Ius soli: la sentenza con cui venerdì 27 giugno la Corte Suprema ha sancito che i tribunali federali possono contestare l’applicazione degli ordini esecutivi del presidente solo all’interno del distretto giudiziario di competenza e non nell’intero territorio nazionale è stata emessa in relazione a contenziosi sulle misure attuate da Donald Trump per contrastare l’immigrazione irregolare.
Nondimeno, la decisione dei giudici non ha affrontato il problema della validità o meno del decreto 14160 attraverso il quale, lo scorso 20 gennaio, nel primo giorno alla Casa Bianca del suo secondo mandato, il tycoon aveva inteso annullare il principio dello ius soli nel caso delle persone nate negli Stati Uniti da “clandestini” e da genitori entrati nel Paese con un visto che comporta un soggiorno limitato nel tempo.
Un verdetto di fatto interlocutorio
Dopo che alcuni tribunali federali avevano congelato l’ordine esecutivo 14160, i legali della Casa Bianca hanno avuto la perfida accortezza giuridica di bloccare a loro volta l’intervento dei magistrati, chiedendo alla Corte Suprema di pronunciarsi su una questione meramente procedurale: non sulla costituzionalità del provvedimento del presidente, cioè sulla sua compatibilità con la prima sezione del XIV emendamento che conferisce la cittadinanza americana a chi nasce sul suolo degli Stati Uniti a prescindere dalla nazionalità dei genitori (appunto il riconoscimento dello ius soli), bensì sulla legittimità delle ingiunzioni universali dei tribunali federali di grado inferiore, quelle con cui era stata sospesa l’operatività della decisione di Trump in tutto il Paese.
Sebbene The Donald, facendo ancora una volta sfoggio dell’abituale predilezione per le iperboli, abbia descritto il verdetto come una “enorme vittoria”, la Corte Suprema non si è espressa nel merito del decreto 14160, lasciando aperta la strada a una ipotetica pronuncia di incostituzionalità che potrà scaturire da nuovi ricorsi contro l’ordine esecutivo da parte di uno o più Stati dell’Unione o in seguito a una class action intrapresa per conto di chi è nato su suolo statunitense da immigrati irregolari dopo il 19 gennaio scorso.
La formulazione dello ius soli
Insieme al diritto degli immigrati regolari di richiedere la cittadinanza americana dopo cinque anni consecutivi di residenza, lo ius soli rappresenta uno dei fondamenti della politica di accoglienza degli Stati Uniti. L’altro pilastro è costituito dal Naturalization Act, promulgato nel 1790, appena sette anni dopo il riconoscimento formale dell’indipendenza degli Stati Uniti, che all’epoca prevedeva due anni appena di residenza affinché gli immigrati potessero diventare cittadini.
Rispetto al conferimento della nazionalità statunitense, lo ius soli è stato una acquisizione successiva. Fu, infatti, introdotto nel 1868 con la ratifica del XIV emendamento della Costituzione. Il passo in questione della prima sezione afferma che “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono”.
Per una volta almeno, Trump non riscrive la storia quando afferma che questa modifica costituzionale fu pensata per dare la nazionalità degli Stati Uniti agli ex schiavi afro-americani e ai loro discendenti dopo l’abolizione dello schiavismo avvenuta tre anni prima, alla conclusione della guerra civile (1861-1865).
Il suo scopo era quello di annullare un precedente verdetto della Corte Suprema che, nel 1857, aveva stabilito che gli afro-americani, a prescindere dalla condizione giuridica di persone libere o schiave, non erano cittadini statunitensi in quanto neri. Alla vigilia della guerra civile, i giudici avevano voluto interpretare un articolo del Naturalization Act del 1790, che aveva limitato ai soli immigrati di “razza” bianca la prerogativa di richiedere la nazionalità americana, nel senso che la cittadinanza statunitense era riservata esclusivamente a chi fosse di origine o ascendenza europea e, pertanto, gli africani e gli afrodiscendenti dovevano restarne esclusi.
La vicenda di Wong Kim Ark
Il varo del XIV emendamento fu seguito, due anni dopo, nel 1870, da una modifica del Naturalization Act che estese il conferimento della cittadinanza, fino ad allora ristretto agli stranieri di ceppo europeo trasferitisi negli Stati Uniti, anche agli immigrati neri, cioè alle persone di ascendenza africana. Però, al di là delle ragioni che portarono alla formulazione della prima sezione del XIV emendamento, il suo contenuto fu subito interpretato nei termini del riconoscimento dell’istituto dello ius soli. La riprova giudiziaria venne nel 1898 con la sentenza della Corte Suprema nel caso Wong Kim Ark v. United States.
Il ricorrente, Wong Kim Ark, era nato a San Francisco nel 1873 da immigrati cinesi. Il Naturalization Act, così come emendato nel 1870, non dava ai suoi genitori la possibilità di conseguire la nazionalità americana perché non erano né bianchi né neri: erano di origine asiatica, non europea o africana. Solo dal 1943 i cinesi avrebbero potuto richiedere la naturalizzazione come cittadini statunitensi.
Inoltre, nel 1882, un’ulteriore misura legislativa, il Chinese Exclusion Act, come la sua denominazione lasciava facilmente intendere, aveva vietato l’immigrazione dei cittadini cinesi negli Stati Uniti. Nel novembre del 1895 Wong Kim Ark partì per un viaggio di alcuni mesi per fare visita ai parenti rimasti in Cina. Nell’agosto dell’anno successivo, al momento del suo ritorno in California, gli fu vietato di rimettere piede negli Stati Uniti.
Per le autorità di Washington, in quanto figlio di cinesi, era anche lui un cittadino cinese, a maggior ragione perché nel Celeste Impero vigeva il principio dello ius sanguinis per la trasmissione della nazionalità, e, quindi, gli era proibito entrare negli Stati Uniti in base alla legge del 1882. Per niente intimidito dalla categoricità del provvedimento, l’indomito Wong Kim Ark si rivolse a un avvocato e intentò causa agli Stati Uniti. Dopo che il contenzioso ebbe attraversato tutti i gradi di giudizio, nel 1898 la Corte Suprema gli dette finalmente ragione: era nato in California e, pertanto, era cittadino americano; dunque, non poteva essere soggetto al Chinese Exclusion Act ed era un suo diritto tornare nella propria patria, gli Stati Unii.
I tentativi di rovesciare Wong Kim Ark v. United States
Il verdetto del 1898 fu sottoscritto da sei degli otto giudici di cui si componeva al tempo la Corte Suprema e non mise fine al dibattito sullo ius soli, ma la costituzionalità di quest’ultimo principio è sempre stata ribadita, perfino nei momenti di xenofobia più accesa.
Per esempio, all’inizio del 1942, dopo il proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, un’organizzazione di sedicenti patrioti, i Native Sons of the Golden West, cercò di ottenere una revisione della sentenza del 1898 per precludere il conseguimento della nazionalità americana ai figli degli immigrati giapponesi nati su suolo statunitense e per revocare le cittadinanze già concesse.
L’associazione fece leva non solo sulla guerra in corso tra Washington e Tokyo ma anche sulla constatazione che la legge del 1870, ancora in vigore, continuava a vietare la naturalizzazione degli immigrati originari del Giappone. Nondimeno, la Nona Corte d’Appello federale, davanti alla quale fu presentata la richiesta, la bocciò e la Corte Suprema si rifiutò di prendere in esame il ricorso dei Native Sons of the Golden West.
Le radici storiche dell’offensiva trumpiana contro lo jus soli
La polemica sullo ius soli si è intensificata a partire dagli anni Novanta del Novecento, in coincidenza con la crescita del numero di immigrati “clandestini” provenienti dall’America centrale, e ha condotto sia ad avanzare una diversa interpretazione della prima sezione del XIV emendamento, sia a propugnare la cancellazione tout court dello ius soli stesso.
Nel primo senso, ad esempio, si espresse il giornalista Peter Brimelow, lui medesimo uno straniero naturalizzato, ancorché di origine britannica, autore nel 1995 del volume Alien Nation: Common Sense about America’s Immigration (Random House). Nel libro, che all’epoca ebbe un discreto successo di pubblico e di critica, oltre a dolersi del fatto che la componente anglo-sassone non rappresentava più la maggioranza della popolazione degli Stati Uniti, Brimelow stigmatizzò lo ius soli come una forma di legislazione paradossalmente premiale a beneficio degli immigrati irregolari che avevano violato la normativa vigente per accedere e/o vivere illegalmente nel Paese.
Invece, in una prospettiva meno radicale, nel 1991, il deputato repubblicano della California Elton Gallegly aveva già presentato un disegno di legge per chiarire quali fossero le categorie specifiche di persone “soggette alla giurisdizione degli Stati Uniti” e, pertanto, beneficiarie dello ius soli in ragione del XIV emendamento.
Il suo progetto precisava che si sarebbe trattato esclusivamente dei figli di cittadini statunitensi, di immigrati in possesso della green card (il permesso di soggiorno a tempo indeterminato) e di stranieri in servizio attivo nelle forze armate americane. Sarebbero così rimasti esclusi i figli degli immigrati irregolari e di coloro che si trovavano occasionalmente negli Stati Uniti: turisti nonché studenti e lavoratori temporanei presenti legalmente nel Paese ma per un periodo circoscritto. Tuttavia, né il disegno di legge di Gallegly né misure analoghe sottoposte al Congresso in ogni successiva legislatura sono mai state approvate.
L’ingresso di Trump sulla scena
Nel 2018, alla vigilia delle elezioni di mid term, Trump annunciò che avrebbe assunto un provvedimento per annullare lo ius soli nel caso dei figli dei “clandestini” e il senatore repubblicano Lindsay Graham del South Carolina dichiarò che avrebbe a sua volta formulato una proposta legislativa con lo stesso fine. Nelle settimane precedenti, una “carovana” di alcune centinaia di persone provenienti da Paesi dell’America centrale si era messa in viaggio verso il confine meridionale degli Stati Uniti nella speranza di riuscire a varcarlo pur senza essere in possesso di un regolare visto d’ingresso.
Trump non perse tempo a fomentare la xenofobia dell’elettore medio, impegnandosi a impedire questa presunta “invasione” di stranieri, nel tentativo di limitare le perdite di voti per il partito repubblicano previste dai sondaggi. In questo ambito, ipotizzò la revoca dello ius soli. Nondimeno, una volta che i repubblicani videro aumentato il numero dei loro seggi al Senato, pur perdendo la maggioranza alla Camera, le preannunciate iniziative di The Donald e di Graham non ebbero alcun seguito fino alla promulgazione dell’ordine esecutivo 14160 da parte di Trump il giorno del suo secondo insediamento alla Casa Bianca.
Altri precedenti giudiziari
Nel 1898, facendo riferimento alla common law inglese alla quale è ispirata buona parte del diritto e della giurisprudenza statunitensi, la Corte Suprema aveva già chiarito la portata semi-universale della prima sezione del XIV emendamento, escludendo dal beneficio dello ius soli solo due categorie specifiche di persone: i figli dei diplomatici e dei dignitari stranieri e quelli procreati da truppe di occupazione.
Inoltre, quasi a smentire preventivamente le obiezioni di Brimelow, i giudici del massimo tribunale federale avevano già stabilito nel 1982 che i figli minori, ai quali non era immaginabile attribuire una piena capacità decisionale, non potevano subire le conseguenze negative dei comportamenti illeciti dei loro genitori.
Nella causa Plyler v. Doe la Corte Suprema aveva specificamente sentenziato l’incostituzionalità dei provvedimenti di alcune assemblee legislative statali per bandire dalla frequenza gratuita alle scuole pubbliche i figli minori portati illegalmente negli Stati Uniti da genitori, altri parenti o comunque adulti a cui dovevano rispondere.
Se non è lecito penalizzare i bambini nel campo dell’istruzione, a maggior ragione diventa quanto mai problematico colpirli negando loro il conferimento della cittadinanza statunitense. Inoltre, a quasi un secolo di distanza l’uno dall’altra, sia il verdetto Wong Kim Ark v. United sia la sentenza Plyler v. Doe precisarono che la formula “soggetto” alla “giurisdizione” degli Stati Uniti doveva essere intesa come “sottoposto alle leggi americane”, come accade a chiunque si trovi nel territorio del Paese a prescindere da come vi siano entrati i genitori, se in maniera legale o irregolarmente. In tal modo, veniva anche spiegata l’esclusione dei figli di ambasciatori, personale consolare e dignitari stranieri dalla cittadinanza statunitense perché, in quando beneficiari dell’immunità diplomatica, non risultavano soggetti alla normativa statunitense.
Di contro, i “clandestini” e i loro figli che avessero commesso un reato sarebbero stati puntiti sulla base delle leggi americane, alla cui giurisdizione erano immancabilmente soggetti trovandosi in territorio americano. Del resto, la Corte Suprema si è in sostanza già pronunciata sull’attribuzione della cittadinanza americana ai figli degli immigrati irregolari. Lo ha fatto in margine alla vicenda riguardante la deportazione di una coppia di messicani entrati illegalmente negli Stati Uniti. Infatti, quando fa riferimento al loro primo figlio, la sentenza sulla vertenza in questione, il caso Immigration and Naturalization Service v. Rios-Pineda, risalente al 1985, scrive che costui, essendo “nato negli Stati Uniti, era cittadino di questo Paese”.
Le prospettive per il futuro
I precedenti giudiziari, dunque, deporrebbero a favore del mantenimento dello ius soli. Per abrogarlo bisognerebbe modificare la Costituzione. Tuttavia, per diventare effettivi gli emendamenti costituzionali necessitano dell’approvazione da parte della Camera e del Senato, con una maggioranza qualificata dei due terzi dei voti in ciascun ramo del Congresso, e della successiva e imprescindibile ratifica ad opera dei tre quinti degli Stati dell’Unione.
Il partito repubblicano dispone oggi di 53 seggi su 100 al Senato e di 220 su 435 alla Camera. Inoltre, 31 Stati su 50 hanno dato la maggioranza del voto popolare a Trump lo scorso anno e 27 sono amministrati al momento da governatori repubblicani. In altre parole, non ci sono i numeri per cambiare la Costituzione. The Donald, tuttavia, dispone di un’altra freccia al proprio arco. Più volte ha definito la presenza di immigrati irregolari come una “invasione”, un’esagerazione lessicale che suggerisce una analogia implicita tra queste persone e quelle truppe di occupazione ai cui figli la Corte Suprema ha negato l’applicabilità del principio dello ius soli fino dal 1898.
Del resto, nel procedere alle deportazioni sommarie dei “clandestini” nei primi mesi del suo secondo mandato, Trump si è avvalso dello Alien Enemies Act del 1798, pensato proprio per detenere ed espellere stranieri cittadini di Paesi nemici in tempo di guerra o di invasione del territorio nazionale. Equiparare gli immigrati irregolari a forze di occupazione per negare ai loro figli nati negli Stati Uniti la cittadinanza americana sarebbe una palese forzatura della realtà. Tuttavia, risulterebbe anche in perfetta linea con la strategia di Trump, volta a denunciare emergenze nazionali di fatto inesistenti per piegare al suo volere l’interpretazione della Costituzione e le sentenze di una parte della magistratura.
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STEFANO LUCONI insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).