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Nuove tecnologie e lavoro: i numeri della rivoluzione che avanza

FIRSTonline

A livello mondiale l’occupazione ha subito rilevanti modifiche, sia nei valori assoluti sia nella composizione, in occasione di ogni cambiamento strutturale dell’economia. Nel lungo periodo però l’occupazione totale, in percentuale della popolazione, è cresciuta ovunque. L’impiego delle macchine negli ultimi 150 anni ha inoltre contribuito in modo rilevante alla diminuzione delle ore settimanali di lavoro per occupato. Nel 1870 in Germania, Svezia e Stati Uniti la durata media della settimana lavorativa oscillava tra le 62 e le 70 ore, nel 2015 i valori si erano ridotti di circa la metà. L’aumento del tempo libero ha portato alla creazione di nuove industrie, come quella del turismo che oggi, direttamente e indirettamente, impiega circa 292 milioni di persone.

Secondo indagini recenti, l’impiego di nuove tecnologie già note determinerà entro il 2030 una riduzione dal 15 al 30% del monte ore di lavoro umano a livello mondiale, ovvero da 400 a 800 milioni di occupati equivalenti a tempo pieno in meno. Nel complesso sarebbero coinvolte circa 2.000 diverse mansioni. I paesi con i salari più elevati sarebbero quelli maggiormente coinvolti in una prima fase. Nello scenario a “velocità media” si avrebbe una contrazione del 26% delle ore lavorate in Giappone, del 24% in Germania e del 23% negli Stati Uniti. Insieme alla perdita di posti di lavoro, è verosimile che nei prossimi decenni la maggiore automazione dei processi produttivi costituirà uno dei fattori che contribuiranno a spostare decine di milioni di occupati in altri settori e a creare nuove mansioni. A parità di condizioni, la maggior parte delle nuove occupazioni dovrebbe derivare soprattutto dalla crescita dei redditi medi dei paesi emergenti, dall’invecchiamento della popolazione e dagli investimenti in infrastrutture fisiche e legate all’uso di fonti di energia alternative.

Al netto dei posti di lavoro persi a causa dell’automazione, si stima che la crescita dei redditi medi nei paesi emergenti potrebbe determinare una maggiore domanda di beni di consumo e di servizi in grado di creare tra i 300 e i 350 milioni di posti di lavoro a livello mondiale entro il 2030.

Voci dal passato

La convivenza tra uomo e macchina non è mai stata semplice. Il tema della minaccia che le macchine rappresentano per il lavoro e il benessere dei lavoratori non è nuovo ma si è sviluppato nel tempo insieme al progredire delle invenzioni stesse. Nel XVIII secolo, in piena prima rivoluzione industriale, in Inghilterra il movimento luddista parlava delle macchine come di uno strumento utile solo a risparmiare sul lavoro dei poveri. Più tardi, negli anni Trenta del Novecento, J.M. Keynes coniò il concetto di “disoccupazione tecnologica”, e quando negli anni Sessanta i computer cominciarono a comparire negli uffici e i robot nelle fabbriche, Kennedy sostenne che la vera sfida era quella di mantenere la piena occupazione negli Stati Uniti in un periodo in cui le macchine stavano sostituendo gli umani. Nel 1964 un gruppo di premi Nobel inviò una memoria all’allora presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson per metterlo in guardia contro i pericoli di una rivoluzione generata dall’uso combinato di computer e di macchine automatiche. Negli anni Ottanta, infine, l’avvento dei personal computer ha provocato una nuova, forte ondata di proteste per la perdita di posti che ne sarebbe derivata.

Nonostante le preoccupazioni, tuttavia, finora la tecnologia ha finito con il creare più posizioni di lavoro di quante ne abbia distrutte. L’automazione di alcuni processi ha liberato lavoro umano che è stato reimpiegato in attività del tutto nuove, come la gestione dei macchinari stessi. Negli Stati Uniti, ad esempio, durante il 19esimo secolo la quantità di materiale tessile grezzo prodotto in un’ora grazie all’impiego dei nuovi macchinari aumentò di 50 volte e il lavoro necessario a produrlo diminuì del 98%. La domanda di prodotti tessili però quadruplicò, grazie proprio alla riduzione del prezzo della materia prima, generando così nuovi posti di lavoro. In generale, sia nei paesi sviluppati sia negli emergenti, in occasione di ogni cambiamento strutturale dell’economia l’occupazione ha subito rilevanti modifiche nei valori assoluti e nella composizione. Negli Stati Uniti, ad esempio, la quota degli occupati totali impiegati in agricoltura è scesa dal 58% circa nel 1850 al 2,5% di oggi, mentre la manifattura è passata dal coprire il 25% dell’occupazione totale nel 1960 a poco meno del 10% oggi. Il fenomeno è rilevabile in molti altri paesi: in Cina la ricomposizione settoriale è stata piuttosto veloce, e in soli 25 anni gli occupati in agricoltura sono passati dal 60% del totale (nel 1990) al 28% (nel 2015).

Nello stesso periodo di tempo in Messico si è passati dal 52 al 13%, mentre in Giappone dal 31 al3,5%, con la manifattura che, dopo aver toccato il punto di massimo in termini di occupazione nel 1973 (25%), copre oggi una percentuale intorno al 13%. A dispetto di tutto ciò l’occupazione totale in percentuale della popolazione è cresciuta ovunque. L’impiego delle macchine ha invece contribuito in modo rilevante alla diminuzione delle ore settimanali di lavoro per occupato osservata negli ultimi 150 anni. Nel 1870 in Germania, Svezia e Stati Uniti la durata media della settimana lavorativa oscillava tra le 62 e le 70 ore, mentre nel Regno Unito era di circa 57. Nel 2015 i valori si erano ridotti di circa la metà: 35 ore in Germania, Svezia e Regno Unito e quasi 39 negli Stati Uniti. L’aumento del tempo libero dal lavoro ha accresciuto la domanda di servizi e portato alla creazione di nuove industrie, come quella del turismo, in grado di creare milioni di posti di lavoro. Secondo la World Tourism Organization oggi a livello mondiale il settore impiega, direttamente e indirettamente, 292 milioni di addetti.

Lavori persi e lavori creati. Cosa c’è di diverso oggi?

Sebbene l’automazione dei processi produttivi non sia, come si è detto, un fenomeno nuovo, la fase attuale presenta tuttavia alcune peculiarità: le nuove tecnologie non solo sono in grado di replicare ciò che riteniamo  possibile per l’umano, ma sono capaci di svolgere attività a livello superiore e con una diffusione potenziale molto più ampia che in passato. Esse inoltre sono “indifferenti al colore dei colletti”, ossia coinvolgono non più solo le attività manuali ma, grazie anche all’impiego dell’intelligenza artificiale, anche quelle che riguardano la sfera della creatività. Il loro impatto sull’occupazione sarà quindi più rilevante. Ciò porta a sollevare una questione fondamentale: quali saranno le conseguenze sul lavoro umano (non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi)? quali le nuove occupazioni e le competenze richieste? Le risposte tentate finora sono ovviamente condizionate dall’orizzonte temporale considerato e dai paesi presi di volta in volta in esame, ma in generale prevedono tutte una sostanziale riduzione dell’occupazione nel breve periodo, cui seguirebbe però la creazione di nuove attività rese possibili, tra l’altro, dall’impiego dei nuovi strumenti e dalla domanda derivante dal maggiore tempo libero a disposizione.

Secondo l’Ocse, a breve termine circa il 9% delle attuali posizioni lavorative sarà (con probabilità superiore al 70%) sostituti da nuovi processi di automazione. Le percentuali variano da un massimo del 12% in Austria, Germania e Spagna a un minino del 6% in Finlandia ed Estonia; l’Italia presenta un valore in linea con la media Ocse, come pure la Francia. Una percentuale molto più elevata di lavori (circa il 25% nella media Ocse) presenta un rischio “medio” (50-70%) di completa automazione, ma è soggetta comunque a cambiamenti tecnologici che nel breve termine cambieranno radicalmente le mansioni richieste. In questo caso l’Italia presenta uno dei valori più elevati (circa 35%), seguita dalla Germania, mentre per Spagna e Francia si stimano percentuali lievemente inferiori. Le mansioni considerate più a rischio di essere sostituite da processi di automazione sono soprattutto quelle che richiedono uno scambio di informazioni elementare, come l’attività di compravendita, e semplici abilità manuali. Vengono, nel breve termine, considerate al riparo dalla “minaccia tecnologica” le occupazioni con un’elevata componente di creatività, quelle che coinvolgono relazioni interpersonali e che implicano abilità relative alla sfera emotiva e alla cura fisica della persona.

Uno studio condotto dall’Univesità di Oxford su un campione di 702 occupazioni ha riscontrato come circa il 47% dei lavoratori negli Stati Uniti sia impiegato in mansioni che hanno una elevata probabilità di essere automatizzate nel prossimo futuro. Studi riferiti ad altri paesi avanzati (come Regno Unito e Giappone) indicano percentuali simili. Un’interessante ricerca condotta da McKinsey a fine 2017 su un campione più ampio arriva a risultati per alcuni versi simili: a seconda che il cambiamento del paradigma tecnologico avvenga a una velocità “media o elevata”, si stima entro il 2030 una perdita delle ore di lavoro umano a livello mondiale che va dal 15 al 30%, cioè una riduzione di occupati equivalenti a tempo pieno da circa 400 a 800 milioni di individui. Questo con il solo impiego di tecnologie già note. Nel complesso sarebbero coinvolte circa 2.000 diverse mansioni. L’impatto sarà diverso tra settori e paesi: negli Stati Uniti, ad esempio, nel manifatturiero e nelle vendite al dettaglio gli occupati trascorrono circa un quinto della loro giornata lavorativa nello svolgimento di attività fisiche ripetitive che possono già da ora essere sostituite da tecnologie conosciute. Nel manifatturiero, mansioni come quelle degli addetti alle saldature sono al 90% sostituibili dall’automazione, mentre nei servizi al cliente la percentuale scende al 30.

Secondo la stessa ricerca la variabile “costo del lavoro” sarebbe all’inizio una delle principali determinanti nella decisione di sostituire il lavoro umano, i paesi con i salari più elevati sarebbero quindi quelli maggiormente coinvolti in questo sentiero evolutivo. Nello scenario a “velocità media” (15% delle ore lavorate in meno a livello mondiale entro il 2030) si avrebbe una contrazione del monte ore lavorate pari al 26% in Giappone, al 24% in Germania e al 23% negli Stati Uniti. Nei paesi emergenti l’impatto diretto sarebbe minore: si stima ad esempio che in Cina la riduzione delle ore di lavoro causata dall’automazione di processi interni sarebbe del 16%, in Messico del 13% e in India del 9%. Per questi paesi tuttavia il problema è più complesso poiché occorre considerare anche gli effetti indiretti: il maggiore impiego dell’automazione nei paesi sviluppati disincentiva il processo di outsourcing, ricompone le catene di produzione all’interno dei singoli paesi e determina una perdita del vantaggio comparato che gli emergenti hanno nelle produzioni a elevato contenuto di lavoro.

Ciò potrebbe portare, in questi ultimi paesi, a una deindustrializzazione precoce. Evidenze di tale fenomeno sono in effetti già rilevabili: nel Regno Unito il comparto manifatturiero ha raggiunto il punto di massimo, come creatore di occupazione, prima della prima guerra mondiale, quando impiegava il 45% degli occupati, mentre sembra aver già raggiunto il picco in paesi come Brasile, India e Cina, ma a una soglia molto più bassa (15% circa). Ciò implica che il modello di sviluppo basato sullo spostamento dei lavoratori dall’agricoltura alla manifattura non potrà essere seguito da paesi a un livello di sviluppo ancora più basso (ad esempio alcuni in Sud America e in Africa) senza che peraltro ne sia oggi stato individuato uno alternativo. Insieme alla perdita di posti di lavoro, è verosimile ritenere che nei prossimi decenni la maggiore automazione contribuirà a uno spostamento di alcune decine di milioni di occupati in altri settori e alla creazione di nuove mansioni. Sebbene in uno scenario conservativo, ossia senza alcuna ipotesi relativa ai posti di lavoro creati da settori nuovi (che in passato si stima abbiano comunque generato ogni anno lo 0,5% dell’occupazione mondiale), alcune stime rilevano un aumento consistente dell’occupazione.

A parità di condizioni, la maggior parte delle nuove occupazioni dovrebbe derivare dalla crescita dei redditi medi dei paesi emergenti, dall’invecchiamento della popolazione, dalla necessità di migliorare il capitale umano, con conseguente maggiore domanda di istruzione, e dagli investimenti in infrastrutture fisiche e legate all’uso di fonti di energia alternative. Al netto dei posti di lavoro persi a causa dell’automazione, si stima che la crescita dei
redditi medi nei paesi emergenti determinerebbe comunque una maggiore domanda di beni di consumo e di servizi legati al benessere personale. Quest’ultima sarebbe in grado di generare circa 300-350 milioni di posti di lavoro a livello mondiale entro il 2030. La maggiore domanda si indirizzerebbe a settori come l’automobilistico, i servizi ricreativi, l’accoglienza e la ristorazione, i beni legati alla fruizione del tempo libero, l’alimentare, le utilities e l’istruzione. Molto rilevante sarà anche il contributo all’occupazione proveniente dai lavori legati ai servizi resi necessari dall’invecchiamento della popolazione: entro il 2030 la popolazione mondiale dovrebbe arrivare a 8,5 miliardi di persone con un aumento dell’età media che coinvolgerà sia i paesi sviluppati sia gli emergenti (Cina).

Entro quell’anno ci saranno circa 300 milioni di individui “over 65” in più rispetto al 2014; Cina, Germania, Italia e Giappone saranno i paesi più coinvolti dal fenomeno. I servizi resi necessari dalla cura di questa fascia di popolazione a livello mondiale potrebbe arrivare a generare tra i 50 e gli 80 milioni di occupati a tempo pieno. Altri 20-40 milioni potrebbero infine arrivare dagli investimenti nelle infrastrutture fisiche e relative all’uso di nuove fonti di energia.

Imparare a reimparare

L’impiego delle nuove tecnologie richiede nuove competenze e un nuovo modo di comunicarle. L’introduzione delle macchine durante la prima rivoluzione industriale aveva reso necessario un miglioramento nella capacità di comprendere testi scritti ed elaborazioni numeriche. Lo Stato da allora ha assunto quasi ovunque il ruolo di promotore dell’istruzione universale diffusa con un modello che in qualche modo replicava metodi e contenuti della fabbrica. L’impiego di nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale potrebbe oggi provocare una rottura con il passato sia nei contenuti della formazione, sia nel modo in cui questa viene impartita e diffusa. Relativamente alla forza lavoro già occupata c’è oggi poi il problema sia di misurare le competenze e di verificare se esse siano o meno adatte al nuovo contesto produttivo. Le analisi che quantificano le conseguenze dell’adozione delle nuove tecnologie sull’occupazione difficilmente riescono a cogliere i risvolti qualitativi sulle mansioni svolte. L’esperienza in questo caso non aiuta perché quello in atto è un processo molto più veloce di qualunque altro in passato e perché la vita media delle mansioni lavorative si va riducendo in modo sostanziale: a fronte di percorsi di apprendistato che durano 5 anni o più, le qualifiche richieste hanno ormai una vita media di due-cinque anni.

Fondamentale diviene allora definire percorsi di apprendimento che permettano ai lavoratori di acquisire nuove competenze, ma soprattutto consentano loro di “imparare a re-imparare”, evitando in tal modo l’obsolescenza. La curiosità e la capacità di risolvere problemi sono due elementi che i futuri programmi di addestramento dei lavoratori dovranno considerare in modo particolare. Un’analisi condotta dall’Ocse evidenzia il legame tra le competenze degli individui adulti (cioè capacità di risolvere problemi, usare strumenti ICT e applicazioni per
accedere e gestire le informazioni) e la probabilità di partecipare al mercato del lavoro. In media, il tasso di partecipazione alla forza lavoro sfiora il 90% per gli adulti tra i 25 e i 65 anni con competenze elevate in questi campi (livello 2-3), scende al 76% nel caso di competenze medio basse (inferiore al livello 1) e crolla al 47% per gli individui con nessuna competenza.

La differenza tra le tre categorie rimane elevata anche quando si fa riferimento a gruppi omogenei di lavoratori, ad esempio coloro i quali hanno un livello di istruzione elevato, o individui appartenenti allo stesso genere. Le differenze appaiono particolarmente marcate nel Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi e Norvegia; a parità di altre condizioni (istruzione, sesso, e così via) in questi paesi il tasso di partecipazione al mercato del lavoro di chi ha abilità di problem solving evolute e capacità di usare strumenti ICT è di 17 p.p. superiore a chi ha abilità medie mentre quello di chi ha abilità minime è di 33 punti percentuali più alto di chi non ne ha affatto.

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Categories: Economia e Imprese