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Decarbonizzazione a costo zero: il caso del combustibile da rifiuti

FIRSTonline

Per raggiungere gli obiettivi stabiliti nell’Accordo di Parigi del 2015 sulle emissioni di gas serra, l’apporto delle fonti rinnovabili non è sufficiente. Come spiega un recente rapporto della Fondazione Ellen MacArthur, l’energia green potrà – al massimo – contribuire al 55% della riduzione di inquinanti entro il 2050, ma non oltre. È necessario trovare soluzioni alternative, in grado di dare il loro supporto alla lotta al cambiamento climatico. Tra le opzioni a disposizione ve ne è una che coinvolge qualcosa che la nostra società produce e possiede in abbondanza e di cui si deve costantemente occupare: i rifiuti.

L’adozione di modalità di trattamento che, allo smaltimento in discarica, preferiscono il riciclaggio realizzato con sistemi tecnologicamente avanzati danno ottimi risultati in termini di minore inquinamento del Pianeta. Secondo l’Unione Europea, se si seguisse questa strada, la sola Italia eviterebbe di immettere qualcosa come 111 milioni di tonnellate di gas serra in atmosfera. Una “lezione” che da privati cittadini abbiamo appreso con l’obbligo della raccolta differenziata a livello domestico. Tuttavia, il riutilizzo di materiali attraverso il riciclaggio (dal vetro si avrà altro vetro o dall’alluminio altro alluminio e così via) non è l’unica scelta a disposizione per ricavare benefici ambientali da quello che non serve più.

Ve n’è un’altra dalla grande potenzialità: trasformare ciò che viene scartato in una nuova fonte energetica meno inquinante da utilizzare al posto di quelle fossili (carbone, petrolio o gas). Se solo si adoperasse questo “carburante” più pulito per alimentare le attività produttive e soprattutto industriali, oggi responsabili di una quota pari al 21% dell’emissioni globali, risparmieremmo tonnellate di CO2 e molti milioni di euro. Come spesso accade, vi sono notizie buone e cattive. La buona notizia è che non ci si trova di fronte a uno scenario “da laboratorio”, con test e sperimentazioni ancora in corso; infatti il “carburante” proveniente dal trattamento dei rifiuti già esiste, è pronto all’uso e si chiama CSS, acronimo di Combustibile Solido Secondario.

Al pari della più nota digestione dei rifiuti organici e dei fanghi (aerobica e/o anaerobica), il CSS è un altro sistema per recuperare energia termica ed elettrica; questo combustibile a basso contenuto di carbonio è composto dalla frazione secca e dal bioessiccato derivanti dal trattamento meccanico biologico dei rifiuti urbani oppure dalla combustione di frazioni secco/umido variamente combinate. Veniamo alla cattiva: ad oggi, il CSS è scarsamente utilizzato, poco compreso e spesso osteggiato. Il principale settore di impiego è quello dell’industria cementiera. I dati non lasciano dubbi: se il settore utilizzasse al posto delle fonti fossili il CSS, vi sarebbero 700 milioni di euro di risparmio e 10 milioni di tonnellate di CO2 evitate ogni anno.

Eppure, vi è una serie di fattori che ostacola la piena adozione di questa soluzione. Vediamone alcuni.

  • Un elemento non trascurabile chiama in causa il quadro normativo al contempo poco chiaro e complicato. In questo senso, per esempio, pesa il fatto che siano riconosciuti due tipi di CSS: uno che viene definito rifiuto (disciplinato dall’art. 183 comma 1, lettera cc) del D.Lgs. 152/06) e un altro che, invece, è considerato non-rifiuto (ovvero il CSS Combustibile normato dall’art.184 ter del D.Lgs. 152/06 meglio noto come TUA). Benché uno e l’altro svolgano la stessa funzione di combustibile, quindi di recupero energetico da frazioni di scarti, il primo rimane a tutti gli effetti un rifiuto speciale, mentre il secondo ha perso tale qualifica meritandosi lo status di vero e proprio combustibile/prodotto. Un’ambiguità lessicale che contribuisce a creare confusione sulle modalità di utilizzo, al di là delle leggi e norme che regolano il CSS e la sua produzione (come il Decreto ministeriale n.22/2013).
  • Un altro fattore di freno è la procedura che porta all’ottenimento di CSS utilizzabile come combustibile e che riguarda i trattamenti necessari su rifiuti in uscita da TMB, quel processo che consente il recupero di materiali dai rifiuti indifferenziati. Infatti, solo il 13,8% dei rifiuti urbani in uscita dagli impianti di TMB (pari a 1,3 milioni di tonnellate) è inviato a ulteriori trattamenti quali la raffinazione per la produzione di CSS o la biostabilizzazione (dati 2017). Inoltre, solo una parte degli impianti TMB in funzione ha le autorizzazioni e la tecnologia adeguate a produrre CSS (sia come rifiuto che come prodotto). Ciò significa che, nel 2017, dei 130 impianti operativi censiti sul territorio nazionale, appena il 30% produceva genericamente CSS.
  • Pesano anche iter burocratico-autorizzativi complessi, lunghi e costosi che fanno desistere anche i potenziali utilizzatori. Uno fra questi riguarda la procedura per il rinnovo e la revisione dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) e quella – aggiuntiva – per l’ottenimento della 3 Valutazione Impatto Ambientale (VIA). Quest’ultimo è un requisito particolarmente difficile da ottenere, ragione sufficiente perché molti gestori di cementifici desistano dal proposito di utilizzare CSS.
  • Altro ostacolo a una reale diffusione del CSS è rappresentato dal mancato incontro tra domanda e offerta. Chi produce CSS ha un flusso in entrata costante e l’esigenza di trovare collocazione in tempi rapidi. Tutto questo si scontra con le fluttuazioni del ciclo economico a cui è esposto il lato della domanda (cementifici). A ciò, si sommano le congiunture internazionali. Complessivamente, pertanto, sono davvero esigui i margini economici per produrre CSS Combustibile.
  • Per finire, non manca l’opposizione dell’opinione pubblica che, spesso confusa da una normativa eccessivamente complicata, si è detta contraria all’utilizzo di CSS, considerandolo nocivo per la salute. Un’opposizione che in alcuni casi ha convinto persino gli Enti pubblici che, strumentalizzati o timorosi di perdere consenso, si sono piegati alle posizioni dei comitati del “NO”. Questa breve panoramica lascia l’amarezza che si prova davanti ad un progetto che ha tutte le caratteristiche per funzionare e che, invece, per ragioni totalmente esterne non riesce a decollare. Il DM n.22/2013 che ne ha regolamentato l’utilizzo, a più di cinque anni dalla sua entrata in vigore, è diventato l’esempio di quanta fatica faccia l’economia circolare a trovare spazio in un Sistema Paese ingessato da logiche e modelli improntati sull’economia lineare, con molti pregiudizi ed errate convinzioni in tema di rifiuti ed energia.

Il CSS, soprattutto nella sua variante end of waste (EoW) di combustibile di alta qualità, avrebbe dovuto dare risposte concrete sia in termini di chiusura del ciclo integrato dei rifiuti che di sostituzione di combustibili fossili con altri alternativi. Non solo. Avrebbe potuto contribuire a ridurre la dipendenza energetica del nostro Paese dall’estero, producendo energia a costi ridotti e a basso contenuto di carbonio da impiegare poi in sostituzione di fonti fossili. . I non risultati attuali non devono portare all’abbandono di questa soluzione, quanto piuttosto ad un suo rilancio su basi differenti.

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Categories: Economia e Imprese