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Il 3 è un numero magico anche sui mercati: ecco perchè

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Da Pitagora in poi passando per la Trimurti induista (Brahma, Shiva e Vishnu) e la Trinità cristiana fino ad arrivare alle altezze sublimi toccate delle tre cantiche in terzine della Divina Commedia, questo numero ha sempre avuto un fascino particolare e rivestito un grande valore simbolico.

Il decennale americano al 3% era una sorta di soglia il cui raggiungimento ha innegabilmente avuto un impatto sia materiale che psicologico con cui spiegare almeno una parte del grande nervosismo che continua a caratterizzare i mercati.

Tornando però per un attimo a divagare e a giocare con il numero tre leggiamo da qualche parte su Internet che per gli Egizi il geroglifico del tre altro non era che il “due più uno”.

Questo ci fa venire in mente che a volte la “composizione” di un numero può esser rilevante: anche il 3% del Treasury di fatto è la somma di un “2+1” come il tre egizio, ovvero 2% di livello di breakeven, quindi di inflazione e 1% di tasso reale (a esser proprio precisi i numeri corretti sarebbero circa 2,20 e 0,80 ma l’analogia mi sembra possa giustificare una piccola licenza numerica).

E nel nostro 3% la composizione del mix è incredibilmente importante: tassi in salita rappresentano sempre un inasprimento delle condizioni di liquidità dei mercati.

Fin qui però il mix è stato benevolo con la componente inflazione che è andata ad inglobare i primi segnali di risveglio dei prezzi (friendly per  il mercato, almeno in una  prima fase e soprattutto per alcuni settori), mentre la risalita della componente reale (molto più indigesta) è stata più morbida.

I tassi in salita  hanno  comunque pesato sul mondo obbligazionario tradizionale e sugli Emergenti in particolare, dove una rinnovata forza del Dollaro contribuisce ad acuire le tensioni di un segmento che continua a soffrire anche di elementi idiosincratici (Argentina e Turchia su tutti).

Nel complesso però il mercato e la componente credito nello specifico hanno retto abbastanza bene a questo primo salto dimensionale lato tasso americano, anche al netto di un evidente aumento della volatilità su tutti i comparti. Il vero cambiamento  è da registrarsi nel sentiment che ha conosciuto un evidente shift in negativo, dove il “buy on dips” ha smesso di esser il leit motiv dominante.

Il mix “morbido” reale/nominale di tasso, una crescita che, seppur marginalmente meno brillante, rimane ancora tonica in quasi tutte le geografie e i fondamentali delle aziende ancora solidi riescono a mantenere il mercato del credito.

Complessivamente  rimaniamo dell’idea che questa fase laterale e “nervosa” suggerisca un atteggiamento strategicamente cauto pronto a sfruttare finestre tattiche di opportunità: mai come oggi ci sembra fondamentale affrontare il mercato con logiche completamente unconstrained, liberi da dogmi e schemi precostituiti.

Siamo chiaramente in una fase di transizione quasi epocale e guardare alla storia può fornire solo un aiuto parziale perché l’eccezionalità del percorso di questo ciclo rischia di far saltare dinamiche vissute nel recente passato in fasi del ciclo simili.

Magari è solo una sensazione, ma  in un passaggio del genere anche le banche centrali sembrano navigare  a vista, ritagliandosi ove possibile margini di manovra ampi come ha appena fatto la Fed introducendo il tema della simmetria sull’obiettivo di inflazione.

Dopo anni di sincronia, è altresì innegabile un sempre più evidente sfasamento temporale sulle dinamiche di Fed e Bce che si scarica su un differenziale di tasso decennale tra Usa e Germania volato a 240 punti base; effetto collaterale ma non trascurabile è l’esplosione del costo di copertura delle posizioni in dollari per investitori basati in euro.

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