Con la rinuncia dell’Unicredit di Andrea Orcel a proseguire l’Ops sul Banco Bpm per la nebbia che si addensa sulle regole del gioco, il Governo Meloni, e in particolare il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ha sicuramente centrato l’obiettivo che si era posto all’inizio del risiko bancario: dismettere gli abiti di arbitro imparziale per indossare quelli di giocatore e sbarrare la strada a qualunque banchiere pensasse di agire in piena libertà secondo le semplici regole del mercato. Ne ha fatto per ora le spese il Ceo di Unicredit, Andrea Orcel, il Cristiano Ronaldo del merger & acquisitions in campo bancario che aveva però sottovalutato la logica di potere del Governo e del ministro leghista Giorgetti, fin dal primo giorno ostile all’Ops di Unicredit per fin troppo evidenti interessi elettoralistici nelle zone in cui più forte è la presenza del Banco Bpm. Adesso al Mef si festeggia per la ritirata di Unicredit – che ieri però la Borsa ha premiato a differenza di quanto ha fatto con il Banco Bpm – ma, a ben vedere, ci sono almeno quattro motivi che rendono il successo di Giorgetti simile a una vittoria di Pirro.
Unicredit-Banco Bpm, 4 ragioni che rendono fragile la vittoria del Governo
“Così fan tutti” dicono negli ambienti governativi per sottolineare che l’interventismo del potere politico in campo bancario non è un’esclusiva solo italiana ma che anche in Germania, in Spagna e in Portogallo, per non dire di Usa e Cina, i Governi non esitano a calpestare le regole dl mercato per facilitare le combinazioni bancarie ritenute più gradite. Ma il problema non è stabilire se il dirigismo è o no tornato di moda ma se fa bene alle banche e al sistema bancario.
Con il suo ostruzionismo all’Ops Unicredit-Banco Bpm il Governo può cantar vittoria quanto vuole ma ha impedito il consolidamento del secondo campione bancario che avrebbe fatto un gran bene alla concorrenza all’interno del sistema nazionale e rafforzato le chances di Unicredit di vincere in Germania con la scalata alla Commerz.
E infatti la seconda ragione che offusca la vittoria del Governo su Unicredit è che il successo è stato conquistato calpestando senza pudore le regole del mercato e rispolverando le suggestioni dirigiste in campo bancario in auge un quarto di secolo fa ai tempi del Governatorato di Antonio Fazio in Banca d’Italia.
C’è da chiedersi – ed ecco il terzo motivo che non dovrebbe regalare sonni tranquilli a nessuno e nemmeno al Governo – cosa pensino gli investitori internazionali di fronte al fuoco di sbarramento del Mef e del suo Golden power su Unicredit fatto a pezzi dalla Ue e come possa un’operazione del genere attrarre capitali esteri nel nostro Paese.
Ma c’è una quarta ragione che solleva mille perplessità sulla politica bancaria del Governo e che suona paradossale – come notava ieri La Stampa – se solo si considera che il primo azionista del Banco Bpm è nel frattempo diventato il colosso francese del Crédit Agricole attorniato da altri investitori d’Oltralpe.
Giorgetti, con sommo disprezzo del ridicolo, era arrivato a sostenere che Unicredit è una banca straniera perché nel suo azionariato ci sono fondi e soggetti finanziari esteri pur avendo la testa – che è quel che conta – ben piantata in Piazza Gae Aulenti a Milano – ma non si è accorto che il Crédit Agricole ha chiesto alla Bce di superare la soglia del 20% in Banco Bpm pur assicurando che (per ora) non intende assumere il controllo della banca guidata da Giuseppe Castagna.
Il risiko bancario e i figli e figliastri del Governo
Non avendo vincoli Antitrust come Unicredit, il colosso francese, che non per caso guarda con interesse ad Anima appena conquistata dal Banco Bpm, può garantire che non verranno chiuse filiali nè licenziati dipendenti del Banco in zone leghiste, ma il paradosso resta e conferma la sgradevole impressione che il Governo ha dato in tutta questa partita: nel risiko non tutti i giocatori sono uguali. Ci sono figli e figliastri a seconda del grado di affinità ai voleri del Principe. Buona fortuna.