X

Franco Bassanini alla Leopolda: Cambiare l’Europa? A che punto siamo e che cosa resta da fare

FIRSTonline

Pubblichiamo di seguito l’intervento alla Leopolda di Franco Bassanini, presidente di Astrid e consigliere del Presidente del Consiglio.

“Proprio all’inizio della sua avventura di governo, e anche in questa sede, Renzi disse: “proprio perché siamo europei e europeisti, vogliamo cambiare l’Europa”.  L’affermazione fu accolta da molti sorrisi scettici. Uno dei suoi predecessori a Palazzo Chigi mi disse: “è un novellino, presto capirà che è una mission impossible!”.

E’ passato un anno e mezzo. E’ cambiata l’Europa? Direi di no, e del resto nessuno potrebbe pensare che potesse succedere in così breve tempo. Ma qualche segnale positivo si vede.

Intanto: sempre più sono quelli che hanno capito che, se non si cambia l’Unione europea, l’Europa rischia di venire travolta dal populismo. Le elezioni francesi insegnano.  (A proposito e tra parentesi: ho molti amici francesi, tra imprenditori, banchieri, politici; e sempre più spesso, negli ultimi tempi, mi hanno detto: “sai Franco quale è il nostro problema? che né la destra, né la sinistra hanno ancora trovato un Matteo Renzi”; non so se è vero, ma confesso che, come italiano, mi sono sentito orgoglioso…).

Ma anche in concreto, alcuni mutamenti, ancora un anno fa quasi impensabili,  comincia a emergere. Ne cito rapidamente alcuni:

– Flessibilità di bilancio. Le clausole di flessibilità stanno nel Fiscal Compact, ma la maggioranza dei Governi, Germania in testa, ne escludevano fermamente l’ applicazione.  Simona Bonafé ricorderà che la questione fu al centro, al Parlamento europeo, di una conferenza organizzata dalla Presidenza italiana giusto un anno fa. Nella mia relazione, paragonai le istituzioni europee a un giudice che, nel giudicare un caso di omicidio, si rifiuta di considerare se ricorrano i presupposti della legittima difesa. Come nel codice penale c’è la pena per l’omicidio, ma anche l’esimente della legittima difesa, così nel Fiscal Compact ci sono le clausole di flessibilità, dissi allora, e vanno applicate. Invano. Ma oggi, le clausole sono valgono, per noi come per gli altri paesi europei: riforme, investimenti, migranti. Si discute quanto valgano. Per noi 10 o 15 miliardi? Sono tanti, sono pochi? Sono comunque miliardi, non bruscolini.

– Golden Rule per gli investimenti.  Proporla sembrava una bestemmia alle orecchie dei tedeschi e dei nordici. Oggi ne abbiamo i primi esempi: non sono conteggiati ai fini del fiscal compact i contributi finanziari degli Stati al Fondo strategico del Piano Juncker, e anche, cosa ben più importante, quelli che gli Stati metteranno nelle piattaforme tematiche o regionali del Piano, per esempio nella piattaforma per il credito e le garanzie alle PMI italiane, e in quella per il finanziamento delle infrastrutture italiane. E poi c’è, appunto, la clausola investimenti. Ce n’est qu’un début? Sì, ma si è rotto un tabu.

– Migranti e rifugiati. Renzi era quasi solo, un anno fa, nel sostenere che era questione europea, non italiana. Oggi, Angela Merkel, è sulle stesse posizioni (e lo fa rischiando la sua popolarità e perfino il suo posto); e si diffonde in Europa la convinzione che la gestione delle frontiere esterne dell’Unione, così come quella dell’accoglienza, dell’identificazione, del riconoscimento e dell’eventuale respingimento di migranti e rifugiati dovrebbero essere compito e responsabilità comune delle istituzioni europee, non dei soli Paesi di frontiera.

– Crescita e occupazione.  Per anni, ma ancora un anno fa, growth and jobs erano a Bruxelles oggetto di grandi dichiarazioni di principio e di raccomandazioni ai governi nazionali, ma nulla più; mentre per la stabilità ( e dunque per la riduzione di deficit di bilancio e debito pubblico) si prevedevano obiettivi vincolanti, sanzioni e controlli. Qualche giorno fa, il Consiglio ha approvato il Piano d’azione per la Capital Market Union che, non solo eleva la “crescita e l’occupazione a priorità assolute per l’Unione”, ma vara un gran numero di interventi e misure per il finanziamento dell’innovazione, della ricerca, del venture capital, delle infrastrutture, degli investimenti delle imprese. Saranno attuati effettivamente e rapidamente ? Speriamo.

Altro potrei ricordare. Ma mi fermo qui. Non senza sottolineare che si tratta di cambiamenti innescati tutti dalle iniziative del Governo italiano.  Ma queste iniziative  hanno avuto successo per una sola ragione: l’avvenuto  recupero di credibilità internazionale e di autorevolezza del nostro Paese e del suo governo: il risultato più importante ottenuto sul versante europeo da Renzi (e da Piercarlo Padoan); ottenuto grazie alle riforme strutturali realizzate e  alla decisione di continuare sulla strada delle riforme. L’ho sperimentato nella mia veste di presidente del Long-Term Investors Club, una sorta di federazione  delle grandi banchi di sviluppo dei Paesi del G-20 (parlo di istituzioni che insieme hanno attivi, cioè investimenti e finanziamenti, per 5 trilioni di dollari!).  L’ho visto nel mio ultimo anno di presidenza della Cassa depositi e prestiti, nel quale ho concluso accordi di coinvestimento in Italia per oltre 6 miliardi di euro (investiti da banche straniere in imprese e infrastrutture italiane), mentre in tutti gli anni precedenti non ne avevo firmato neanche per la metà. Lo vedo nelle continue richieste di fondi internazionali di avere consigli e indicazioni per investire in Italia.

Per cambiare l’Europa occorre però molto di più. Non siamo che all’inizio. Ma ora Renzi e il nostro governo sono in grado di fare di più, ovviamente stringendo le opportune alleanze. Perfino con Cameron, nella cui lettera alle istituzioni europee non mancano punti condivisibili (in ispecie nelle tre pagine iniziali).

Con Sandro Gozi è già stato definito un programma ambizioso. Permettetemi però, per concludere, di aggiungere o sottolineare alcuni cambiamenti strutturali, difficili, ma decisivi, su cui spero che Matteo voglia impegnarsi.

1. La revisione del Patto di stabilità. Non si tratta di cancellarlo o di indebolirlo, né di ridurre l’impegno per la fiscal consolidation. Quella che non va è la sua asfittica logica annuale: fissare obiettivi vincolanti anno per anno. Va bene per le spese correnti, non per gli investimenti pubblici, i cui effetti positivi (come per le riforme di struttura) si misurano negli anni.  Quale impresa privata che abbia bisogno di grandi investimenti per crescere e competere (come ne hanno bisogno tutti gli Stati europei), potendo prendere a prestito finanza sui mercati a un tasso fisso di poco più dell’1% per 10 anni, non lo farebbe e rinuncerebbe invece a investire?  E’ sacrosanto porci l’obiettivo di non far gravare sulle future generazioni il peso di un insopportabile debito pubblico, ma non è anche peggio scaricare su di loro il peso di infrastrutture fatiscenti e obsolete, di un’economia declinante o stagnante, di una devastante disoccupazione giovanile?

2. Il completamento del Mercato unico: all’origine della costruzione europea c’era l’idea che in un grande mercato la concorrenza fra tutte le imprese europee avrebbe prodotto innovazione, efficienza, competitività e crescita (e, marginalmente, “distruzione creatrice”). Perciò occorreva “livellare il terreno di gioco”, mettere tutti in condizioni di competere alla pari. Ma il terreno di gioco è oggi tutto fuor che livellato, visto che un’impresa italiana che compete sui mercati interazionali ha pagato in media, in questi anni, costi ben superiori dei suoi competitori per es. tedeschi: per l’energia (35%), per il credito (200 basis point), per la logistica, per gli oneri burocratici e previdenziali, ecc. La Capital Market Union è una prima risposta, ma occorre anche l’Energy Union, la Digital Union e quant’altro.

3. All’origine bisogna tornare anche nella applicazione del divieto di aiuti di Stato. Quel divieto doveva servire ad evitare che, una volta livellato il terreno di gioco, uno Stato lo dislivellasse  di nuovo, creando condizioni di favore per le sue imprese: niente di meno, ma niente di più. Oggi rischia di diventare, nelle interpretazioni della DG Competition, un ostacolo a qualsiasi politica industriale; e perfino agli interventi nazionali virtuosi, intesi a ridurre gli svantaggi competitivi non ad aumentarli.

4. Da ultimo, ma non per ultimo. L’economia europea subisce il peso di una serie di regole internazionali ed europee, che, in nome della stabilità finanziaria, penalizzano il finanziamento degli investimenti delle imprese, della ricerca, dell’innovazione, delle infrastrutture. Nuove regole, altrettanto penalizzanti per l’economia reale, stanno arrivando, da Basilea ma non solo. Chi le produce finge di ignorare che tra stabilità finanziaria e crescita il rapporto è bidirezionale (non c’è stabilità finanziaria se si prolunga un ciclo di recessione o stagnazione); e finge di ignorare che queste regole hanno effetti asimmetrici: penalizzano molto di più l’Europa (perché è più bancocentrica e perché è solita applicare le regole più disciplinatamente) che non gli USA, la Cina o l’India. Le regole sono dunque, diciamolo con chiarezza, le armi delle guerre del XXI secolo, che sono sempre più (anche) guerre finanziarie. Occorre rivedere queste regole, armonizzare le esigenze del finanziamento dell’economia reale e quelle della stabilità finanziaria: esigenze che sono, a ben vedere, convergenti, non conflittuali.

E occorre che i decisori politici, a Bruxelles e al G20, si riapproprino del ruolo decisionale della politica. Le scelte politiche non spettano al Comitato di Basilea, allo IASB, all’EIOPA, alle tecnocrazie di Bruxelles, alle agenzie di rating. Spettano ai governi , democraticamente eletti e responsabili, e alle istituzioni politiche internazionali. Forte della sua recuperata credibilità e autorevolezza, l’Italia di Renzi, con gli alleati giusti, deve fare – io penso – anche questa battaglia. Sarà dura e lunga . Ma può vincerla”.

Related Post
Categories: Interviste