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Ci vorrebbe un Papa straniero

Si è aperto un dibattito sulla Confindustria. Sull’efficacia e sull’efficienza della rappresentanza, o almeno così io voglio interpretare gli interventi su questo tema, per non cadere in diatribe personali che sono fuori dal mio modo di ragionare Il problema è che bisogna prendere il toro per le corna e chiedersi se non sia errato il modello di comando della rappresentanza confindustriale nel suo punto apicale.

Ossia, se non sia errato dare per scontato che il Presidente Nazionale (le Unioni Territoriali sono ben altra cosa…) di Confindustria debba per forza sempre essere un imprenditore. Non affronto il problema sotto il profilo teorico: sarebbe tedioso, anche se prima o poi varrebbe la pena farlo. Mi limito a ricordare che, senza dubbio, il periodo aureo di Confindustria nel secondo dopoguerra fu quello della Presidenza di Guido Carli e della Direzione Generale di Paolo Savona. Certo tutti si infastidirono e mal sopportarono quella diade. Ma allora ci si dimenticava la tragedia della Presidenza Costa, quando Confindustria era contro l’entrata dell’Italia nel Mercato Comune Europeo e quando gli industriali davano direttamente man forte ai partiti politici a cui rivolgevano i loro voti senza mediazione alcuna.

Si andò a finire maluccio sul piano della reputazione e si rischiò la frattura tra l’ala dei riformatori, che infine vinsero la partita (Agnelli e Pirelli con la loro riforma che fu storica…) per poi provocare, ahimè!, dei disastri. Essi possono essere riassunti con quello epocale dell’ accordo sul punto unico di scala mobile che portava la firma di Giovanni Agnelli. Si era in una situazione drammatica, certo, con la violenza di massa nelle strade e nelle piazze e nelle fabbriche con morti e feriti mai abbastanza onorati e la resa della classe dominante economica e politica. Essa, piuttosto che difendere lo Stato, spesso difese quei suoi figli ch’erano in prima fila tra i violenti.

Oggi la situazione internazionale dei mercati, unitamente alla sottrazione crescente di sovranità agli Stati nazionali, obbligherebbe gli industriali a dedicare più attenzione a Bruxelles piuttosto che alla politica romanica, trasferendo buona parte di Viale dell’Astronomia in Avenue Churchill a Bruxelles (“Chez George” è a due passi e si può desinare sempre benissimo…), perchè ormai le grandi scelte non sono assunte in Italia, ma su scala europea. E il tempo che occorre dedicare all’analisi dei mercati e della situazione internazionale richiede la formazione e la crescita di “intellettuali organici” della rappresentanza industriale. Penso a quell’incompreso gigante che fu Felice Mortillaro, per esempio, che avrebbe potuto essere l’antesignano di questa nuova stagione e che non a caso fu, invece, mortificato per la Sua troppo accesa libertà di pensiero e la Sua troppo brillante intelligenza. Se si vuole parlare di merito, occorre dare un’aura tecnocratica e non parentale alla direzione confindustriale, a partire dai giovani, per salire su su per li rami più anziani.

Dei bravi funzionari di spicco con curriculum illustri e capaci di interpretare il profondo cuore degli industriali sarebbero la soluzione. E forse risolverebbero assai meglio, con la cooperazione costante degli imprenditori certamente, i grandi dilemmi che abbiamo dinanzi: come ristrutturare l’ internazionalizzazione della nostra rappresentanza proprietaria, non solo dell’ industria e come creare, a fianco del pensatoio economico già esistente e di gran valore, un pensatoio sulle relazioni industriali non estemporaneo e casualmente ispirato dal professore alla moda, ma in grado, invece, di dare il là su questo tema non solo su scala italiana ma internazionale. Insomma, con il Sommo Poeta si può ben desiderare ch’è meglio che l’Imperator venga da orizzonti esterni alla pepinière di coloro che debbono essere rappresentati: questi ultimi si dedicherebbero ancor meglio alle loro imprese, con maggior concentrazione e deciderebbero con più libertà e in piena convinzione e ben controllerebbero i rappresentanti stipendiati. La mia convinzione è che la verità (e quindi la soluzione semplice) anche nella rappresentanza si raggiunge con il pensare complesso, ma che questo pensare è, in definitiva, molto più frugale di quanto non si creda: si costruisce per sottrazione e non per addizione. Decisiva è quindi l’ umiltà anziché l’ ambizione.

*Ordinario di Storia economica all’Università Statale di Milano

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