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La laurea paga due volte, anzi tre: chi ce l’ha trova più facilmente lavoro e guadagna di più dei diplomati

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L’investimento in formazione ha oggi un ritorno importante sul fronte occupazionale: non solo i laureati sono maggiormente attivi nel mercato del lavoro rispetto ai diplomati, ma vantano una quota più elevata di occupati e una più bassa di disoccupati. Il vantaggio generato dalla laurea risulta più ampio nella media italiana, rispetto alle due ripartizioni

settentrionali: se a livello nazionale il tasso di occupazione passa dal 63,7% dei diplomati al 79,2% dei laureati, nel Nord-ovest va dal 71,0% all’83,4% e nel Nord-est dal 72,6% all’83,6%.

Tale successo occupazionale premia l’impegno delle famiglie italiane e delle giovani generazioni che hanno scelto di dedicare più anni – e risorse – alla formazione, portando la popolazione italiana tra i 25 e i 34 anni ad essere maggiormente istruita rispetto alle generazioni precedenti. Infatti, se tra i 35 e i 64 anni solo il 33,9% della popolazione ha un diploma e il 16,6% una laurea, nella classe di età più giovane i dati sono rispettivamente pari a 42,1% e 27,7%. A livello di ripartizioni settentrionali si conferma l’innalzamento della quota di laureati nella classe 25-34 anni: 30,6% nel Nord-ovest, 31,9% nel Nord-est, dove è più ampia la capacità di assorbimento di capitale umano del sistema produttivo.

Osservando le scelte formative, per quanto riguarda il diploma la preferenza generale va ai percorsi liceali, scelti dalla maggioranza dei nuovi iscritti (56,6% in Italia), anche se in Veneto e in Emilia- Romagna il dato si ferma sotto al 48%, lasciando maggior spazio agli Istituti tecnici, optati rispettivamente dal 38,3% e dal 36,3%, mentre il dato nazionale è pari a 30,7%. Nelle due regioni nordestine rimane anche più rilevante, seppur in calo, l’opzione offerta dai professionali. In generale, nel Nord dove vi è ancora una forte presenza del manifatturiero, l’istruzione tecnica è più attraente per gli studenti, come dimostra l’interesse crescente, seppur ancora limitato, che in queste regioni viene rivolto all’esperienza degli ITS.

La crescita della formazione terziaria, tuttavia, non è ancora sufficiente a portare la quota di laureati nella classe 25-34 anni ai livelli sia dei principali paesi europei, sia delle aree che generalmente costituiscono il benchmark delle regioni settentrionali: se in Veneto la quota è pari al 31,9% e in Lombardia al 33,6, nel Bayern raggiunge il 46,1% e nel Rhône Alpes il 53,5%. Altra caratteristica della formazione universitaria è il peso limitato degli iscritti nelle discipline STEM sul totale: sebbene in crescita sul totale degli iscritti, il peso complessivo è pari in Italia al 25% ed è del 37,8% in Piemonte, del 29,5% in Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna.

I laureati italiani sono in generale molto soddisfatti della propria esperienza formativa e circa il 90% ha, a cinque anni dalla laurea, un’occupazione; nel 55,8% dei casi (il 60% nel Nord) si tratta di un contratto a tempo indeterminato, con una retribuzione media netta mensile di 1.635 euro (più elevata in Lombardia e Trentino- Alto Adige: 1.700). Tuttavia, il 30% ritiene che nel proprio ambito lavorativo il corso di laurea seguito non sia efficace e il 40% dichiara di fare un uso limitato delle competenze acquisite.

Questi dati mettono in luce il disallineamento tra i contenuti della formazione universitaria scelta e le conoscenze e abilità richieste dal mondo del lavoro, così come confermano i dati sul mismatch orizzontale, stimato da Eurostat: il 30,4% dei lavoratori svolge un lavoro non coerente rispetto al titolo di studio conseguito. Tale gap è più rilevante per le discipline umanistiche (58,8%) e minore per quelle legate al business e al diritto (17,2%), ma rimane significativo per quelle STEM (circa il 40%).

Più studi, più lavori e meno sei escluso

Gli indici sintetici del mercato del lavoro – tasso di attività, occupazione e disoccupazione – evidenziano come il titolo di studio sia determinante nel definire le concrete possibilità occupazionali e garantisce un vantaggio retributivo, sebbene con differenze territoriali e internazionali. Sul vantaggio occupazionale sono espliciti i dati da poco pubblicati da Almalaurea. Nello specifico, il tasso di attività, ovvero la partecipazione attiva al mercato del lavoro (occupati e in cerca di occupazione), aumenta in tutte le ripartizioni e nelle regioni del Nord-est al crescere degli anni di formazione, con uno scarto significativo tra il diploma e la laurea. Tra il Nord- ovest e il Nord-est non si registrano significative difformità: nella prima ripartizione è attivo l’86,6% dei laureati, rispetto al 75,9% dei diplomati; nella seconda l’86,4% dei laureati e il 76,5% dei diplomati. E il grado di istruzione della popolazione, misurato sulla quota di popolazione giovane (25-34 anni) è superiore nel Nord-est rispetto al Nord-ovest; il che implicitamente testimonia una alta capacità di assorbimento del capitale umano da parte del sistema produttivo, anche se probabilmente non elevato come negli altri maggiori paesi europei, dove sono più elevati sia il grado di istruzione sia i tassi di attività e occupazione.

In relazione al tasso di occupazione, ovvero gli occupati sul totale della popolazione in età di lavoro (convenzionalmente 15-64 anni), l’investimento in formazione si conferma ottimo perché dà un elevato rendimento in termini di maggiore facilità di trovare un lavoro in ogni contesto territoriale.

Infine, il tasso di disoccupazione per titolo di studio conferma l’importanza della formazione nel ridurre il rischio di non trovare lavoro. Per i laureati nordestini è del 3,2%, rispetto al 5,2% dei diplomati. Interessante notare che lo scarto tra tassi di disoccupazione per chi ha il titolo di lavoro più basso è di 1,6 punti percentuali tra NO e NE (9,1% contro 7,5%), mentre quello tra i tassi di disoccupazione per chi ha il titolo di studio più elevato è di 1,2 punti, a segnalare un maggior ricorso a manodopera meno qualificata nel NE, da un lato, e una conseguente maggior capacità nordestina di domandare lavoro, seppure con remunerazione e produttività inferiori.

Cresce l’investimento in formazione della popolazione italiana

Alla luce di queste riflessioni, la composizione in base al titolo di studio della popolazione per età – che mette in luce la dinamica dell’investimento in istruzione – fornisce un elemento positivo. Infatti, confrontando il grado di istruzione della classe di età 25-34 anni con quello della classe 35-64 anni si osserva tra i giovani una maggior quota sia di diplomati (da 33,9% a 42,1%) sia di laureati (da 17,6% a 27,7%). Tale aumento del livello di formazione si osserva anche nelle ripartizioni del Nord Italia, dove la quota di laureati tra i 25-34 anni risulta leggermente superiore: per i diplomati da 33,0% a 37,3% nel Nord-ovest e da 33,6% a 38,6% nel Nord-est; per i laureati da 18,3% a 30,6% nel NO e da 18,2% a 31,9% nel NE.

Le scelte formative: ampio spazio ai licei, ancora limitate le iscrizioni ai percorsi STEM

Sul fronte delle scelte formative, il primo approfondimento riguarda i percorsi dell’istruzione secondaria superiore. I dati delle iscrizioni confermano a livello nazionale e in ogni contesto regionale una preferenza per i percorsi liceali.

Tuttavia, nelle regioni del Nord, dove è più forte la presenza del settore manifatturiero, vi è una quota più rilevante di studenti che scelgono i percorsi di formazione tecnica e professionale. Sebbene in diminuzione nell’ultimo quinquennio a favore dei licei, la quota delle iscrizioni agli istituti tecnici continua a rappresentare il 38,3% del totale in Veneto rispetto al 30,7% nazionale. In Emilia- Romagna e in Lombardia si registra, in controtendenza rispetto agli altri ambiti, una ripresa seppur lieve di chi sceglie i percorsi di istruzione tecnica; mentre perde peso ovunque la scelta degli istituti professionali. Rimane il fatto che, incrociando i NEET e i disoccupati, molte persone giovani che escono dagli istituti professionali non hanno un facile inserimento nel mondo del lavoro e nella società in generale e ciò stride con la vox populi che non si trovino operai qualificati perché gli studenti preferiscono i percorsi di studio non professionalizzanti. 

La riconciliazione tra l’evidenza statistica e l’opinione comune passa attraverso il riconoscimento che nelle scuole professionalizzanti sono indirizzate principalmente le persone che hanno manifestato nel corso degli studi maggiori difficoltà di apprendimento, di solito legate a contesti familiari e sociali penalizzanti e avvilenti l’autostima. Questa diagnosi richiede la terapia di un impegno in direzione del maggior coinvolgimento precoce degli studenti nel mondo del lavoro, in modo da consentire da una parte una familiarizzazione con quanto faranno da grande e maggiore consapevolezza di quanto si sia trasformato il lavoro in fabbrica; dall’altra, una chance di valorizzazione personale prima che la bassa stima di sé si cristallizzi in esclusione sociale o lavorativa. In tale direzione va, per esempio, l’iniziativa di recente avviata nell’Alto vicentino da parte di Confindustria e Confartigianato, su iniziativa del PD Schio, con il coinvolgimento dei dirigenti scolastici.

Un approfondimento a parte meritano gli Istituti Tecnici Superiori (ITS), non tanto nel confronto tra regioni, quanto con altri paesi, dove la formazione terziaria professionalizzante ha una più lunga tradizione e presenta un numero di iscritti assai più significativo, con un impatto in alcuni casi molto rilevante sulle competenze delle giovani generazioni. I dati dell’Ocse evidenziano come in Italia solo lo 0,1% dei 25-34enni abbia una formazione terziaria short-cycle (ISCED 5)3, a fronte di dati molto più rilevanti in Austria, Francia e Svezia.

Gli ITS sono realtà da pochi anni – sono stati infatti istituiti nel 2010 – e contano oggi 20mila iscritti, di cui un quinto circa nelle regioni di Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna. Il monitoraggio realizzato da Indire nel corso degli anni4 mostra una crescita progressiva degli iscritti con tassi di successo significativi sul fronte dell’occupazione per quanto riguarda coloro che escono da tali percorsi. I quali, come registrano i dati dell’Indagine Excelsior Unioncamere sulle assunzioni realizzate dalle imprese nel 2021, risultano difficili da reperire in quasi un caso su due. Tuttavia, si tratta ancora di un percorso formativo poco diffuso e conosciuto e va sempre evitato di trarre conclusioni di causazione spuria: chi entra negli ITS fa parte dell’élite, in termini motivazionali e di preparazione, delle scuole tecniche e professionali.

Infine, sebbene come visto l’investimento in formazione costituisca un fattore favorevole per accedere al mercato del lavoro e ridurre le difficoltà nella ricerca di un’occupazione, l’Italia – e Nord- est e Nord-ovest non fanno eccezione – presenta un basso livello di partecipazione alla formazione terziaria rispetto ad altri paesi europei, seppur in progressiva crescita. A livello di EU27 il dato sui laureati nella classe di età 25-34 anni raggiunge il 40,5%, mentre nel nostro Paese si ferma al 28,5% e, invece, sale al 49,4% in Francia e al 35,1% in Germania (dove alla gran parte degli studenti è precluso l’accesso all’università). Nel contesto regionale (Figura 2), il Veneto si ferma al 31,9%, l’Emilia-Romagna è al 33,9%, la Lombardia 33,6%, mentre le tradizionali aree benchmark in Europa, come Rhône Alpes e Bayern registrano dati pari rispettivamente al 53,5% e al 46,1%.

Per quanto riguarda la scelta dell’università, il focus sulle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), ritenute oggi indispensabili sia per accompagnare la trasformazione tecnologica e digitale delle imprese, sia come elemento cruciale nella vita quotidiana sempre più digitalizzata, nel saper comprendere ed affrontare le sfide che un contesto complesso pone a ciascuno, nel saper leggere il presente con i criteri della scienza e del metodo scientifico, nell’organizzare il proprio percorso personale, registra ancora una scarsa presenza di iscritti ai percorsi universitari in tale ambito, sebbene la dinamica delle iscrizioni tra il 2012 e il 2019 evidenzi una crescita più significativa in queste materie rispetto al complesso dell’offerta universitaria.

Il dato nazionale rimane limitato (meno del 25% degli sul totale); mentre a livello regionale, l’area nordestina insieme a quella del Nord-ovest presenta i valori più elevati nel contesto italiano: in particolare, in Piemonte (37,6%), in Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia (29,5%) e in Lombardia (28,5%). Mentre Veneto (26,3%) e Trentino-Alto Adige (28,3%) sono attardati rispetto alle altre regioni del Nord.

Va sottolineato che il numero di iscritti non dipende solo dalla propensione degli studenti ma anche dall’offerta formativa degli Atenei, dove si registrano paradossi. Emblematico il caso di un Ateneo dove 2000 giovani avrebbero voluto iscriversi al corso di intelligenza artificiale, ma i posti disponibili erano solo 100, quando a Scienze politiche l’offerta formativa era di 300 iscrizioni.

Laureati soddisfatti del loro percorso ma….

Indipendentemente dal percorso universitario scelto, nove laureati su dieci si dichiarano complessivamente soddisfatti dell’esperienza fatta. I dati ripresi dal recente Rapporto stilato da Almalaurea, certificano inoltre come la formazione terziaria nelle regioni considerate consenta già a partire dal primo anno dopo il conseguimento della laurea una elevata occupabilità, tanto che il tasso di occupazione è ovunque prossimo all’80% (ossia quattro su cinque lavorano). Il dato nazionale a un anno dalla laurea si ferma al 74,6% (tre su quattro) per raggiungere l’88,5% dopo 5 anni. Il dato è prossimo al 90% in tutte le regioni settentrionali prese in esame, con punte superiori al 93% in Lombardia, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Appena sotto il 90% il dato in Emilia-Romagna. Dato intermedio in Veneto (90,4%).

In termini di retribuzioni si registrano alcune differenze territoriali: il Veneto con 1635 euro netti mensili, pari alla media italiana, registra il salario più basso tra le regioni del Nord, dove i valori più elevati sono presenti in Trentino-Alto Adige (1700) e il Lombardia (1702). In Emilia-Romagna la retribuzione è di 1635 euro e in Friuli-Venezia Giulia di 1.671. 

Ovunque 6 laureati occupati su 10 hanno un contratto a tempo indeterminato a cinque anni dalla laurea.

A fronte di tanti elementi di soddisfazione per i percorsi universitari vanno poste le valutazioni riguardo all’efficacia della laurea e il grado di utilizzo delle competenze acquisite nella formazione nell’ambito del proprio lavoro. A cinque anni dal titolo di studio solo il 70% dei laureati occupati considera molto efficace o efficace la laurea e solo il 60% circa dichiara di fare un uso elevato delle competenze acquisite. Significa pertanto che una quota del 30% giudica, viceversa, non efficace la propria formazione, le cui competenze nel 40% dei casi sono utilizzate in misura non particolarmente importante in ambito lavorativo. La prima opinione contrasta con il dato di fatto che, grazie alla laurea, i giovani sono occupati e con uno stipendio più elevato dei loro coetanei non laureati, mentre la seconda ha a che fare con il mismatch tra percorso formativo scelto e la domanda di competenze da parte delle imprese. Inoltre, la laurea attrezza i giovani con una più elevata attitudine al cambiamento e con una maggiore capacità di apprendimento attraverso lo studio. Entrambi dote preziose in un mondo in rapida evoluzione che richiede un continuo adeguamento delle conoscenze.

… le lauree non sono tutte uguali

Questo elemento critico trova conferma nelle statistiche sperimentali prodotte da Eurostat per misurare il mismatch di competenze orizzontale, ovvero quello riferito alle competenze possedute, ottenuto calcolando la quota di occupati che svolgono la professione in un ambito diverso rispetto al percorso di istruzione del loro titolo di studio più elevato. In Italia la quota di non congruenza delle competenze rispetto al lavoro svolto è pari al 30,4% se riferito al complesso della formazione terziaria. Tuttavia, osservando il dato rispetto alle diverse discipline il mismatch è particolarmente elevato per chi ha un percorso nell’ambito Agraria e Zootecnico (61,3%) e nelle discipline umanistiche (58,8%), mentre tende a diminuire nelle altre discipline scientifiche e ancor più nell’ambito delle scienze sociali (economia), diritto, business e sanità.

I dati segnalano la problematicità di reperimento nelle assunzioni per indirizzo di studio nell’ambito della formazione terziaria, pone alcuni interrogativi circa la coerenza tra competenze ricercate dal sistema delle imprese e competenze acquisite all’università. Rispetto alle discipline STEM, ad esempio, sebbene gli imprenditori lamentino la carenza di candidati portatori delle stesse in fase di assunzione per oltre il 54% delle ricerche di personale realizzate, chi poi detiene tali competenze registra un disallineamento tra le conoscenze acquisite e quelle richieste nella prestazione lavorativa. Tale difficoltà è ancora più sentita nelle regioni del Nord-est: qui le competenze matematiche, ingegneristiche, scientifiche e tecnologiche sono le più difficili da reperire in più del 60% dei casi, con una punta di 74,2% per l’ingegneria elettronica e dell’informazione. Sul fronte opposto le competenze acquisite negli indirizzi umanistici, giuridico e psicologico, che risultano facilmente reperibili.

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