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Giorgio Armani, un insuperabile creativo e un grande imprenditore con l’orgoglio di restare sempre padrone del suo gruppo

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È morto “padrone” del suo gruppo come aveva sempre voluto essere, mai cedendo alle tante offerte. Nel 1999, Bernard Arnault, patron di Lvmh, aveva iniziato una corte serrata. Giorgio Armani non l’aveva nascosto, anzi. L’aveva invitato con la moglie Helene, in prima fila alla sfilata, sapendo che i giornalisti avrebbero dedotto tutto. Poi aveva rifiutato l’offerta. Anni dopo, a chi gli chiedeva perché avesse portato avanti il “corteggiamento” disse: “Volevo solo vedere quanto davvero valevo!”. Giorgio Armani era così, un uomo con aspetti antichi che aveva fatto per le donne la seconda grande rivoluzione moderna del vestire, dopo quella di Coco Chanel tanti decenni prima. Armani confessò che in fondo gli sarebbe piaciuto mettere i soldi sotto il materasso, era orgoglioso dei suoi conti a posto, come un uomo d’altri tempi.

È stato un grande creativo e anche un grande imprenditore, ma non ha mai voluto andare oltre l’idea della sua azienda, del suo gruppo, della sua moda, sempre con il suo nome. Aveva molti designer di valore nei suoi vari team per i suoi vari marchi, ma era sempre lui a scegliere, a dire l’ultima parola, a firmare in modo incontestabile tutto quello che usciva dall’ufficio stile. Curava tutti i particolari, non era raro trovarlo al mattino presto a controllare le vetrine delle sue boutique. I giornalisti che lo hanno seguito in tanti viaggi non dimenticano quella volta che a Shangai, la sera prima dell’inaugurazione di un suo negozio, fece richiamare tutti al lavoro fino a notte per rifare i dettagli come diceva lui.

Chi ha lavorato da Armani a qualsiasi livello, racconta la sua autorevolezza, una autorità protettiva ma severa, senza deroghe e con pochissime deleghe ben circoscritte: chi si permise di insistere per la quotazione in borsa dovette lasciare l’incarico. Non voleva azionisti “perché – diceva – pretendono sempre crescita e crescita, io voglio andare avanti come dico io, senza pressioni e senza altri padroni in casa”. C’è chi lo ha rimproverato di non aver costruito – lui che avrebbe potuto – una public company italiana che potesse competere con i grandi gruppi francesi del lusso e consentisse ai risparmiatori italiani di investire i loro risparmi nella moda Armani. Ma lui era così, capiva tutto, in qualche modo è stato talvolta tentato di fare quel grande cambio di passo, ma poi ci ha sempre ripensato, consapevole che avrebbe dovuto rinunciare a molti ruoli che gli riempivano la vita: “Ma poi io cosa faccio, vado in vacanza quando i miei collaboratori stanno qui a lavorare?”.

Molti di coloro che lo conoscevano pensavano o si illudevano che sarebbe vissuto non dico in eterno, ma più a lungo di 91 anni, perché la sua presenza terrena era talmente familiare e radicata nella sensibilità mondiale che era un po’ come per la Regina Elisabetta II, nessuno più si aspettava la sua scomparsa. Non a caso veniva chiamato Re Giorgio! Ma tutti i collaboratori quando si riferivano a lui dicevano rispettosamente “il sig. Armani”. Nel mondo è stato uno dei personaggi più riconosciuti, a qualsiasi latitudine. Oltre vent’anni fa, al suo primo viaggio a Pechino, Armani visitò la Città Proibita: erano i primi tempi del turismo “locale”, con ordinate comitive venute dagli angoli più lontani della Cina. Non so come fecero a riconoscerlo in mezzo a un gruppetto di noi giornalisti, ma incominciarono a chiamarlo, Almani Almani, e gli misero perfino i bambini in braccio per fotografarlo.

Giorgio Armani era nato a Piacenza nel 1934, cinque anni dopo Sergio e cinque prima di Rosanna. Il padre impiegato amministrativo nella Federazione dei Fasci, la madre ricordata dal figlio per una innata eleganza che lo ha sempre ispirato. Il dopoguerra per la famiglia Armani fu difficile, il padre finì in galera per qualche mese, una “bomba a farfalla” scoppiò accanto al bambino Giorgio che subì terribili ustioni. Di quel periodo gli rimase impresso il ricordo di un infermiere gentile che all’improvviso aveva rifiutato di curarlo avendo scoperto che era figlio del fascista Armani. Ma la sua famiglia fascista non era, Giorgio ci ha sempre tenuto a dirlo e non era difficile credergli. Poi il trasferimento a Milano, il liceo scientifico, l’università con la scelta di Medicina, presto abbandonata davanti alla esperienza della lezione di anatomia. “Volevo fare il medico per curare i corpi, in fondo l’ho fatto ugualmente, ma in un altro modo” spiegava.

Lasciata l’università, la sua strada era incerta, per darle un ordine andò militare. Come sia poi arrivato alla moda è stato un percorso casuale, di predestinato c’era solo un suo gusto nel vestire classico ma originale. Grazie a un’amica fu assunto alla Rinascente dove rimase otto anni, all’inizio senza un compito definito e questo lo spingeva a inventarselo. Finì per essere il giovanotto che capiva le nuove tendenze, che andava a Londra a scoprire lo stile british insieme con quello dei “figli dei fiori”.

La svolta fu la conoscenza con Nino Cerruti, a capo dell’azienda tessile biellese di famiglia. L’elegantissimo Nino aveva deciso di produrre anche moda maschile, un concetto nuovo rispetto alla sartoria. Capì la sensibilità innovativa di Giorgio anche per i materiali e lo assunse, presentandolo a tutti come “il mio stilista” e usando così per la prima volta questo termine nella moda. Armani spingeva per sostituire anche per l’uomo i pesanti tessuti maschili con stoffe più malleabili, fino ad allora tipiche solo della moda femminile, e trovò in Cerruti un convinto alleato.

Alla fine degli anni Sessanta, una sera alla Capannina, il giovane Giorgio, che vi era andato con una donna – non ha mai nascosto di aver avuto amori femminili e maschili – conobbe Sergio Galeotti, un accattivante giovane toscano di Pietrasanta. I due non si sono più lasciati fino alla morte di Sergio nel 1985, il loro è stato più di un amore, un sodalizio fraterno totale. Sergio gli infuse l’entusiasmo e la fiducia che gli mancavano, lo convinse ad aprire uno studio di design e poi insieme il 24 luglio 1975 fondarono la Giorgio Armani Spa, con un capitale di dieci milioni di lire.

Armani aveva un gusto molto delineato e nuovo: aveva capito che anche la donna ormai aveva bisogno di essere vestita come persona da stimare, e lui stimava le donne. Sentiva il loro passo, la loro voglia di libertà, sentiva che avevano bisogno di essere eleganti senza rigidità, affascinanti nei toni discreti del beige e del “greige” tra grigio e beige. La giacca destrutturata che aveva sperimentato per l’uomo, quella che segue il corpo trasmettendo sicurezza e dolcezza, con spalle ampie ma morbide, diventò il sogno di una generazione di donne che aspirava a fare tante cose nella vita. Diventò l’abito del femminismo in carriera, un simbolo. E per la Giorgio Armani una cavalcata tra i successi. La prima sede in corso Venezia, poi in via Durini, sempre a Milano, la prima sfilata femminile, le modelle con il blazer Armani e i pantaloni morbidi, poi nel 1976 la passerella che acquistava ritmo con la furbizia della musica degli Inti Illimani! Per fare due cifre, nel 1976 i ricavi della società erano di 569 milioni di lire, nel 1985 di 291 miliardi.

Bisognava pensare alla produzione, problema incalzante: iniziò lo storico rapporto con il Gruppo Finanziario Tessile dei Rivetti, poi lo sbarco negli Usa, con una sfilata di grande successo. Ma la consacrazione americana arrivò nel 1982 su una copertina del Time con il titolo Giorgio’s Gorgeus Style. Era nato Giorgio il Magnifico della moda! Anche il cinema, passione di Armani sin da ragazzino, ha avuto il suo peso nella carriera: totalmente nuova e dissacrante la giacca Armani con cui Diane Keaton ritirò l’oscar nel 1978 per Io e Annie, indimenticabile il film American Gigolò del 1980, con gli abiti Armani di Richard Gere, sensualmente “scambiati” tra lui e Lauren Hutton. Sette anni dopo, per The Untouchables, inventò per il eroi di Chicago addirittura un immaginario stile Armani degli anni Trenta.

Ma nel frattempo era successo il peggio, con la malattia e la morte di Sergio Galeotti nell’agosto del 1985. Fu allora che molti pensarono (e qualcuno sperò) che Armani avrebbe chiuso la propria carriera. Sprofondato nel dolore, dopo un periodo che definì di apnea, decise di prendere in mano tutto, anche quello che non aveva mai pensato di saper fare, il capo azienda. Da allora lo ha sempre fatto con piglio forte, non ammettendo imperfezioni, superficialità, cadute di stile. Crescendo nel business, nelle iniziative, nella fama, nel numero di collezioni, di marchi, di negozi, di personaggi suoi adepti. Accanto a lui, a fasi alterne e con vari ruoli la sua famiglia, la sorella Rosanna e i tre nipoti, i collaboratori più stretti e soprattutto Leo dell’Orco, arrivato da Armani a 22 anni come modello e diventato poi il suo braccio destro.

Giorgio aveva la passione per le case, ne aveva tante, le aveva curate e arredate in bellissimi posti del mondo, ma riusciva ad andarci poco: non aveva tempo e in fondo la sua era soprattutto un hobby, e una mania per il “mattone”. Era impositivo e geloso (bisognava avere coraggio a lasciarlo per fare carriera altrove), nella sede della Giorgio Armani tutti timbravano il cartellino. Era un signore per molti versi tanto tradizionale, dunque, quello che vestiva tutti tanto modernamente. Le donne gliene sono sempre state grate e in tutti i passaggi della moda lo hanno sempre messo su un piedistallo. Lui ci stava comodo, convinto di averne diritto. Non sapeva l’inglese, non era mai riuscito a impararlo, e gli dava fastidio quando gli parlavano dando per scontato che dovesse saperlo. Era stato un suo cruccio fino a quando – raccontò – disse a se stesso “ma io sono Giorgio Armani, che siano gli altri a sforzarsi di farsi capire!”. Nella sua autoritaria timidezza aveva sempre questa adorabile consapevolezza.

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