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Mps, la cronistoria di una stangata da 15 miliardi. Anche il Santander nel mirino

MONTE PASCHI, CRONISTORIA DI UNA STANGATA DA 15 MILIARDI
BERSANI CHIEDE I COMMISSARI, ANCHE IL SANTANDER NEL MIRINO

La prospettiva di un “nuovo socio finanziario forte” auspicata dal presidente Alessandro Profumo piace a Piazza Affari. Il titolo Monte Paschi guadagna il 4,5% a 0,2767 euro, ormai ad un passo dal pieno recupero delle perdite ( da 0.2942 a 0.233 -21,5%) ) subite in tre sedute dopo lo scoppio del caso derivati.

Dopo il via libera all’aumento di capitale per garantire i Monti Bond (3,9 miliardi) da parte di Banca d’Italia, l’istituto sembra aver superato la fase più acuta della crisi. Almeno dal punto di vista finanziario. Ma, al contrario, sia la partita politica che quella giudiziaria sono solo all’inizio. Per non dimenticare i risvolti sul piano istituzionale.

Sul piano politico l’appuntamento più caldo sarà l’audizione di domani pomeriggio alla Commissione Finanze e Tesoro del ministro dell’Economia Vittorio Grilli. Si profila, per l’occasione, il contrattacco del Pd dopo le accuse degli ultimi giorni. Pierluigi Bersani sembra intenzionato a chiedere il commissariamento del Monte. Cresce intanto, da più parti, non ultimo Giacomo Vaciago (ma anche l’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini o l’economista Boldrin) il partito di chi chiede la nazionalizzazione temporanea del Monte dei Paschi, il cui patrimonio si avvia ad essere rappresentato solo dai bond emessi dallo Stato.

Sul piano istituzionale la parola passa alla Banca d’Italia cui spetterebbe per diritto la prima mossa in caso di scelte radicale. Via Nazionale, già nel mirino per l’accusa di aver condotto una Vigilanza “soft”, ha incassato stamane “l’assoluta fiducia” del premier Mario Monti.

Infine, il fronte giudiziario non risparmia novità.

Le indagini della magistratura riguardano ormai vari filoni: a) il reperimento di risorse per l’acquisizione di Antonveneta e per finanziamenti alla Fondazione Monte dei Paschi; b) le comunicazioni agli organi di vigilanza; c) le operazioni sul titolo per alterarne il valore; d) ultimo, ma solo in ordine di tempo, da alcune settimane, le operazioni in derivati.

Insomma, un groviglio in cui anche gli addetti ai lavori rischiano di perdere il filo. Proviamo, perciò, a riassumere per sommi capi la trama oscura che emerge all’ombra delle contrade senesi.

L’OPERAZIONE ANTONVENETA

Nel 2007 il Banco de Santander acquista Banca Antonveneta per 6,3 miliardi nell’ambito della scalata ad Abn Amro. Due mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, Emilio Botìn cede la banca padovana a 9,23 miliardi al Monte Paschi, più l’aggiunta di oneri che fecero salire il prezzo a 10,137 miliardi. Perché la banca senese accettò di pagare un sovrapprezzo di quelle dimensioni, per giunta amplificato dalla necessità di far fronte alle esigenze di tesoreria dell’istituto (7,5 miliardi) per la banca che fino ad allora si approvvigionava presso la casa madre olandese circostanza di cui i vertici di Rocca Salimbeni, all’epoca, non ritennero di “dover dare rilevanza contabile agli accordi “perché “ la clausola non era strettamente correlata all’operazione di acquisizione”?

Secondo quanto scrive stamane il Corriere della Sera, la banca spagnola e Mps raggiunsero l’accordo per dividersi la “plusvalenza” dell’affare e ai mediatori di Jp Morgan andò il miliardo in più che fece superare la soglia dei 10 miliardi di euro all’operazione. In merito alla vicenda, potrebbe presto essere chiamato a testimoniare il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior e responsabile di Santander per l’Italia, che all’epoca incontrò più volte, come confermano le agende e i documenti sequestrati, l’ex presidente di Mps, Giuseppe Mussari. Ma spunta anche il nome dell’avvocato Marco Cardia, figlio dell’ex presidente della Consob e cardine di alcuni aspetti dell’acquisizione di Antonveneta per conto dell’istituto toscano.

Assai diversa la ricostruzione di Alessandro Daffina, responsabile di Rothschild in Italia, che a suo tempo rappresentò il Santander nell’operazione. Il prezzo? “Rispetto al 2007 le valutazioni sono scese anche del 70-80%. Unicredit capitalizza 70 miliardi, oggi 26 ma se teniamo conto degli aumenti di capitale per 16 miliardi, dovremmo confrontarli con 11….Non si può dire che Antonveneta era cara, era un mondo totalmente diverso e confrontarlo con quello attuale non ha senso”.

L’ex presidente del collegio sindacale di Mps, il professor Di Tann, nel corso dell’assemblea del 2012 ha rivelato che il valore contabile dell’asset non superava all’epoca i 2,3 miliardi.

IL VIAGGIO VERSO IL BARATRO

Di sicuro il viaggio verso il baratro di banca Mps e della Fondazione senese sono legati al finanziamento della disgraziata operazione .

I titoli Mps in portafoglio alla Fondazione finiscono in pegno ad undici istituti di credito, una sorta di cordata capitanata da JP Morgan di cui faceva parte anche Mediobanca (di cui Mps all’epoca era azionista). I finanziamenti arrivano attraverso contratti Tror (Total Rate of Return Swap) oggi all’esame della magistratura.

Nello stesso periodo vengono messe in piedi operazioni come i fresh bond, sottoscritti dalla Fondazione, e aperte o rinnovate posizioni sui derivati. “La documentazione acquisita – si legge neli atti della Procura – e le informazioni testimoniali fanno emergere l’ostacolo all’attività di Vigilanza della Banca d’Italia”.

In particolare, rispondendo ad una richiesta di delucidazioni di Banca d’Italia in merito all’aumento di capitale riservato a Jp Morgan, il direttore generale Vigni rispondeva che “in ordine all’assorbimento delle perdite JP Morgan ha acquistato la proprietà delle azioni senza ricevere alcuna protezione esplicita od implicita dalla banca”. Affermazione, secondo gli inquirenti, che”non risponde al vero”. Il parere dei pm è confortato da una memoria di otto pagine di Nicola Scocca, ex direttore finanziario della Fondazione Mps, il polmone economico del Montepaschi. È anche grazie alle indicazioni di Scocca che i magistrati hanno saputo decifrare l’ormai famosa lettera riservata con cui fu organizzata la cosiddetta operazione Fresh 1, con la quale Mps ricevette un miliardo di euro da Jp Morgan dissimulando questo prestito e facendolo passare per un aumento di capitale.

QUINDICI MILIARDI ANDATI IN FUMO

A quanto ammonta la distruzione di valore in casa Monte Paschi? Si può tentare una valutazione obiettiva basandosi sul metro del mercato finanziario, come ha fatto Gianfranco Antognoli, già vicedirettore generale di Banca Toscana dal 2002 al 2006 e fino al 2010 direttore generale di Mps leasing e factoring.

Al 31 dicembre 2005, la capitalizzazione a valore di mercato del gruppo Mps risultava pari a dodici miliardi di euro. Ma negli anni successivi, e in due diverse occasioni, i soci sono chiamati ad iniettare in Mps risorse attraverso aumenti di capitale per un totale di otto miliardi. Succede in occasione dell’acquisizione di Antonveneta, pagata nove miliardi e che agli azionisti costa un aumento di capitale da 5,8 miliardi e poi, di nuovo, nel 2011, con la «trasfusione» da 2,1 miliardi resa necessaria per rispettare i vincoli di solidità patrimoniale.

E siamo così, in totale, a venti miliardi di euro, che è il risultato di quanto il patrimonio azionario valeva all’inizio del periodo più le somme aggiunte dai soci. Ma a fine 2011 la capitalizzazione di Borsa si è assottigliata ad appena 2,7 miliardi e quindi, considerando che tra il 2006 e il 2011 Mps ha staccato dividendi pari a 1,8 miliardi di euro, la perdita di valore per gli azionisti si attesta nel periodo a 15,4 miliardi.

L’analisi dell’andamento del titolo — nella ricostruzione di Antognoli — mostra come il picco più alto (tra 4,61 e 4,65 euro ad azione) sia raggiunto nel 2007 tra la sottoscrizione della joint-venture con Axa sull’attività di bancassurance per 1,1 miliardi e l’acquisizione da parte di Mps del 55% di Biverbanca per 400 milioni. Poi la frana che prende il via nel novembre 2007 e che non si arresta nonostante la «svendita dei gioielli», ovvero partecipazioni, per far fronte agli impegni assunti. Ovvero nonostante l’uso e l’abuso di contratti derivati per rinviare nel tempo il confronto con l’indebitamento in crescita geometrica

ALEXANDRIA, SANTORINI E LA CENERE SOTTO IL TAPPETO

A quanto ammontano i danni delle operazioni Santorini, Alexandria e Nota Italia? Una cifra precisa non è ancora nota, anche se la scoperta di questi contratti ha spinto i vertici dell banca a chiedere 500 milioni in più di Monti bond.

Alexandria, spunta in bilancio per la prima volta nel 2005 in un lungo elenco di cartolarizzazioni. Poi riemerge nel 2009 per un’operazione di ristrutturazione del debito dell’istituto senese condotta con la Banca Nomura, costata una correzione di bilancio di 220 milioni. L’operazione avrebbe permesso al Monte Paschi di cedere il note Alexandria a Nomura, scaricando le perdite su bilanci futuri e salvando il bilancio 2009. Non si tratta, così come nel caso Santoini, di un vero e proprio derivato, bensì di operazioni di pronti contro termine su titoli di Stato italiani e al loro potenziale “pricing” in collegamento con le perdite derivanti da investimenti pregressi. Come spiega una nota del gennaio 2013, ovvero sotto l’attuale dirigenza, si tratta di “operazioni per le quali è presumibile un collegamento con perdite derivanti da Investimenti pregressi “effettuati in Btp di lunga durata, finanziati attraverso operazioni di pronto contro temine, le cui cedole sono state oggetto di asset swap al fine di gestire il rischio assunto”.

Nulla di tutto questo è stato spiegato per tempo al mercato od alle autorità. Così come nulla si è saputo fino a pochi giorni fa della miriade di operazioni strutturate nei paradisi fiscali con broker “dall’utilità commerciale nulla” servita, secondo l’ipotesi degli inquirenti, a coprire possibili tangenti.

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