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Nordest, giovani, lavoro e Confindustria: parla Calearo Ciman

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Eugenio Calearo Ciman, presidente dei Giovani Imprenditori del Veneto, è uno dei due candidati alla guida nazionale dei giovani industriali. Laureato in Scienze Sociologiche a Padova, master in Business Administration, siede nel consiglio di amministrazione della Calearo Antenne Spa (800 dipendenti, di cui più di 200 in Italia, leader mondiale nella produzione di antenne per supercar): sfiderà il prossimo 26 giugno il palermitano Riccardo Di Stefano.

«Non sono d’accordo – osserva Eugenio Calearo Ciman – con chi parla di questa crisi come di un’opportunità, è irrispettoso nei confronti delle oltre 34mila persone decedute. Certamente è un’occasione per riflettere sulla direzione che il nostro sistema industriale vorrà prendere negli anni a venire. Paghiamo un gap in termini di valorizzazione delle competenze dei giovani: troppo spesso non abbiamo il coraggio di responsabilizzare una generazione che avrebbe molto da offrire, essendo tra l’altro quella che mediamente si è formata di più rispetto a quelle che l’hanno preceduta».

Anche prima dello shock economico causato dal Covid-19 l’Italia si stava pericolosamente appiattendo su formule economiche di tipo assistenzialistico, nel post-pandemia si profila però il rischio anche per gli industriali di limitarsi a un rapporto di interlocuzione con la politica sullo schema emergenziale “aiuti e sovvenzioni” (se non addirittura di richieste di interventi diretti dello Stato nel capitale delle aziende).

«Quello che differenzia fortemente le formule assistenzialistiche proposte durante quest’ultima legislatura e i provvedimenti studiati per il supporto alle imprese in questa fase è la straordinarietà del momento che stiamo vivendo. Ci siamo sempre opposti a strumenti come il reddito di cittadinanza, che disincentiva la ricerca di un impiego regolare e favorisce invece il lavoro nero. Ovvio che non siamo così ipocriti da usare due pesi e due misure quando il supporto dello Stato riguarda l’impresa, ma parliamo di un momento eccezionale nella nostra storia, che speriamo non si ripeta più. Qualcuno ha anche criticato il Presidente Bonomi in questa fase, insinuando che per noi industriali quando i soldi sono per i lavoratori si tratta di “helicopter money”, mentre se i soldi sono per le imprese allora diventano “fondamentali iniezioni di liquidità nel sistema”. Se lei dovesse finire la benzina nel mezzo del deserto, e un buon samaritano le offrisse l’alternativa tra una dose d’acqua per sopravvivere dove si è, oppure benzina sufficiente per arrivare alla prossima stazione di servizio, cosa sceglierebbe? Servono investimenti che permettano all’industria italiana di ritrovare competitività, servono lavori infrastrutturali che da troppo tempo sono rinviati o considerati come ipotesi ambiziose, serve che i pagamenti della PA nei confronti delle imprese siano sbloccati».

Ben prima del lockdown il sistema produttivo veneto, e più in generale quello del Nordest, presentava delle peculiarità rispetto alle tendenze del resto del Paese: il caso limite è quello della provincia di Vicenza, dove alla fine 2019 si segnalava la disponibilità di 110 posti di lavoro vacanti per ogni 100 disoccupati.

«Da tempo la Confindustria segnala la disponibilità di decine di migliaia di posti di lavoro nelle fabbriche italiane, ma al contempo denuncia la difficoltà a trovare personale con le competenze, ma anche la volontà, per coprire queste posizioni. Quello di Vicenza è un esempio estremo ma sintomatico della mancanza di corrispondenza tra la formazione offerta dal sistema scolastico e le competenze richieste dall’industria. Un potenziale enorme è rappresentato dagli ITS, scuole di formazione tecnica gestite da fondazioni a cui partecipano anche aziende e confindustrie territoriali. Il tasso di impiego dei diplomati è sbalorditivo, spesso oltre il 90% nei primi sei mesi dopo il diploma. In Italia questi istituti sfornano 8.000 diplomati l’anno. In Germania i diplomati sono 800.000. Un’altra proposta importante riguarda le donne: il tasso di impiego femminile in Italia è pari al 49%, mentre quello maschile è del 68%, quasi 20 punti percentuali che derivano in parte dalle storiche carenze del sistema di welfare, che delega parte dei suoi servizi alle famiglie. Un abbattimento del cuneo fiscale per le donne under 35 renderebbe questa fascia di popolazione più competitiva in termini di costo di lavoro, o almeno permetterebbe loro di giocare ad armi pari con i colleghi maschi».

Rimanendo sempre a Nordest: un tessuto economico dove in larga parte gli assetti di governance sono coincidenti con la composizione del nucleo familiare, fatto di piccole multinazionali che esportano, di artigiani che lavorano “agganciati” in filiera, poca fiducia nello Stato e una voglia incomprimibile di governarsi in proprio, almeno per le questioni che toccano gli “schei”. Tuttavia il sentiment degli industriali, esemplificativi i dati che arrivano da Vicenza stando alle ultime rilevazioni, è sprofondato ai minimi storici, mai visto tanto pessimismo aleggiare tra i capannoni del Triveneto.

«La cosa che più ha fatto male all’industria in questo periodo di crisi è stata l’incertezza. Incertezza su chi potesse continuare a lavorare e chi no, incertezza su quali presidi fossero necessari e quali superflui (ricordiamo le circolari del Ministero della Salute che invitavano a non usare le mascherine), perfino sull’ora a cui il Premier avrebbe fatto la sua conferenza stampa. Adesso la sfiducia rimane forte, anche perché, fino a quando hanno potuto, le aziende hanno anticipato la cassa integrazione ai loro collaboratori, ma ora, per molti, la liquidità comincia a scarseggiare».

Su questo versante il premier Giuseppe Conte si è “giocato” la carta degli Stati Generali per mettere a fattor comune richieste e proposte dei corpi intermedi. Si sono registrate comunque molte perplessità circa il grado di coinvolgimento degli imprenditori nella fase di pianificazione della ripartenza.

«Spero che gli Stati Generali servano veramente a trovare soluzioni concrete e non solo a rassicurare i vicini europei sul fatto che queste soluzioni le stanno cercando. La fase due ha fatto tirare un sospiro di sollievo iniziale alle imprese, che in parte sono ripartite, anche se il sollievo è durato poco, perché ben presto ci si è resi conto che è la domanda a mancare. Bene gli spostamenti delle scadenze fiscali, bene il dialogo con l’Europa per i fondi a favore della ripresa».

Nell’immaginario comune i veneti lavorano molto, si lamentano di più e pesano poco nelle questioni che contano. L’idea di un aspirante capo dei giovani imprenditori che viene dal “profondo Nord” potrebbe riportare secondo molti osservatori l’attenzione, si spera all’interno di un dibattito non più ideologico, sul futuro del Nordest.

«Penso che la percezione del peso del Veneto come Regione trainante sia sempre più marcata, in cui sono delle aziende solide e all’avanguardia, eccellenze a livello globale. Rimane il tema di un territorio che fatica ad essere attrattivo per i giovani ambiziosi che hanno un progetto di vita che va oltre la sola crescita professionale, e faticano a trovare la nostra Regione sotto alcuni punti vista. Questo è vero in Veneto come per tutto il Nordest, inclusa anche l’Emilia-Romagna. Assistiamo ad un drenaggio di talenti che se ne vanno dai territori, dovremmo lavorare in maniera ancora più spinta e in concerto con le Regioni vicine per aumentare l’attrattività del nostro sistema».

Il presidente Luca Zaia è l’alfiere del movimento per una maggiore autonomia delle Regioni. Lo fa partendo da un principio di equità: l’autonomia serve per dare più slancio, risorse e responsabilità, alle regioni del Nord e non per marginalizzare o togliere risorse al Mezzogiorno.

«Esistono degli ambiti in cui alcune Regioni hanno dato prova di maggior efficienza di gestione rispetto ad altre e per cui chiedono una maggiore autonomia di gestione su materie specifiche. Due temi non si possono trascurare, però, quando si parla di autonomia differenziata: il mantenimento dell’equilibrio tra delle erogazioni tra Stato e Regioni e i costi nascosti della transizione. Nel primo caso parliamo della certezza che non si vadano a scombinare gli equilibri in essere inerenti alle erogazioni che lo Stato fa verso le Regioni, che non deve per nessun motivo andare a ledere le finanze delle Regioni che non sono promotrici di questo cambiamento».

“L’elefante in salotto” del nostro sistema Paese rimane sempre la produttività, nel pubblico evidentemente ma anche nel privato dove si scontano ancora pesanti inefficienze sul versante tecnologico. Il Covid-19 ha letteralmente spazzato via l’usuale impostazione del tempo e del modo di lavorare, soprattutto in ufficio. Smart working, riunioni online, orari flessibili: le generazioni più giovani sono in attesa di capire fino a che punto gli industriali under 40 sono disposti a spingersi per rendere più “moderno” il lavoro.

«L’emergenza ha imposto una transizione forzata al tele-lavoro, più che allo smart working, permettendo, pur all’interno di una situazione tragica, di sperimentare nuovi modi di organizzazione del tempo e di socialità. Proprio perché i giovani sono maggiormente predisposti all’innovazione tecnologica, i Giovani Imprenditori sapranno far tesoro dell’esperienza di “clausura” che abbiamo vissuto, individuando formule di collaborazione più flessibili, che permettano ai collaboratori di gestire al meglio la vita privata e lavorativa, ma anche di entrare in contatto con talenti che non sono disponibili a trasferirsi nel territorio dove si trova un’azienda, ma a collaborare a distanza».

Ambiente: la pianura Padana è uno dei luoghi che più ha pagato l’industrializzazione capillare del Nord. Se la crisi diventerà anche un grimaldello per mettere in atto qualche idea “folle” sulla sostenibilità ambientale ci sarà bisogno di “visionari”, sul modello della Silicon Valley, anche in viale dell’Astronomia.

«Se è vero che la Pianura Padana è uno dei territori più inquinati d’Europa, anche per la sua conformazione geografica, è anche vero che negli anni le tecnologie sono evolute in modo da essere meno impattanti sull’ambiente. Dobbiamo sempre tener presente che la sostenibilità è come uno sgabello a tre gambe: una gamba rappresenta la sostenibilità ambientale, un’altra la sostenibilità sociale, e la terza la sostenibilità finanziaria. Qualsiasi progetto che non tenga in considerazione tutti e tre questi aspetti, o che sia particolarmente sbilanciato verso uno di questi tre aspetti, è destinato, come il nostro immaginario sgabello, a non stare in piedi. Non possiamo permetterci di perdere ulteriore competitività per ideologie che non tengano conto di tutti gli aspetti della sostenibilità, privilegiando, per esempio, quella ambientale e tralasciando completamente lo sviluppo sociale ed economico di un territorio».

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Categories: Economia e Imprese