taylor cercano di disturbare il britannico per permettere al terzo americano, Carpenter, di vincere indisturbato. Il gioco di squadra riesce, ma il reclamo presentato dagli inglesi viene accolto: i giudici decidono di squalificare Carpenter, che in realtà è l’unico che non ha fatto niente, e di far ripetere la gara. Gli americani non ci stanno e così alla partenza della gara-bis si presenta solo Halswelle che compie la sua passerella solitaria e va naturalmente a conquistarsi l’oro. E’ il più facile e inglorioso oro dei 56 che conquisteranno gli inglesi che, nell’arco dei sei mesi – tanto sono durate le Olimpiadi del 1908 – vincono anche nel calcio, nella pallanuoto, nel polo, nel tiro alla fune, nell’hockey su prato e su ghiaccio. Inglese è anche la stella del nuoto Henry Taylor, che si impone nei 400 e nei 500 stile libero.

Ma nonostante l’ambiente ostile, gli americani, pur perdendo i 100 metri vinti dal sudafricano Walker, fanno il pieno nelle gare di atletica. Ne vincono 15 su 27. Nella memoria resta quella Bibbia agitata nella mano da Forrest Smithson che corre e vince la finale dei 110 metri ostacoli. Ed è americano anche il vincitore della maratona, quella resa celebre dalla squalifica di Pietri. Un risultato frutto anche dell’atteggiamento antiamericano degli inglesi che in questo caso fecero una sorta di autogol. Vediamo perché. È il 24 luglio. Ancora infuocate sono le polemiche per la gara dei 400 metri. Di fronte al castello di Windsor alle 14.33 è la principessa del Galles a dare il via alla maratona. L’arrivo dopo 42,195 km è allo stadio principale davanti al palco reale, dove siedono il re e la regina Alessandra.

Per l’Italia gareggia un giovane garzone di pasticceria che arriva da Carpi proprio nei giorni in cui la sua Romagna più che alle Olimpiadi guarda con magica attrazione al nuovissimo Grand Hotel di Rimini, che è stato inaugurato il 1° luglio. Si chiama Dorando Pietri. Indossa pantaloncini rosso scarlatto e una maglia bianca con il numero 19. Gli inglesi all’inizio vanno forte ma fa un caldo notevole per Londra e i battistrada britannici, esaurita la birra, vengono raggiunti e staccati dal sudafricano Jefferson. Anche lui va forte ma non dura. Pietri comincia a risalire il gruppo e negli ultimi 10 km forza l’andatura. Al 39° km l’italiano raggiunge e stacca Jefferson. Ma la cotta, tremenda e distruttiva, è dietro l’angolo anche per l’italiano: lo sforzo e il solfato di stricnina preso durante la gara – l’antidoping non c’era – gli sono fatali. Entra nel White City Stadium in netto vantaggio ma ha ormai gli occhi fuori delle orbite, come uno zombi, stravolto dalla fatica. Sbaglia direzione, procede a zig-zag, barcolla e cade. Si rialza ma crolla di nuovo per ben quattro volte. Allora un addetto in pista, sembra un megafonista, di certo è un inglese, temendo che l’americano Hayes potesse raggiungere Pietri e vincere l’oro, solleva Pietri e sostenendolo per un braccio lo accompagna fino a tagliare il traguardo.

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La squadra americana presenta, ovviamente, un ricorso e ottiene la squalifica dell’italiano per l’aiuto ricevuto dai giudici di gara. L’irregolarità è lampante ma la vicenda dell’omino che crolla a un soffio dal sogno commuove tutti. De Coubertin, commentando l’esito della maratona di Pietri, lancia il suo celebre «l’importante non è vincere ma partecipare». Lui, Dorando Pietri, sul Corriere della Sera dice: «Io sono colui che ha vinto e ha perso la vittoria». Per l’Italia il primo oro, svanito con Pietri, arriverà nella ginnastica con Alberto Braglia, un modenese che lavora in una panetteria. Il secondo se lo aggiudicherà Enrico Porro, un milanese, nella lotta greco-romana categoria leggeri.

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