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Coinbase al Nasdaq: le criptovalute verso la maggiore età

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

La data era sospetta, ma in pochi ci hanno badato: il primo aprile Elon Musk ha annunciato in un tweet che avrebbe spedito via Space X un “vero dogecoin” sulla luna. E le quotazioni della criptovaluta hanno fatto un balzo del 35% nel giro di un’ora. È stato probabilmente il pesce d’aprile più ricco della storia, ma non è uno scherzo la decisione della compagnia aerea Air Baltic di accettare il pagamento in dogecoin, la valuta virtuale che nel 2021 ha realizzato il guadagno più significativo: +1.500% da 0,004 centesimi di dollaro a 0,11. Mica male per una valuta nata nel 2013 per scherzo (“doge” fa riferimento ad un popolare cane dei cartoon) e in parte per un intento didattico: lo scopo era di dar vita ad una criptovaluta di bassissimo valore, utile per consentire ai principianti di far pratica senza correre grossi rischi.

Ma gli scherzi, certe volte, diventano realtà. Oggi chi vuole comprare o vendere dogecoin si può iscrivere a Coinbase, la piattaforma che ha esordito al Nasdaq con un valore di mercato che, dopo un robusto saliscendi, ha chiuso la sua prima giornata su un listino regolamentato con una valutazione di 88 miliardi di dollari, un prezzo giustificato dalla rapida ascesa della base clienti (56 milioni a fine marzo, con una progressione di tre milioni al mese), della diffusione planetaria (più di 100 Paesi) e dei profitti in rapida espansione: 1,8 miliardi di dollari nel trimestre, per giunta in rapida ascesa. Insomma, la società creata da Brian Armstrong, da ieri catapultato nella lista dei plurimiliardari, è molto di più che una semplice follia di mercato. Non solo per la valutazione miliardaria della piattaforma o per le dimensioni incredibili del mercato del bitcoin e delle altre criptovalute (più di due trilioni di dollari, ovvero più del debito pubblico italiano) ma perché da un paio d’anni è profondamente cambiata la percezione del fenomeno: non più strumento di riciclaggio al servizio della criminalità o mezzo per sfuggire ai controlli degli Stati, ma un asset da comprare per difendere il potere d’acquisto dei propri capitali insidiati dall’inflazione, che prima o poi arriverà, vista l’iniezione gigantesca di liquidità erogata dalle banche centrali.

Il primo a convertirsi fu Paul Tudor Jones, gestore che amministra patrimoni per 38 miliardi di dollari. A maggio di un anno fa disse che avrebbe convertito in bitcoin il 2% delle gestioni. Da allora il Bitcoin ha convinto personaggi come Ray Dalio, Bill Miller o Stanley Druckenmiller. Secondo il Wall Street Journal, i grandi nomi della finanza Usa hanno accumulato almeno 11,5 miliardi in Bitcoin. E a questi vanno aggiunte aziende come Square, amministrata da Jack Dorsey di Twitter o, soprattutto, Tesla: la casa di Elon Musk ha investito 1,2 miliari di dollari in criptovalute.

Infine, di recente molte banche centrali in giro per il mondo, come quelle di Singapore, della Svezia e della Cina, hanno annunciato progetti per creare delle criptovalute nazionali ispirate almeno in parte a bitcoin. Una partita delicata, perché nel controllo della moneta sta buona parte del potere delle autorità monetarie. Ma anche i banchieri centrali sono a caccia di soluzioni innovative basate sulla tecnologia. All’origine della diffusione delle criptovalute c’è la risposta degli Stati ai costi ed alle conseguenze della pandemia.

Gli stimoli economici decisi dagli stati e dalle banche centrali hanno immesso nel sistema moltissima liquidità: molti operatori del mercato hanno a disposizione molti soldi da investire, o possono farseli prestare a interessi bassissimi. Uno degli investimenti più comuni in questo caso sarebbero le valute tradizionali, ma gli investitori le stanno snobbando perché temono che le politiche di sostegno alla crescita potrebbero far aumentare l’inflazione e far perdere loro valore. In quest’ottica, investire in bitcoin diventa un’alternativa allettante per diversificare i propri investimenti e difendersi dall’inflazione.

Il rischio? Resta alto, come dimostra l’andamento della stessa Coinbase, che ha chiuso il bilancio a fine 2019 in rosso in coincidenza di una delle non poche cadute rovinose delle quotazioni del Bitcoin e delle altre criptovalute trattate. Un rischio particolarmente elevato per il retail in un mercato che è ancora largamente sprovvisto di regole a tutela degli investitori. Ma dopo lo sbarco di Coinbase al Nasdaq è facile prevedere un’evoluzione del sistema così come prevista e voluta dallo stesso Armstrong, cui si deve la mossa decisiva per la diffusione del Bitcoin: l’abolizione dell’anonimato, a lungo difesa dai pionieri libertari ed anarcoidi che hanno popolato il sistema, ma allontanato gli investitori a caccia di guadagni alla luce del sole. Oggi non solo Coinbase ma anche Kraken, la prima piattaforma di Bitcoin ad avere il prezzo e il volume di trading visualizzati sul terminale Bloomberg, permettono di operare a patto che tu riveli la tua identità. Il sistema, insomma, sta diventando adulto, pur mantenendo alcune caratteristiche “selvagge”: l’indipendenza dalle zecche di Stato, ma anche dall’intermediazione bancaria. Anche per questo non ci sono limiti di sorta su quel che si può perdere o, più di rado, guadagnare.

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