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Israele, Iran e Usa: improbabile che Trump entri in guerra ma l’Iran non s’arrenderà. L’atlantismo non è morto ma cambia. Parla Silvestri

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Come andrà a finire la guerra tra Israele e Iran? E Trump deciderà di entrare in guerra con i suoi bombardieri a fianco di Israele? E l’Iran che farà? Finora Netanyahu ha vinto militarmente ma per arrivare alla pace bisogna saper vincere anche politicamente e trovare le alleanze giuste. Quanto all’Europa, non può restare orfana degli Usa: l’atlantismo può sopravvivere anche se gli Stati Uniti se ne vanno ma sarà un atlantismo diverso. Sui complicatissimi scenari che si sono aperti nel Medio Oriente e nel mondo intero dopo l’attacco di Israele all’Iran FIRSTonline ha intervistato il professor Stefano Silvestri, già presidente e consigliere scientifico dello Iai e grande esperto di questioni internazionali e militari. Ecco il suo parere

Prof Stefano Silvestri, consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali, attaccando l’Iran, che cosa vuole Israele?

“Viene in mente la “dottrina Begin”, la prova che spesso, troppo spesso, la storia si ripete. Facciamo un ripasso. Il 7 giugno 1981 il primo ministro israeliano Menachem Begin ordinò ai suoi cacciabombardieri di radere al suolo il reattore nucleare che la Francia aveva ceduto all’Irak di Saddam Hussein, sospettando che quest’ultimo lo utilizzasse per dotarsi di armi nucleari. Da allora è in vigore la “dottrina Begin”, secondo la quale Israele farà tutto il necessario per impedire che un altro paese del Medio Oriente, oltre Israele, si doti di armi nucleari. Gli attacchi all’Iran sono in linea con tale dottrina. Purtroppo però, mentre i bombardamenti del 1981 raggiunsero il risultato voluto, e Saddam non ebbe più modo di acquisire armi nucleari, gli attacchi di questi giorni, a quel che sembra da quel poco che si sa per certo, hanno fortemente danneggiato ed indebolito il programma iraniano di arricchimento dell’uranio, ma non lo hanno né distrutto, né fermato, ma solo ritardato”. 

Insomma nonostante quello che appaia Israele non ha raggiunto l’obiettivo?

“È tutto seriamente incerto. E tale incertezza è dovuta a molte diverse ragioni. Quelle di cui si parla comunemente riguardano il gran numero dei siti di arricchimento, le quasi insuperabili barriere difensive di alcuni di essi, la vastità del territorio da controllare, la difficoltà di inviare truppe a terra, eccetera. Ma ci sono anche altre ragioni che contribuiscono a diminuire l’efficacia dell’azione. La prima delle quali sta nel fatto che Israele sta conducendo una guerra “limitata” che lo costringe ad evitare scelte che, da un punto di vista strettamente militare, potrebbero assicurargli la debellatio del nemico. Ad esempio, nessun attacco, sinora, ha seriamente danneggiato l’estrazione e l’esportazione di idrocarburi: perché? Ciò potrebbe forse provocare una dura reazione cinese? E ancora: il bombardamento del sito nucleare di Natanz, nei pressi di Teheran, l’unico sul quale abbiamo notizie, è stato circoscritto: forse per evitare il formarsi di nubi radioattive che minaccerebbero gli stati del Golfo, i loro terminali e le numerose basi militari occidentali in quei paesi (americani, britannici, francesi, turchi…)? Insomma: quanto si può danneggiare l’Iran senza provocare una reazione della Russia, molto dipendente dai flussi commerciali che le giungono dall’Iran, via Caucaso e Mar Caspio? E fino a che punto Israele può ignorare o peggio danneggiare gli interessi delle altre potenze, inclusi i maggiori Stati arabi della regione, della cui acquiescenza e collaborazione avrà un enorme bisogno se vorrà tentare di chiudere purchessia la questione palestinese? Non sono domande di poco conto”. 

Se la guerra è “limitata” dovrebbe essere più facile arrivarne alla fine. Eppure non sembra. 

Quali scenari si possono intravvedere?

“Se ne aprono molti e diversi. Potrebbe ad esempio entrare in crisi l’attuale regime iraniano, rendendo possibile un accordo su basi nuove. Oppure Benjamin Netanyahu potrebbe riuscire nel suo tentativo di forzare la mano a Donald Trump, ottenendo l’invio dei Marines in Iran. O ancora qualcuno potrebbe essere tentato da un uso (limitato?) di armi nucleari per distruggere laboratori altrimenti troppo ben protetti. Tutti a mio parere sono di altamente improbabili. Improbabile è anche che Trump conceda a Israele le testate GBU-57, le uniche capaci di perforare le rocce che proteggono i laboratori  nucleari più nascosti. Perché dovrebbe concedere non solo le bombe, ma anche i bombardieri in grado di sganciarle e i piloti per guidare gli apparecchi. Insomma dovrebbe entrare in guerra. Ma il meno realistico degli scenari è pensare che un popolo che ha resistito compatto a dieci anni di guerra con l’Irak, e ad oltre un milione di morti, si arrenda per pochi bombardamenti ed alcune uccisioni mirate, anche se non ama il suo governo. Sotto attacco in genere è la reazione nazionalistica ad avere la meglio. Insomma, nonostante questa nuova guerra abbia portato Netanyahu a recuperare favori nel mondo che conta (Paesi occidentali e Paesi arabi), il fatto che l’abbia  voluta iniziare  senza aver prima concluso quelle in cui è impegnato, non sarà  senza conseguenze”.

Perché Trump ha chiesto quindici giorni di tempo per decidere se scendere o meno in campo a fianco di Israele?

“Francamente non si capisce, dare un giudizio sul comportamento del presidente degli USA è sempre più difficile. Quello che appare chiaro è che Trump si è fatto prendere in giro da Netanyahu, che ha attaccato l’Iran mentre ancora Washington stava negoziando. Non credo che sia stato una manovra combinata come pure ho letto da quale è parte, per distogliere con il negoziato l’attenzione degli iraniani, beffarli insomma. Mi sembra più vero che gli americani siano stati messi di fronte al fatto compiuto. A maggior ragione quindi Trump non vorrà apparire di nuovo come una marionetta guidata dal suo scomodissimo alleato.”

Si teme da più parti che l’alta tensione potrebbe portare a usare anche le armi nucleari, lei che cosa ne pensa?

“Usare le armi nucleari sarebbe politicamente e strategicamente disastroso. La ‘dottrina Begin’ può funzionare solo se l’armamento nucleare israeliano resta invisibile e inutilizzato. Altrimenti la pressione per una proliferazione nucleare selvaggia diverrebbe incontenibile. Tuttavia si può reiterare l’attacco, di tanto in tanto, magari nella speranza che col tempo qualcosa cambi. Ma questo significa un’altra gruerra aperta, senza speranza di chiusura, a breve o a lungo termine. Così però le guerre in Medio Oriente si cronicizzano, invece di avviarsi a soluzione. Sembravamo vicini al grande mutamento, grazie alla crescente disponibilità del mondo arabo ad accettare il dialogo e la cooperazione con Israele. Purtroppo il terribile attacco terroristico del 7 ottobre e la successiva “guerra di Gaza” hanno cambiato tutto. Il governo israeliano ha puntato le sue carte sulla risposta militare, ignorando i risvolti politici. Ma se Israele vorrà vincere la Pace, oltre una serie infinita, interminabile, di scontri militari, avrà bisogno di alleati nella regione.  E invece la sua rigida posizione anti palestinese  impedisce di raccogliere i frutti del successo militare contro Hamas e Hezbollah. Lo stesso dilemma oggi si pone con la guerra all’Iran: molti paesi mediorientali guardano con favore ad un ridimensionamento dell’Iran, a condizione però che la guerra non si espanda e si complichi. E questo vale anche in Israele. Le sue difese antimissile sono assolutamente eccezionali. Ma qualche colpo, inevitabilmente, arriva e uccide. Il peso delle vittime israeliane è altissimo, a Gerusalemme. Insomma non basta iniziare le guerre: bisogna anche concluderle”. 

Mentre cadevano le bombe sull’Iran i Grandi della Terra si riunivano in Canada. Tuttavia l’impressione data del G7, soprattutto dopo che Trump se n’è andato prima del tempo, è stata quella di un declino inesorabile. L’atlantismo è morto?

“Io non direi. Direi invece che è cambiato. Nel senso che si può parlare di atlantismo anche senza gli USA e l’immagine che è venuta fuori dall’incontro canadese è esattamente questa: gli americani se ne vanno, ma gli altri Grandi non  mollano e continuano a discutere e a restare uniti. Io l’ho apprezzato. E comunque la mia fiducia è che i Sei di cui parliamo si siano resi conti che la loro sopravvivenza è legata al procedere tutti insieme e uniti. Certo che ci riescano è un altro discorso, ma intanto ci provano”. 

Parliamo della politica estera dell’Italia?

“Diciamo che in quanto grande Paese europeo potrebbe fare di più proprio per guidare l’Europa verso decisioni più importanti e pesanti. Potrebbe essere più propositiva, più incisiva. Questo governo è sicuramente filo europeo ma non è stato, e non è, in prima fila nella battaglia con l’Europa e per l’Europa. Nel complesso possiamo dire che l’Italia ha le carte in regola  per non essere lasciata sola, fuori. Se poi sarà tenuta fuori, sarà isolata, accadrà  solo perché non ha reagito in tempo. Ma detto questo, ci sono punti fermi nella politica dell’Italia che non vanno sottovalutati: intanto siamo filo-europei, cosa che non era scontato con un governo composito come il nostro in cui sono presenti forze anti-Ue. Il secondo punto è essere rimasti  a fianco dell’Ucraina. Non è stato facile all’inizio e tantomeno lo è adesso. Io a essere sincero non ci credevo. Quanto alla politica in Medioriente, siamo solo a vagiti e a una generica posizione per la pace e contro la “scalation”, come dice il nostro ministro degli Esteri. L’impressione è che in questa fase stiamo soprattutto cercando di sopravvivere alla crisi dell’atlantismo, atlantismo inteso come rapporto privilegiato con gli USA, che è stato sempre una colonna della politica estera italiana e che sul quale questo governo ha fortemente puntato.  Ma, come abbiamo detto, i tempi portano altrove, non si può rimanere orfani degli USA in eterno: dalla crisi atlantista se ne esce solo restando uniti come europei e con un politica fortemente europeista”. 

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