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L’editoria scolastica non trova la via al digitale e colleziona solo flop

Il flop di Amplify

Negli ultimi dieci anni tutti i settori dell’industria dei media hanno trovato un modello più o meno riuscito per operare nella nuova economia digitale. L’unico settore a non averlo ancora trovato, e sta faticando moltissimo a trovarlo, è quello dell’editoria scolastica. Per l’istruzione universitaria ci sono delle esperienze piuttosto interessanti e si iniziano a intravedere dei possibili modelli che suscitano anche parecchia preoccupazione per la loro valenza disgregante nei confronti del sistema vigente. Per l’istruzione primaria e secondaria, invece, si stanno collezionando solo fallimenti piuttosto clamorosi: l’andata al digitale è un miglio verde. Ne sono testimonianza moltissimi casi, primo fra tutti quello di News Corporation, il gigante dell’informazione guidato dalla famiglia Murdoch.

Nel 2011 Rupert Murdoch, il fondatore della dinastia e indubbio patron dei media, definì l’istruzione “l’ultima sacca di resistenza dei media tradizionali” e come tale una vera e propria miniera di opportunità. Un’opinione che condivideva con Steve Jobs che, nell’ultimo scorcio della sua vita, dedicò non poche energie a decodificare un nuovo modello educativo basato sulla tecnologia. Purtroppo Jobs non ne ha avuto proprio il tempo, ma Murdoch sì. Dopo aver acquistato nel 2010 la piattaforma Wireless Generation per 360 milioni di dollari, due anni dopo creò una vera e propria divisione all’interno di News Corp., Amplify, consegnata a una persona dell’esperienza di Joel Klein da molti considerato la persona più influente nel campo dell’istruzione pubblica negli USA.

Ampify disse Murdoch “rivoluzionerà l’istruzione” con il suo duplice progetto: quello di creare una piattaforma digitale per gestire da parte degli insegnanti e delle famiglie il programma di istruzione pubblica di base comune (Common Core State Standards Initiative) e costruire un tablet dedicato all’insegnamento e all’apprendimento nella scuola primaria e secondaria (k-12). News Corp. ha investito in Amplify un miliardo di dollari. Ma in questo settore è facile scottarsi e anche un ciclope come News si è scottato le dita. Nel 2015 l’entusiasmo per l’istruzione si è molto raffreddato e si parla di liquidare tutto. In tre anni Amplify ha perso mezzo miliardo di dollari e il tanto acclamato tablet è stato un flop. Forse il mondo non aveva proprio bisogno di un altro tablet. Se News Corporation abbandona, è Pearson che ci prova ferocemente.

Pearson e gli spaghetti

Pearson, 5 miliardi di sterline di fatturato e 40mila dipendenti, è il più grande editore del mondo. Bene, Pearson ha deciso di puntare tutto sull’istruzione e la scuola, vendendo o dismettendo tutte le altre attività. E che attività! Il nuovo CEO di Pearson, John Fallon, ha mostrato di fare sul serio. In una riuscitissima duplice mossa estiva, che ha portato un magnifico realizzo agli azionisti pur lasciandoli perplessi sulla sua valenza a lungo termine, ha venduto al massimo prezzo le partecipazioni di Pearson nel “Financial Times” (ai giapponesi di Nikkei) e nell’“Economist” (alla Exor della famiglia Agnelli). Il predecessore di Fallon, la texana Marjorie Scardino, aveva dichiarato che per vendere il “Financial Times” “sarebbero dovuti passare sul suo cadavere”.

In realtà le motivazioni di Fallon per queste dismissioni sono piuttosto fondate e il suo ragionamento è plausibile: “Pearson non può investire secondo necessità in due settori in profonda trasformazione come l’informazione e la scuola, deve scegliere uno dei due e focalizzarsi su questo”. Fallon ha ragione. Per esempio, il “Financial Times” sul digitale ha molto da lavorare: le sue applicazioni per mobile sono oltremodo lente per l’inspiegabile scelta di non svilupparle nei linguaggi nativi di iOS e Android, la replica digitale del giornale (FT e-paper) richiede troppe volte il login agli abbonati e si lascia sfogliare con fatica, i grafici non si possono ingrandire e la ricerca è un “batti-cinque-che-l’ho-trovato”. Il paywall dell’edizione digitale è inflessibile e blocca la possibilità di condividere gli articoli che possono essere letti solo da altri abbonati. Insomma, c’è bisogno d’investimenti e di molti investimenti. Oggi le attività digitali sono in equilibrio non per l’eccellenza della tecnologia ma per l’eccellenza dei contenuti e la qualità del giornalismo. Il concorrente diretto del FT, il “Wall Street Journal” è messo molto meglio sul digitale.

Il ragionamento di Fallon sarebbe perfetto se non fosse che la strategia di Pearson nel settore sul quale ha deciso di focalizzarsi è tutt’altro che cristallina e lo stesso Fallon ha ripreso il termine “spaghetti” per fotografare lo stato di fatto, promettendo di sbrogliarlo in un paio di anni. Finora Pearson ha collezionato solo una troppo lunga stringa di acquisizioni più o meno riuscite che dal 2010 sono costate 2,8 miliardi di sterline. Solo negli Stati Uniti ci sono 50 data center e le piattaforme software sono troppe e per niente interoperabili. Un’esperienza che ha costretto Fallon a dichiarare che i capitali derivanti dalle dismissioni non saranno utilizzati per nuove acquisizioni, ma per potenziare la crescita dei business esistenti. In che modo? Per ora regna l’incertezza. Si sa che il progetto di Pearson è, come lo era per Amplify, creare una piattaforma tecnologica per distribuire agli educatori i contenuti digitali e gestire le loro attività formativa in collaborazione con le famiglie. Questo significa andare molto oltre i pdf dei libri di testo. Significa creare contenuti originali, strumenti di autovalutazione e di studio collaborativo in una logica progettuale che è più simile ai videogiochi che ai contenuti per la carta stampata.

Fortunatamente Pearson ha ancora dei buoni contratti nell’ambito dell’istruzione pubblica. Per esempio negli Stati Uniti gestisce i test d’ingresso previsti dalla Common Core Initiative nella quasi totalità degli Stati americani e gestisce anche gli Stats tests nel Regno Unito. Queste ben presidiate posizioni non sono ancora la strategia che il mercato si attende dal colosso di Londra e su questi contratti si stanno addensando delle nubi minacciose. Se per esempio andasse alla presidenza USA un repubblicano diverso da Jeb Bush o John Kasich, il Common Core sarebbe messo in discussione radicalmente.

McGraw-Hill: focus sui contenuti pensati per il digitale

Nel 2013 McGraw-Hill Education è stata scorporata dalle attività finanziarie del conglomerato di New York (tra cui primeggia l’agenzia di rating Standard & Poor’s) e venduta per 2,5 miliardi di dollari ad Apollo Global Management, un private equity con un patrimonio gestito di 162,5 miliardi di dollari. A dirigere la nuova società, che ora ha sede a Columbus, Ohio, e non più al Rockfeller Center, è stato chiamato Peter Cohen che dal 2008 al 2013 è stato CEO di Pearson Education.

Il primo obiettivo di McGraw-Hill è quella di portare in digitale i propri libri di testo e i propri manuali che adesso sono pensati e progettati in primo luogo per una fruizione su uno schermo connesso a Internet. Priorità al digitale dunque, ma non abbandono del libro di testo tradizionale. Il gruppo si sta muovendo con molta prudenza nella convinzione che la transizione dalla carta al digitale avverrà gradualmente e i due canali procederanno affiancati ancora per anni.

Infatti Stephen Laster, Chief Digital Officer, riconosce che non tutte le scuole sono pronte a passare totalmente al digitale. “Il digitale è chiaramente il futuro – ha dichiarato – ma siamo in una situazione mista dove digitale e stampa è il mix che i nostri insegnanti stanno utilizzando oggi. McGraw-Hill non pensa che si debba buttare via tutto quello che si è fatto e ripartire da zero”.

Per questa ragione McGraw-Hill non sta lavorando a costruire una piattaforma di gestione dell’intero processo di apprendimento e non si propone di entrare nel business dei device mobili con una propria specifica soluzione. Si tratta di una strategia molto diversa da quella di Pearson e di Amplify.

Houghton Mifflin Harcourt: focus sui contenuti digitali aperti

Sulla stessa pagina di McGraw-Hill è Houghton Mifflin Harcourt, il terzo grande attore dell’editoria scolastica USA, sta seguendo una strategia simile per l’andata al digitale. Una strategia che si basa essenzialmente sulla granulazione dei contenuti, già patrimonio dell’editore, in unità di apprendimento che possono essere assemblate e combinate all’interno di una piattaforma content-neutral di terze parti funzionante con qualsivoglia tecnologia e dispositivo. Questi atomi fatti di contenuto e software hanno anche la capacità di tracciare e verificare i progressi nell’apprendimento dell’utilizzatore.

Grazie alla disponibilità di questi materiali, l’educatore può lavorare in una prospettiva di insegnamento adattativo configurando percorsi di studio personalizzati sulla base delle specifiche abilità e livelli degli studenti. L’approccio olistico dell’editore di Boston è vicino al percorso che alcune scuole hanno già intrapreso negli Stati Uniti nella prospettiva di andare oltre il libro di testo unico. Anche Houghton Mifflin Harcourt, al pari di McGraw-Hill, segue un approccio incrementale e si considera più un follower che un leader dell’innovazione.

Cengage Learning: focus sulla piattaforma

Cengage Learning, un altro importante player dell’editoria scolastica negli USA, è emerso nell’aprile 2014 dall’amministrazione controllata, dopo aver ristrutturato un debito ciclopico, con l’intenzione di trasformarsi da editore tradizionale a vera e propria casa di software in modo da poter ottenere dalla propria piattaforma cloud di apprendimento, MindTap, il 40% dei ricavi. Un proposito ambiziosissimo che ha suscitato non poche perplessità tra gli osservatori.

Joseph J. Esposito, un consulente di editoria e media, ha commentato così: “Cengage & co. sono una compagnia di software come io sono una ballerina. È facile dire (pensando alla comunità degli investitori) che siamo una casa di software e non una casa editrice, ma un’impresa è modellata dalla clientela che riesce a raggiungere”.  In effetti Il punto è proprio questo.

L’ossessione del controllo

Perché queste grandi multinazionali dell’editoria scolastica faticano così tanto a trovare un modello efficace al passaggio al digitale dei contenuti e dei servizi destinati alla scuola e formazione? Semplicemente perché, venendo da un’esperienza totalmente diversa, non hanno compreso come si sviluppano le relazioni, anche economiche, all’interno di questo nuovo mercato totalmente dematerializzato. La loro ossessione, da buoni discepoli dell’hard-boiled school, è quella di controllare l’intero sistema di produzione e distribuzione di un contenuto come avviene, in effetti, nel mercato nel quale sono abituati a operare. Tale controllo totale del business, come si stanno rendendo conto tutte le imprese media tradizionali che stanno facendo i conti con la nuova economia, è pressoché impossibile nel nuovo scenario digitale. In questo ambiente si va verso una segmentazione e una specializzazione dei ruoli e gli eventuali monopsoni sono transienti. Le posizioni dominanti tendono ad essere effimere e possono essere scalzate rapidamente dalle conseguenze della successiva innovazione.

Questa volontà di controllo dell’intero business, generato dai loro contenuti, si traduce nell’idea dei grandi gruppi tradizionali di costruire una propria piattaforma digitale nella quale far funzionare questo concetto. Le altre piattaforme sono viste come concorrenti. Solo così si possono spiegare determinate scelte come la più clamorosa, a mio avviso; la riluttanza, cioè, a lasciare il 30% agli store online da cui si scaricano app ed ebook quando non ci sono problemi a riconoscere ai grossisti e alle librerie una fetta maggiore della torta.

Sta di fatto, però, che tutti i canali in grado di raccogliere un’utenza digitale significativa, che aderisce a certi schemi di consumo e di acquisto, sono già occupati e controllati dalle grandi organizzazioni di Internet e dagli hub mediatici come Apple, Amazon, Google, Alibaba e via dicendo. Si tratta di organizzazioni nate, cresciute e sviluppatesi nel nuovo ambiente che costituisce il loro unico scenario di business.

È possibile modificare questo stato di cose facendo in modo che l’utenza inizi anche a frequentare e a investire tempo e denaro sulle risorse online degli editori scolastici? Ecco il grande punto interrogativo. Per quello che si è visto finora queste risorse sono poca cosa: sono costruite molto spesso con logiche lontane da quelle a cui gli utenti digitali sono abituati perché il loro punto focale non è il consumatore ma il business degli editori. In generale sono difficili da navigare, sono inutilmente complesse, sono carenti di attività social, ci sono molte barriere e anche il prezzo non è quello a cui ha abituato la rete. Nonostante che questo stato di cose sia sotto gli occhi di tutti, gli editori non si rassegnano a rinunciare all’idea di controllare il business attraverso queste costose iper-strutture distributive con il quale rendere accessibili i loro contenuti che continuano ad essere contenuti di eccellenza, contenuti che nessun altro soggetto possiede o è in grado di costruire in breve tempo. È proprio nei contenuti la forza degli editori, l’eredità maggiore ce si trovano a gestire e a perpetuare. È proprio sui contenuti che dovrebbero concentrarsi ricercando la strada migliore per diffonderli attraverso i nuovi media.

Invece continuano a disperdere risorse e buttare al vento opportunità nel combattere l’egemonia delle grandi organizzazioni della rete che sono tecnologicamente lo stato dell’arte e i propulsori di un’innovazione che funziona. Queste organizzazioni sarebbero una risorsa enorme se gli editori si mettessero in un mood differente: da “giù le mani” a “collaboriamo”.

Ma c’è qualcosa di ancora più basilare da discutere: ha l’editore scolastico tradizionale la cultura tecnologica, la mentalità e la conoscenza dei nuovi media appropriata per costruire qualcosa che possa attrarre milioni di soggetti e convincerli ad operare su quella piattaforma per il più importante dei compiti, quello di trasmettere un’istruzione di base propedeutica alla loro carriere lavorativa? Per ora la risposta è no; non ce l’ha.

Chi è cliente dell’editore scolastico?

C’è, però, da tenere presente la specificità del mercato dell’editoria scolastica che è anche un’attenuante per gli scarsi risultati finora ottenuti nel passaggio al digitale. È quello a cui accennava Joseph J. Esposito. Il cliente dell’editore scolastico è in genere differente dal consumatore. Il cliente, in genere, è un’istituzione pubblica o privata o un soggetto con un ruolo istituzionale. Si tratta di una sorta di broker che si frappone tra il produttore di contenuti e il consumatore diretto. Gli editori ragionano e operano avendo in mente il momento istituzionale con la conseguenza di sottovalutare l’utente finale. Ma è proprio l’atteggiamento quest’ultimo che, alla fine, determina le scelte del livello istituzionale. Se si tratta di struttura pubblica lo esercita attraverso l’opinione pubblica allargata, attraverso l’orientamento elettorale delle famiglie molto sensibili alle politiche scolastiche pubbliche e altre forme controllo e indirizzo che tendono a rispecchiare il punto di vista dei consumatori. Se è un cliente privato è ancora più facile mandare a segno determinati messaggi legati al principio cardine di ogni attività commerciale: la soddisfazione del cliente”. Nella nuova economia chi comanda è il consumatore finale.

L’editore deve quindi fare un bel salto mentale costruendo le proprie proposte in modo tale di andare oltre l’intermediario istituzionale per raggiungere l’utente finale e ricercarne la soddisfazione. Bisogna anche considerare che questo ipotetico utente finale è già cliente di qualcuno, è già raggiunto da una piattaforma all’interno della quale svolge già molte attività anche commerciali e probabilmente non è disposto o non ha il tempo di aggiungerne o migrare su un’altra.

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Il contenuto è il jolly

Forse la scelta verso cui si sono orientati McGraw-Hill e Houghton Mifflin Harcourt, cioè focalizzarsi sui contenuti lasciando perdere ogni ambizione di costruire una propria piattaforma per l’apprendimento, è l’opzione corretta nel nuovo scenario digitale. Forse il futuro stesso di tutta l’editoria sta nella capacità di selezionare, costruire e raffinare contenuti da consegnare alle grandi piattaforme di distribuzione della rete che provvederanno a farli arrivare ai consumatori nelle specifiche modalità del momento.

Le risorse a disposizione degli editori sono limitate; gli editori non hanno l’appoggio quasi incondizionato della finanza di cui godono invece i tecnologici, il loro business tradizionale è in declino e i conglomerati media a cui appartengono tendono a disfarsi di queste attività. Di fronte a loro non può esserci che la via di una specializzazione sulla produzione di contenuti costruiti avendo in mente i nuovi media. Uscire dalla logica del controllo significa vincere la sfida del digitale e riuscire nel nuovo ambiente. Per ora è solo gridare alla luna.

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