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Collezione Marino e Paola Golinelli all’Opificio di Bologna

Africa Vibes: a Opificio Golinelli un percorso tra le opere africane della Collezione di Marino e Paola Golinelli

Sono esposte opere di Joël Andrianomearisoa (Antananarivo, Madagascar, 1977), Abdoulaye Konaté  (Diré, Mali 1953), Gonçalo Mabunda (Maputo, Mozambico, 1975), Cameron Platter (Johannesburg, Sudafrica,1978), Pascale Marthine Tayou, (Yaoundé, Camerun, 1967), Ouattara Watts, (Abidjan, Costa d’Avorio, 1957), realizzate tutte nell’ultimo decennio, in un percorso coerente con l’approccio multidisciplinare e didattico all’arte che la Fondazione Golinelli propone attraverso le attività dell’area progettuale Arte, Scienza e Conoscenza, soprattutto attraverso le grandi mostre realizzate annualmente dal 2010.

Le 11 opere presenti a Opificio Golinelli sono state scelte tra i circa 600 lavori della Collezione Golinelli. Diverse tra loro nei linguaggi usati e nell’espressione di poetiche individuali, sono però accostate dall’uso comune di tecniche fortemente improntate dalla manualità di stampo artigianale, dal recupero e dalla trasformazione di materiali trovati,  dal porsi a metà strada tra cultura di origine ed esperienza occidentale.  Caratteri che saranno approfonditi nelle attività didattiche e di laboratorio proposte dai tutor della Fondazione Golinelli, lavorando su temi, come il riuso, che non sono solo politicamente e antropologicamente corretti ma che costituiscono oggi una delle forme più sofisticate e attuali della ricerca espressiva non solo nell’arte ma anche nel design, nell’architettura, persino nel cinema.

 

Pascale Marthine Tayou
Fashion Street,  2010
Cristallo e materiali vari
cm 152 h x 90 x 90
Collezione Marino e Paola Golinelli, Bologna

 

Jean Apollinaire Tayou è nato a Yaoundé, in Camerun nel 1967. A metà degli anni Novanta, cambia nome, lo declina al femminile diventando così Pascale Marthine Tayou. Il lavoro di Tayou si presenta strettamente legato all’idea di viaggio e d’incontro con l’altro da sé. Quella del viaggiatore per Pascale Tayou non è solo una condizione di vita, ma una condizione psicologica , approfondendo temi contemporanei come quelli dell’identità, dell’appropriazione culturale, della permeabilità dei confini in rapporto alle migrazioni umane. Tayou ha fatto della sua condizione di immigrato l’espressione di tutta una generazione di uomini e di artisti: quelli che si pongono “a metà strada” tra la cultura di origine e l’esperienza occidentale; africani nello spirito ma al tempo stesso nuovi cittadini europei; spaesati e post-coloniali. Nelle colorate sculture di forma umana di Fashion Street, Tayou combina vetro, spugne, lana, plastica, cuoio, perline e conchiglie marine e altro materiale riciclato in un’opera che è fortemente correlata al suo specifico retroterra culturale. Gli “abiti” indossati dalle figure sono ispirati dal forme tribali africane, combinate con oggetti che vengono dalla società consumistica europea. Le figure stesse sono costruite con vetro prodotto a pochi chilometri da Firenze.

Gli artisti…
 
Nato ad Abidjan (Costa d’Avorio) nel 1957, Ouattara Watts ha studiato in una scuola religiosa, e ha ricevuto una precoce iniziazione ai rituali sciamanici, pur vivendo in una grande città ed essendo perciò esposto anche alla cultura urbana. Una condizione a cavallo tra modernità e tradizione che si rifletterà nei suoi lavori. Negli 1977 si trasferisce a Parigi per studiare all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Nella capitale francese, alla fine degli anni Ottanta, incontra Jean Michel Basquiat, di cui diventa amico, che lo convincerà a spostarsi a New York, dove ancora oggi risiede. Autore di una pittura vibrante di colori, materia e segni ipnotici, Watts esplora l’identità multiculturale e il senso di spiritualità nella società contemporanea.  Nel tempo ha sviluppato un ricco codice espressivo, un alfabeto di forme, numeri, lettere, simboli scientifici e religiosi, che usa, fondendolo con l’uso di oggetti trovati e riciclati, fotografia e altri media, per comunicare la sua visione dinamica e poetica della società e della storia e il suo personale approccio alla metafisica.  Le sue opere evocano l’Africa ancestrale ma anche le influenze di artisti come Picasso o Cy Twombly, rimanendo come sospese tra due mondi, a creare tra di essi un ponte. “La mia visione non è basata sull’appartenenza a un paese o a un continente – dice l’artista- ma va oltre la geografia, oltre ciò che si può vedere su una mappa. Anche se alcuni miei elementi pittorici possono esser riferiti a una cultura specifica, e così esser meglio compresi, il mio lavoro riguarda qualcosa di molto più ampio, riguarda il Cosmo”. Le Fleurs du Mal I cita la famosa raccolta di poesie di Baudelaire -che affronta temi metafisici, teologici ed esotici- e accosta l’uso di un prezioso tessuto orientale, immagini di figure demoniache, linee di numeri che simboleggiano le rotte degli schiavi e forme biomorfe o elementari, tracciate secondo una forma d’improvvisazione che ricorda il jazz.

L’artista sudafricano Cameron Platter (Johannesburg, 1978, vive a Cape Town e a KwaZulu Natal) concepisce il proprio lavoro come una forma di reportage, che descrive ciò che vede intorno a sé: «night clubs, fast food, storie di cronaca nera, il mondo dell’arte, la TV, i film, la politica, il consumismo…». La realtà, con la sua inesauribile varietà e straordinaria complessità, gli fornisce un repertorio d’immagini che l’artista disperde poi attraverso molti media: disegno, pittura, scultura, fotografia, arazzi, wall drawing, video. Ciò che è ordinario e marginale nel suo lavoro si riempie di significati incendiari, comunicati in modo estremamente diretto, una denuncia del consumismo, degrado, disparità, dei conflitti latenti che percorrono la società sudafricana. Il suo linguaggio immediato e sovversivo s’ispira al mondo infantile e all’arte popolare, ma anche alle linoleografie di un maestro dell’arte del Sudafrica come John Muafangejo e ai manifesti di protesta. Risk è un grande disegno a pastello su carta, tecnica molto usata dall’artista, con campiture di colore piatte e un uso molto grafico del bianco e nero che fa assomigliare l’opera a un’incisione. Appartiene a una serie di opere di grande formato che Platter considera “Nomadic Murals” (murali nomadi), secondo la definizione che Le Courbusier dava degli arazzi.  «It’s what you do that puts you on risk!!!» (È ciò che fai che ti mette a rischio!!!) leggiamo al centro dell’opera. La scritta è accompagnata dall’immagine di una gallina che occupa quasi tutta la superficie, stagliandosi su uno sfondo decorato da un motivo stilizzato di centinaia di uova appena deposte. Gli animali sono spesso usati nelle opere di Platter come uno specchio dei comportamenti umani. In questo caso il riferimento è al costante aumento dei ritmi produttivi, al tempo di lavoro sempre più pieno e più lungo, soprattutto dei lavoratori meno qualificati, che contrasta con i bisogni fisiologici di pausa e di riposo, aumentando il rischio di malattie, d’infortuni, di stress.
 

Non è casuale il titolo che Joël Andrianomearisoa (Antananarivo, Madagascar, 1977) ha scelto per quest’opera: Untitled – Few of my favorite Things (Senza titolo – Alcune delle mie cose preferite). L’opera presenta infatti alcuni degli elementi caratteristici del suo lavoro. In primo luogo il materiale impiegato: il tessuto, che ricorda la sua formazione, iniziata appena dodicenne all’Accademia della moda nel nativo Madagascar. In secondo luogo le forme: radicalmente geometriche. In terzo luogo il colore: il nero, che offre all’artista «infinite possibilità. In ogni pezzo, devo trovare varianti nello spettro di nero, diverse posizioni di nero. Non è solo un colore, ma anche un atteggiamento… mira all’universale». Dopo i primi studi nel nativo Madagascar, Andrianomearisoa ha proseguito il suo percorso formativo a Parigi, Ecole Speciale d’Architecture, dove è stato allievo di Odile Decq, risentendo delle sue atmosfere “dark” che caratterizzano le opere del famoso architetto. È arrivato quindi a una concezione che ha definito «archi-abbigliamento»: una pratica che occupa un territorio ibrido fra arte, moda, design, architettura. Degli apporti fra questi diversi settori partecipa anche questo grande arazzo rettangolare, composto da ritagli geometrici di tessuti che declinano un’infinita scala di nero, in una sovrapposizione di strati che raggiunge una densità tridimensionale e scultorea. Un’opera che nasce da una serie di manipolazioni che conducono nel loro farsi al risultato finale, frutto della necessità di essere sorpresi dagli oggetti che nascono dalle proprie mani.

 

Gonçalo Mabunda
Depois, 2016
armi usate nella guerra civile riciclate
cm 65 x 22,5x 14
Collezione Marino e Paola Golinelli, Bologna
Pirate Man, 2016
armi usate nella guerra civile riciclate
cm 53 x 36 x 18
Collezione Marino e Paola Golinelli, Bologna

 

The Yellow Man, 2016
armi usate nella guerra civile riciclate
cm 40 x 40 x16
Collezione Marino e Paola Golinelli, Bologna

 

Gonçalo Mabunda (Maputo, 1975) lavora sulla memoria collettiva del suo paese, il Mozambico, che ha conosciuto una lunga e terribile guerra civile iniziata quando lui era bambino, poco dopo l’indipendenza dal Portogallo alla fine di cinque secoli di colonizzazione. Le sue sculture sono realizzate con le armi sequestrate ai guerriglieri alla fine del conflitto, durato dal 1977 al 1992. Riciclate in forme antropomorfe che rimandano alle maschere della tradizione africana -diverse in ogni regione del continente e fonte di ispirazione per tanta arte occidentale, da Picasso a Braque fino al più contemporaneo Thomas Houseago- le armi usate da Mabunda hanno un forte significato di denuncia politica ma, allo stesso tempo, propongono una riflessione positiva sulla capacità dell’arte di trasformare le cose. Capacità che appartiene in particolare alla creatività africana, maestra nel nel riciclare ciò che già esiste, spesso scarti o materiali di nessun valore, dando vita a opere bellissime. Sorprendenti, ironiche e immaginative, le maschere si affiancano, nel lavoro di Mabunda, a lavori più grandi che prendono la forma di troni, apparentemente simili alle espressioni dell’arte di corte africana molto ricercate dal collezionismo internazionale. Realizzati anch’essi con armi disattivate, presentano  un aperto riferimento alla simbologia tribale del potere, con un intento di denuncia rispetto alle responsabilità dei politici per una situazione di instabilità che sta generando nuovamente violenza nel paese. Il Mozambico è l’ unica nazione al mondo ad avere un’arma da fuoco come simbolo sulla sua bandiera.

Abdoulaye Konaté (1953, Diré. Vive a Bamako) è un artista del Mali tra i più riconosciuti del continente africano. La sua ricerca si muove tra i conflitti del mondo moderno e la tradizione artigianale del suo paese d’origine. Tipici della sua cifra stilistica sono “arazzi” di grande formato in cui centinaia di strisce di stoffa tinta a mano, principalmente cotone  (una delle colture fondamentali del Mali), scendono a cascata combinandosi in affascinanti effetti cromatici.  Con questi lavori l’artista si rifà alla tradizione dell’Africa occidentale che consiste nell’utilizzare tessuti come mezzo di commemorazione e di comunicazione. Inizialmente orientata all’astrazione, la ricerca di Konaté si è aperta poi sempre più a riferimenti alla realtà e al sociale, legandosi all’attualità geopolitica, a temi come la guerra, la lotta per il potere, la religione, la globalizzazione, i cambiamenti ecologici e l’epidemia di AIDS. Negli ultimi anni molti dei suoi lavori si riferiscono alla guerra civile in Mali tra le forze governative, gli indipendentisti tuareg e i ribelli islamisti, criticando ogni forma di violenza  motivata in termini religiosi o etnici. Particolare nel percorso di Konatè è l’opera Koré Dugaw (Mali), un’installazione costituita da un grande arazzo con figure che indossano le maschere e oggetti simbolici tipici di una delle società iniziatiche Bambara, la Koré, e da un manichino che indossa un mantello a frange coloratissimo. Nelle parole dell’autore, “quest’opera monumentale è un omaggio al gruppo d’iniziati Korè Dugaw, molto importante per la cultura maliana in quanto rappresenta la parte più aperta della società.  Agli iniziati è infatti concessa la totale libertà di espressione: essi possono esprimersi liberamente e criticare tutti gli aspetti della società, anche lanciare veementi critiche contro esponenti della politica, della cultura, eccetera. Il mantello-feticcio diviene qui anche un’armatura e rappresenta il ruolo di assoluta autorevolezza di tali ‘sacerdoti delle idee”.

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Categories: Cultura