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Industria e servizi, l’effetto Covid sulle società quotate

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Quale impatto ha avuto il Covid sulle società dei settori industriali e dei servizi quotate sul Ftse Mib, cioè su 27 delle 40 totali inserite nel listino principale di Piazza Affari? A fare il punto è uno studio di Mediobanca, giungendo a una conclusione: al netto del calo generalizzato del fatturato, la maggiore resilienza la stanno dimostrando la manifattura e le utilities, che o rimbalzano o perdono meno di altre, e che soprattutto viaggiano bene in Borsa. L’analisi tratta di 16 società a controllo privato e 11 società a controllo pubblico, 17 manifatturiere, 6 energetiche/utilities, 3 di servizi e 1 petrolifera. Queste 27 società rappresentano una capitalizzazione di Borsa complessiva pari a 386 miliardi di euro, e da quando è iniziata la pandemia sono persino riuscite a limarla al rialzo: +1,4% il dato aggregato, che significa oltre 5 miliardi in più. La performance è stata possibile grazie al rally intorno alla doppia cifra proprio di manifattura (+19,7 miliardi) e utilities (+9,5 miliardi), mentre i servizi hanno perso 4,4 miliardi di valore e in particolare pesa il flop dell’unica petrolifera, Eni, che vale quasi 20 miliardi in meno. Male anche Saipem e Leonardo, mentre la migliore è Diasorin.

RISULTATI FINANZIARI

Il calo del fatturato riguarda invece tutti: rispetto al 2019, nel 2020 le 27 società studiate da Mediobanca hanno diminuito i ricavi del 18,6%, quindi complessivamente per 75 miliardi. Anche in questo caso è comunque l’industria a reggere meglio, soprattutto grazie alla reazione nella seconda parte del 2020, rispetto alla débâcle del secondo trimestre il cui fatturato era crollato del 42,2%: il calo dei ricavi si riduce al -4,2% nel terzo trimestre (rispetto al -14,3% del totale Ftse Mib) e al -6,5% nel quarto (-11% il totale Ftse Mib). Per le società manifatturiere è inoltre previsto un rimbalzo del 10% del giro d’affari nel 2021 e un ritorno ai livelli pre-crisi già nel 2022. Tra le società brilla Diasorin, il cui aumento dei ricavi a doppia cifra (+27,1%) ha chiaramente beneficiato della vendita dei kit diagnostici per il Covid. Bene anche, sui ricavi, Stm, Inwit e Italgas, mentre anche in questo caso la peggiore è Eni, che cede oltre il 37%.

Il dato peggiore è quello dei margini operativi: quello netto è complessivamente precipitato del 42,5% nel 2020 sul 2019, e in questo caso è andata malissimo anche la manifattura (-44%). In negativo ma limitando i danni le utilities (-4%), mentre ancora una volta la “pecora nera” è l’Eni, che praticamente azzera il proprio margine operativo netto (-97,8%). Un po’ meno drammatico il riscontro sugli utili. Per le 27 società del Ftse Mib analizzate da Mediobanca il 2020 si è sì chiuso in perdita, ma solo di 1,5 miliardi complessivi e il dato è palesemente appesantito dal profondo rosso di Eni, che perde 8,6 miliardi. Gli altri settori galleggiano: utilities in utile per 5,5 miliardi, manifattura di 1,3 miliardi, servizi di 0,3 miliardi. Nel 2019 l’utile complessivo delle 27 società in questione era stato di 12,8 miliardi di euro. Per quanto riguarda i dividendi, nel 2021 ne verranno distribuiti complessivamente 1,4 miliardi in meno (-12%) rispetto al 2020, ma aumentano i dividendi distribuiti dai grandi gruppi pubblici di energia/utilities (+0,6 miliardi) e dalla manifattura privata (+0,2).

LAVORO E MANAGEMENT

Nel 2020 le 27 società esaminate hanno occupato mediamente 723mila persone e grazie al blocco dei licenziamenti (ancora in vigore quest’anno) la contrazione si è limitata all’1,4%, cioè circa 10 mila dipendenti in meno rispetto al pre-Covid. Per quanto riguarda i Cda, si confermano una età media alta (60 anni) e la scarsissima presenza di donne, la cui età media è inferiore a quella degli uomini (54 anni contro 60,4) nei ruoli chiave (10%). Il 14% delle posizioni di comando è ricoperto da manager stranieri. Buon segnale sul fronte dei compensi: la crisi ha imposto un giro di vite, come era giusto che fosse, anche e soprattutto nel management. Nel 2020 il monte compensi è diminuito del 17%, cioè oltre 21 milioni sui 102,5 milioni totali. Lo stipendio medio di un apicale è stato pari a 2.056.600 euro lordi nel 2020 (di cui 834.100 euro la quota fissa e 1.222.500 la quota variabile), comunque oltre 36 volte il costo medio del lavoro (56.900 euro).

Occorrono quindi 36 anni a un lavoratore «medio» per guadagnare quanto un top manager nel 2020: dal 1984 al 1999 per la quota fissa e dal 2000 al 2020 per quella variabile. Il compenso medio delle figure di comando cresce con la capitalizzazione delle società gestite: va da un minimo di 1.227.600 per gli apicali di società con capitalizzazione inferiore ai 5 miliardi fino ai 5.145.500 per gli apicali di società con capitalizzazione maggiore di 20 miliardi. Altro aspetto sicuramente da migliorare: la remunerazione media di un presidente donna è inferiore del 16,8% a quella di un presidente uomo.

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Categories: Economia e Imprese