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INTERVISTE DEL WEEKEND – Tabarelli: “Sull’energia una guerra civile che fa male al Paese”

“Penso che andare a votare sia espressione di democrazia e di partecipazione alla società civile, quindi ci andrò e voterò ’No’”. A distanza di una settimana dal referendum sulla proroga delle concessioni in mare (entro le 12 miglia dalla costa), Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia e uno dei più accreditati esperti italiani in questo settore strategico per l’economia, svela a FIRSTonline il perché della sua posizione e fissa alcuni punti fermi nella gran confusione che regna sulla reale produzione di idrocarburi in Italia, sul suo impatto sull’ambiente, sui danni per l’economia provocati da posizioni poco documentate mentre le inchieste giudiziarie in corso su Tempa Rossa e il coinvolgimento del ministro Federica Guidi hanno aggiunto altra benzina sul fuoco.

“Le aziende, e ne abbiamo tra le migliori al mondo, così diventano vittime di una ‘guerra civile’ che fa male al Paese”, afferma Tabarelli. “Si dimentica – aggiunge – che le risorse del sottosuolo sono di tutti gli italiani e non sono di proprietà delle Regioni e di chi vive in quei territori. Invece assistiamo ad un corto circuito istituzionale che impoverisce tutti, in un Paese dilaniato da continui litigi e da integralismi ambientalistici che bloccano tutto: anche il fotovoltaico, l’eolico e le biomasse”. Articolato il giudizio sul governo: “Matteo Renzi è giovane ed è un bravissimo politico anche se forse un po’ incosciente. Ha fatto bene a tentare di sbloccare progetti strategici come quello di Tempa Rossa ma ha sottovalutato il potere di veto delle Regioni che è difficile arginare senza intervenire direttamente sul Titolo V della Costituzione. Come per il debito pubblico, stiamo scontando le scelte federaliste fatte all’inizio degli anni Duemila”.

Partiamo dal referendum della prossima settimana: perché voterà no?

“Sono convinto che non si raggiungerà il quorum proprio perché vi è un eccesso di confusione, quasi un paradosso, su questa consultazione. Per cominciare, è sbagliato parlare di referendum no Triv: le nuove trivellazioni in mare sono già bloccate. Molti elettori non lo sanno e molti non lo ricordano, ma con il decreto 128 del 2010 è stato introdotto il divieto di perforazione entro le 12 miglia (circa 21 chilometri) dalla costa. Lo varò il governo Berlusconi con un colpo di mano dei senatori della Destra che raccolse l’appoggio anche della Sinistra, grazie a questo presunto ambientalismo trasversale che è la vera causa di molti problemi che ci troviamo ad affrontare. In quei giorni in Messico la falla del giacimento Bp sversava in mare 60 mila barili di petrolio al giorno ma fummo il solo Paese a decidere di vietare le trivellazioni. Inoltre, dal 2013, nessuno lo sa o se ne ricorda, è vietato perforare anche nel Tirreno. Peccato, perché abbiamo molto petrolio e gas”.

Quanto valevano i progetti fermati dai due divieti successivi?

“Prevedevano investimenti per circa 5 miliardi. Già i governi Monti e Letta tentarono di sbloccare l’impasse con una procedura più spedita che aggirava i veti regionali ma senza successo. Le Regioni cavalcano la protesta proprio facendo leva sulle deleghe in tema di energia che hanno ricevuto quando è stato riformato, nel 2001, il Titolo V della Costituzione in chiave federalista”.

Su tutto questo è intervenuta la Legge di Stabilità 2016 che ha esteso le concessioni già esistenti. Proroga che è stata impugnata davanti alla Consulta da 10 Regioni, poi scese a 9. La riforma costituzionale che si voterà in ottobre ridisegnerà anche il Titolo V e il rapporto con le Regioni, ma intanto cosa succederebbe ora se vincesse il sì?

“Per rispondere devo fare un passo indietro. Inizialmente i quesiti di incostituzionalità posti dalle Regioni erano 6. Il governo ha modificato la sua posizione, lasciando in piedi solo la proroga delle concessioni esistenti. Cosicché il solo quesito ammesso dalla Consulta riguarda quest’ultimo punto e nient’altro”.

Quali possono essere le conseguenze del referendum?

“Se venisse superato il quorum, è verosimile che vincerebbe il sì. Finora, quando una concessione trentennale scade si può chiedere, superando le verifiche previste, una prima proroga per 10 anni e poi, fino a tre volte consecutive, per ulteriori cinque. Cosa succederebbe dopo il voto? Probabilmente che non verrebbe prorogata più alcuna concessione anche se il governatore della Puglia sostiene il contrario: a suo avviso rimarrebbe in piedi il sistema di proroghe”.

E se vincesse il no?

“Se non sarà raggiunto il quorum o se vincesse il no, la durata delle concessioni – così stabilisce la Legge di Stabilità – viene estesa alla vita utile del giacimento. Non sarebbe quindi più necessario chiedere la proroga, avverrebbe in automatico. E’ una disposizione giuridicamente debole anche se va rilevato che tecnicamente il giacimento si esaurisce, in media, dopo 20-30 anni”.

Il contenzioso, quindi, rischia di non esaurirsi con il referendum?

“E’ possibile. D’altra parte i toni politici esasperati a cui assistiamo ogni sera in televisione non facilitano soluzioni razionali ed equilibrate, dimenticando che in Italia il monitoraggio sugli impianti è costante e le compagnie devono garantire procedure stringenti. Va sottolineato che né l’Emilia Romagna, dove si trovano le piattaforme più importanti di fronte a Ravenna, né la Sicilia sono scese in campo mentre l’Abruzzo si è chiamato fuori dopo che il governo ha annullato lo Sblocca Italia. La Puglia di Michele Emiliano, che non ha alcun impianto in acqua, è invece schierata per una chiara scelta politica anti-renziana. Faccio infine osservare che circa il 90% delle produzioni in essere entro le 12 miglia, circa una novantina di piattaforme, riguardano gas, il combustibile più pulito, e non petrolio”.

In questa situazione già abbastanza complicata, è scoppiata la vicenda Tempa Rossa e Val d’Agri che riguarda impianti su terra ferma e non in mare. Proprio in Val d’Agri, come si vede nella foto scattata a Tramutola, il petrolio affiora naturalmente dal terreno.

“L’inchiesta della magistratura è in corso e bisogna attendere l’esito finale. La vicenda, però, non ha nulla a che vedere con il referendum anche se c’è chi accosta le inchieste alla scadenza elettorale, andando a confondere ulteriormente le cose”.

In questa situazione, cosa sta perdendo l’Italia?

“L’investimento di Tempa Rossa, su cui prima si era mossa Exxon e poi Total, vale da 1 a 1,5 miliardi tuttora fermi. Il danno per l’Eni in Val d’Agri si può valutare circa 2,7 milioni di euro di mancata produzione al giorno, quasi 1 miliardo l’anno di cui il 10% va direttamente alla Basilicata. Se poi guardiamo agli impianti entro le 12 miglia, sono in gioco circa 600 milioni di euro l’anno – per 2 miliardi di metri cubi di gas e 0,4 milioni di tonnellate di petrolio – su 3 miliardi di euro generati dalla produzione nazionale. Più in generale si può dire che l’Italia spende 25 miliardi l’anno per importare il 90% dei propri consumi di gas e petrolio e che, di questa cifra, almeno 2-3 miliardi l’anno potrebbero restare in Italia, con evidenti ricadute occupazionali. Tuttavia, ritengo che il danno maggiore sia per la deindustrializzazione del Paese: in dieci anni abbiamo perso il 5% di Pil, siamo più poveri ed è doloroso vedere come imprese industriali di primissimo ordine che l’Italia dovrebbe esibire, finiscano invece per subire una sorta di linciaggio. E’ questa la ricchezza che perdiamo”.

Guardando al mercato internazionale del petrolio, come prevede che si muoveranno le quotazioni? Si andrà verso un rialzo dei prezzi?

“Le stime sono che già a fine anno il prezzo del barile possa risalire oltre i 50 dollari e a progredire a 60-70 dollari dal prossimo anno”.

Ultima considerazione su luce e gas. Si discute anche su questo e su come arrivare alla completa liberalizzazione nel 2018. Fa discutere l’ipotesi di aste per ripartire tra gli operatori i clienti oggi ancora sul mercato vincolato.

“Le ultime revisioni tariffarie decise dall’Autorità per il trimestre in corso hanno registrato diminuzioni record del 10% per il gas e del 5% per l’elettricità. Sono sconti legati al crollo del petrolio. Questo risultato è il frutto delle trivellazioni massicce realizzate negli Stati Uniti per la produzione di shale oil. Altro che liberalizzazioni e polemiche su a chi dare i 24 milioni di clienti in regime tutela”.

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