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Da Allegri a Mourinho, la rivoluzione delle panchine nelle pagelle di Beccantini

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Il mercato delle panchine. In attesa che comincino a muoversi anche i calciatori, sono gli allenatori i grandi protagonisti di questo inizio d’estate. Mai infatti si era registrato un simile movimento tra guide tecniche, per giunta in un lasso di tempo tanto ristretto e il bello è che il valzer non è ancora finito. in Italia ma non solo come dimostra il ritorno di Carlo Ancelotti sulla panchina del Real Madrid. Il tema, in attesa che gli ultimi tasselli completino il domino, merita di essere approfondito con un personaggio autorevole come Roberto Beccantini, maestro del giornalismo sportivo che, in oltre 50 anni di carriera (nei quali, tra le tante cose, è stato giurato italiano per il Pallone d’Oro), ne ha viste davvero di tutti i colori, ma mai un simile vortice di panchine.

Dica la verità: una rivoluzione di questo tipo non se l’aspettava...

«No, almeno in termini così radicali. Gli allenatori sono importanti, ma non tanto e quanto si millanta. Soprattutto in Italia. Una volta si accendevano candele ai numeri dieci. Oggi, in tempi di pandemia, le si dedicano ai tecnici. Cambia il destinatario, non il messaggio: il bisogno assoluto di un deus ex machina che, all’occorrenza, possa farci da capro, e da “capo”, espiatorio».  

Un po’ però gli allenatori contano: basta guardare com’è cambiato il Chelsea passando da Lampard a Tuchel…

«Per carità. Contano. Occhio, però: evviva Tuchel, anche se Lampard proprio macerie non aveva lasciato; ma allora cosa dire di Pochettino – parlo di un mister venerato dai pulpiti più sofisticati – che arriva a Parigi e “riesce” a non vincere il campionato? E vogliamo parlare di Guardiola? Senza Messi, Allegri – sì, il vituperato, risultatista Max – lo batte due finali di Champions a una. Per tacere di Conte, e di quello che gli scrivemmo e di quello che gli dissero – gli interisti, mica i rivali – dopo il fiasco europeo di dicembre. Fatte salve le gerarchie, suggerirei un po’ più di equilibrio».  

Ecco, partiamo proprio dall’Inter, che passa dal “vincitore seriale” Conte a Simone Inzaghi. Cosa si aspetta?

«La strada è tracciata. Simone, fra parentesi, pratica il 3-5-2 sul quale Antonio, appunto, aveva rifondato il castello. Trovo suggestivo, e plausibile, affiancare le due staffette, Conte-Allegri e Conte-Inzaghi. La differenza è la società. La Juventus della Exor era solida, l’Inter di Suning è in bolletta. E allora: il mio Piave coinvolge sei giocatori, Lukaku, Lau-Toro Martinez, Brozovic, Barella, De Vrij e Bastoni. Tutti gli altri trattabili. A queste condizioni, in attesa di pesare un campionato che si annuncia molto “orizzontale”, molto democratico, senza una tiranna  in grado di schiavizzarlo, la rosa dell’Inter rimarrebbe competitiva. Fermo restando Hakimi: se ne andrà, piccola consolazione, per esigenze di bilancio, e non per miopia manageriale come Roberto Carlos».

La Juventus invece, dopo la scommessa Pirlo, torna a puntare sull’usato sicuro Allegri.

«Allegri è un grande insegnante di un certo calcio. Di un calcio che in Italia ha sempre pagato, e in Europa meno: anche se due finali di Champions, perse contro una squadra di marziani (il Barcellona di Messi, Iniesta, Xavi, Neymar) e la squadra di un marziano (il Real di Cristiano), non sono da buttare nel fiume. Il suo ritorno significa una cocente sconfitta dell’Idea. Non appena la Juventus prova a uscire dalla sua anima, si becca delle grandi bacchettate sui denti. Scudetti e coppe a parte. Il 4-2-4 di Amaral, il “movimiento” di Heriberto, il calcio champagne di Maifredi, il Sarrismo, il guardiolismo liquido di Pirlo. Ci vuole pazienza, se e quando decidi di stravolgere addirittura la “tua” storia, e non semplicemente la cronaca». 

Milan e Atalanta sono le uniche, delle prime dieci in classifica, a non cambiare nulla: questo può essere un vantaggio?

«Credo proprio di sì. In attesa di misurare gli organici che Pioli e Gasperini si ritroveranno».

Il Napoli ha scelto Spalletti: come vede questo “matrimonio” con De Laurentiis?

«Come avrei confermato prima Sarri e poi Pirlo, così mi sarei tenuto Gattuso. Detto questo, Luciano Spalletti è un buon allenatore che, Handanovic dixit, ha preparato la “pappa” a Conte. Dicono che abbia un brutto carattere. E allora: meglio averne uno brutto che non averlo proprio. Napoli è piazza complicata, molto esigente, molto salice piangente. L’organico non è male, ma nemmeno Spalletti cammina sulle acque: occhio. Urge un De Laurentiis che non faccia ammuina».

C’è grande curiosità poi su Mourinho alla Roma: l’Italia ritroverà lo Special One o la versione più sbiadita (e decisamente poco efficace) del Tottenham?

«La serie A è meno competitiva della Premier: molto meno. Mou è un mister bi-fronte: allena l’azienda, cura la stampa. Nel suo genere, se escludiamo il timbro estetico, il migliore per distacco. Gli italiani hanno bisogno di personaggi ai quali consegnarsi come ci si fida di mamma e papà. José cade a fagiolo. Trova Zaniolo, trova una Roma che Fonseca lasciò al settimo posto. Difficile fare peggio. Arrivasse “solo” in zona Champions, sarebbe già un trionfo».

Tra pochi giorni sarà tempo di Europei, dunque non possiamo che chiudere l’Intervista parlando del ct Mancini e della sua Italia…

«Sono sincero: il Mancini allenatore di club non mi ha mai entusiasmato. Il Mancini ct, sì: spesso. E’ una Nazionale senza totem, crede in quello che fa perché si diverte a farlo e perché crede ciecamente in colui che gliel’ha ordinato. I problemi sono due: i troppi materassi affrontati e sgominati, dettaglio che  potrebbe gonfiare l’ego del gruppo; la pressione crescente. Favorita, la Francia. Poi Belgio, Spagna, Germania, Italia, Inghilterra e Portogallo, tutti più o meno sullo stesso piano. Sono molto curioso e moderatamente fiducioso».

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