Nel 2025 la Svizzera ha fatto il pieno di export verso gli Stati Uniti, trainato in gran parte da quasi 500 tonnellate d’oro spedite nei primi cinque mesi dell’anno, per un valore complessivo di 38 miliardi di franchi svizzeri. Questo flusso commerciale ha generato un surplus superiore a 40 miliardi di dollari, spingendo Washington a reagire con dazi del 39% su tutte le merci svizzere, oro incluso. La misura colpisce in particolare i lingotti da 1 chilo e 100 once, andando a intaccare uno dei settori più strategici e simbolici dell’economia elvetica. L’effetto immediato è stato un’impennata dei prezzi dell’oro sui mercati internazionali. Ma andiamo con ordine.
Dazi: il gelo Usa frena l’oro svizzero
La nuova tariffa – ben più pesante del 31% precedentemente imposto alla Svizzera e al 15% applicato alle merci europee – punta a ridurre il massiccio disavanzo commerciale tra Stati Uniti e Svizzera. Tuttavia, Berna contesta i calcoli americani, sottolineando che i dati non tengono conto di servizi come software e licenze, che ridurrebbero notevolmente lo squilibrio commerciale reale.
Nel tentativo di contenere la crisi, il governo svizzero ha inviato a Washington una delegazione diplomatica guidata dal presidente e dal ministro dell’Economia. Ma l’amministrazione americana non ha mostrato alcuna apertura al dialogo. Intanto, nel silenzio delle diplomazie, si sono mosse le raffinerie: alcune hanno sospeso temporaneamente le spedizioni di oro verso gli Stati Uniti, in attesa di chiarimenti.
La reazione dei mercati: oro a livelli record
Dopo la diffusione della notizia, il future con scadenza dicembre – il contratto più scambiato al Comex di New York – ha toccato un nuovo massimo storico a 3.534,10 dollari per oncia troy, per poi stabilizzarsi intorno ai 3.431 dollari (+0,9%). Anche il prezzo spot dell’oro è salito sopra i 3.395 dollari, con un guadagno del 27% da inizio anno.
Ma il rialzo non è frutto solo della tensione commerciale tra Stati Uniti e Svizzera. Da mesi, l’oro beneficia di un contesto favorevole: l’inflazione resta più alta del previsto, i debiti pubblici crescono sia in Europa che negli Usa, e il dollaro – pur restando la valuta di riferimento globale – mostra segni di indebolimento strutturale. Già all’inizio del 2025, molti operatori avevano accelerato le importazioni verso gli Stati Uniti per anticipare i dazi, creando un’anomalia: magazzini pieni a New York e carenza di lingotti a Londra.
A rafforzare ulteriormente la domanda d’oro c’è anche il ruolo crescente delle banche centrali. Secondo l’ultimo report del World Gold Council, il 95% degli istituti centrali prevede un aumento delle riserve auree globali nei prossimi 12 mesi, senza intenzione di vendere. Nel solo primo trimestre del 2025, sono state accumulate oltre 240 tonnellate, il volume più alto degli ultimi decenni.
Il nuovo dazio di Trump: 39% anche sull’oro svizzero
Lo scorso 31 luglio, l’Agenzia americana delle Dogane e della Protezione delle Frontiere (Cbp) ha emesso una “ruling letter”, una circolare che chiarisce la classificazione doganale di alcune merci. Secondo il documento, visionato in esclusiva dal Financial Times, i lingotti da 1 kg e da 100 once (circa 3,1 kg) devono rientrare nella categoria doganale 7108.13.5500, soggetta a dazio. Finora si pensava invece che questi prodotti rientrassero nella categoria 7108.12.10, esente dalle tariffe introdotte già nel 2018 da Trump.
Questa decisione ha colto di sorpresa l’intero comparto aurifero. “Si pensava che i metalli preziosi rifusi dalle raffinerie svizzere ed esportati negli Usa sarebbero stati esenti dai dazi,” ha dichiarato al FT Christoph Wild, presidente dell’Associazione svizzera dei produttori e commercianti di metalli preziosi. In realtà, spiega Wild, la normativa doganale si è rivelata tutt’altro che chiara: alcune raffinerie avevano già assunto legali per interpretarla e oggi si trovano costrette a sospendere o rallentare le spedizioni verso gli Stati Uniti.
La conseguenza? Dal 7 agosto 2025, i lingotti svizzeri ricadono ufficialmente sotto il dazio del 39%. E l’impatto è tutt’altro che marginale: la Svizzera è il più grande centro mondiale di raffinazione dell’oro. Solo nell’ultimo anno, ha esportato verso gli Usa oro per un valore di 61,5 miliardi di dollari. Con l’applicazione del dazio, circa 24 miliardi andranno persi in tariffe doganali.
Dazi Usa: perché proprio i lingotti da un chilo?
Il formato non è casuale: i lingotti da 1 kg sono anche lo standard di scambio sul mercato dei future del Comex (Commodity Exchange) di New York. In Europa, specialmente a Londra, il formato più usato è quello da 400 once troy (oltre 12 kg, simile a un mattone). Negli Usa, invece, il formato da un chilo – grande quanto uno smartphone – è preferito per ragioni pratiche, logistiche e finanziarie. Di conseguenza, l’oro grezzo o i lingotti più grandi vengono inviati a raffinerie svizzere – come Valcambi, Metalor, PAMP e Argor-Heraeus, responsabili di circa il 70% dell’oro raffinato nel mondo – per essere trasformati in questo formato prima della spedizione negli Stati Uniti.
Il flusso globale prevede dunque: oro da Londra, rifusione in Svizzera, spedizione a New York. Interrompere questa catena provoca distorsioni logistiche, rallentamenti e un aumento dei costi per l’intero mercato.
La Svizzera può aggirare i dazi Usa sull’oro?
Il dazio del 39% imposto dagli Stati Uniti sull’oro raffinato in Svizzera si basa sull’origine doganale del prodotto, che non cambia semplicemente passando per Londra come tappa intermedia. Infatti, secondo le regole doganali internazionali e le normative Usa, ciò che conta è il paese in cui avviene la trasformazione sostanziale della merce: in questo caso, la raffinazione e il cambio di formato dell’oro in Svizzera. Anche se i lingotti venissero spediti successivamente a Londra, agli occhi delle autorità americane l’origine rimarrebbe svizzera, rendendo quindi inapplicabile la tariffa ridotta del 10% prevista per merci britanniche. Inoltre, simulare una triangolazione fittizia per modificare formalmente la documentazione senza un reale cambiamento produttivo può essere considerato evasione doganale, esponendo le aziende a pesanti sanzioni. Per evitare il dazio del 39%, la Svizzera dovrebbe quindi spostare l’intero processo di raffinazione fuori dal proprio territorio, un’opzione poco conveniente, vista l’importanza strategica e industriale del settore nel paese.
Le prospettive: crisi passeggera o terremoto duraturo?
Gli analisti si dividono. Alcuni sostengono che il dazio, per quanto pesante, potrebbe spingere la Svizzera a trovare rotte alternative o a riconvertire parte della produzione. Altri temono invece un rallentamento più ampio nel commercio dell’oro e una frammentazione del mercato tra aree “amiche” e “nemiche” degli Stati Uniti.
Nel frattempo, la domanda globale di oro resta altissima. Investitori istituzionali, banche centrali e privati cercano sicurezza, e l’oro – nonostante le turbolenze – resta uno dei pochi asset veramente universali.