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Camillo Sorrentino, uno chef immerso nella storia del sapore sorrentino

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Per chi si trovi a navigare lungo la costiera sorrentina o quella amalfitana, sono una presenza cadenzata, costante del paesaggio. A picco sul mare o, più in alto, sulle rocce, sempre in posizione strategica, una serie di torri rotonde o quadrate diventa un punto di riferimento costante per i naviganti per capire dove ci si trovi o dove ritrovare una caletta in cui ancorare. Sono le torri costiere, costruite a più riprese, fra il X e il XV secolo, che raccontano con la loro presenza una storia lunga e travagliata delle pacifiche genti che vivevano in questa ridente parte d’Italia soggette per secoli a spietate incursioni di navi corsare e dei pirati saraceni che si spingevano dall’Africa fin qui per compiere razzie, depredare i contadini dei loro beni, catturare vergini e schiavi.

Di questi monumenti, nella fascia costiera che va da Massa Lubrense a Vico Equense, sulla penisola sorrentina, se ne contano una ventina.

Datano diverse epoche storiche costruite sotto, il dominio degli Svevi, degli Angioini, degli Aragonesi e dei viceré spagnoli. Erano nate come torri di avvistamento, in modo da avvisare tempestivamente con segnali di fumo gli abitanti dei villaggi di salire su per le montagne per nascondersi o predisporre timide difese nei confronti degli assalitori. Ciò non toglie che la storia ha dovuto registrare episodi cruenti di inaudita ferocia, come la strage di Conca dei Marini nel 1543, l’attacco di Cetara nel 1534, l’invasione turca nel 1587. E la cosa non riguardava solo le umili genti, si tramanda anche del rapimento della nobildonna sorrentina Berardina Donnorso durante l’invasione del 1558, liberata dopo sette anni di schiavitù, dietro pagamento di un ingente riscatto da parte della famiglia. E forse per ringraziare di aver avuto salva la vita, la nobildonna, rimasta vedova di Giovan Marino Anfora, ricco nobile sorrentino, avrebbe finanziato la costruzione della Chiesa di Santa Maria delle grazie dotandola di case e masserie varie affinché accogliessero le «figlie del Popolo di Sorrento e del suo Piano», ovvero nullatenenti, a differenza degli altri monasteri che avevano una popolazione esclusivamente altolocata.

La storia delle torri costiere seguì l’evoluzione politico-militare del Regno di Napoli: ebbero grande sviluppo con la dominazione spagnola, trasformandosi da torri di avvistamento in presidi militari difensivi, poi col mutare dei tempi vennero abbandonate a se stelle. Con la restaurazione borbonica del 1815 la maggior parte delle torri fu disarmata e adibita ad altri scopi (abitativi, segnalazioni semaforiche o telegrafiche).

Torre Ferano ad Arola nel territorio di Vico Equense oggi ha l’aspetto maestoso della torre, e pacifico di una casa contadina. Può ricordare una casa uscita dalle stampe seicentesche di paesaggi rurali, con tanto di cantine, grotte, e cunicoli o, per gli amanti della musica lirica, l’inquietante casa del brigante Sparafucile dove si consuma il dramma dell’uccisione di Gilda la figlia di Rigoletto.

Certo deve aver avuto una funzione rilevante in passato. La collina di Arola è collegata, tramite strade secondarie, alla costiera sorrentino-amalfitana attraverso Piano di Sorrento con la strada forestale di Casa Nocillo, e a Castellammare di Stabia seguendo la strada principale, tramite la galleria di Seiano. Antichi sentieri collegano ancora Arola a Meta di Sorrento, sono quelli di via Grottelle e dei Camaldoli in particolare, il secondo si immette sull’antichissima strada di epoca pre-romana (VI secolo a. C.) denominata via Minervia (dal tempio alla dea Minerva sito alla punta Campanella) che collegava Nocera con Punta Campanella.

Insomma siamo nel pieno della storia di questa porzione di territorio sorrentino completamente isolata e distante dai traffici turistici. Una delle strade che portano a Torre Ferano, oggi purtroppo chiusa per frane, è così impervia, inerpicata sulla montagna, che percorrendola di sera avevi la sensazione che da un momento all’altro potesse uscir fuori da un cespuglio un brigante alla Fra Diavolo con tanto di trombone pronto a toglierti la borsa.

Consapevole della straordinaria unicità del posto, Camillo Sorrentino, nomen omen mai fu tanto appropriato, Chef e patron di Torre Ferano, quando venti anni fa rilevò questo posto per farvi un ristorante, decise che tutto doveva raccontare la vita vissuta. Il restauro dell’edificio fu svolto nel più rigoroso rispetto della struttura originaria: scale, sale, salette, cantine per la lavorazione del vino dei contadini che l’avevano a lungo abitata, grotte per la conservazione delle botti, tutto è rimasto come era un tempo, un affascinante formicaio, con grande sacrificio per chi vi lavora, e con il sacrificio soprattutto per la proprietà di rinunciare ad ambienti più capienti per la clientela (e più redditizi).

Ma la sua scelta è stata vincente. Arrivare a Torre Ferano oggi è una sensazione unica e poi, quella terrazza senza vetri che spazia sul golfo di Napoli, a 600 metri sul livello del mare, una vista spettacolare che abbraccia il Vesuvio, le falde del Monte Faito, Seiano e il centro di Sorrento e che arriva fino a Punta Campanella sul mare verso Capri, dominando un presepe di piccole luci degli abitati sottostanti è qualcosa che ti rimane nel cuore.

E tocca il cuore anche l’atmosfera che si respira a Torre Ferano, che induce alla calma, ai tempi lenti, nel rispetto della storia del luogo, dove la parola fretta è lasciata fuori dal portone d’ingresso. Nostress è la password wifi. E non è casuale perché lo stress qui è bandito, è lasciato alla città, alla vita intensa dei ritrovi della movida. E Camillo ne è la personificazione. Un pezzo d’uomo che in cucina è tutto un daffare frenetico. Ma che fuori cucina, col suo bel sorriso stampato in faccia, si trasforma in uno chef dal pacato epicureismo, che ama trattenersi con i clienti, gira per i tavoli, non ne trascura alcuno, scruta l’atteggiamento dei clienti, li interroga, li esamina, attento a cogliere, e dove possibile, a esaudire ogni desiderio. “Sono un tipo “no stress”, incassatore” – ama dire.

Il ristorante a Torre Ferano creato dal nulla è stata una sua scommessa, mentre altri inseguivano mode cattura-clienti, Camillo, vero self made man, affascinato dalla magia del luogo e dai suoi ricordi di cucina familiare, ha avuto subito ben chiaro che questo doveva essere un luogo filosofico, dove cucina di tradizione, rapporti umani, storia, sapori del territorio, tecniche di preparazione raffinate ma non stravolgenti, dovevano contribuire tutti insieme a creare un’atmosfera unica intenta a far godere il presente. E questa è stata la chiave del suo successo. Non si affrontano strade impervie, viottoli di campagna, non ci si arrampica su per 600 metri, sulla montagna se non si è sicuri di trovare poi qualcosa di diverso.

Una scommessa vinta in un accoppiata formidabile con Giosuè Maresca, che può essere considerato il padre nobile di molti chef sorrentini che poi hanno fatto molta strada. Uno per tutti? Un giovane Antonino Cannavacciuolo che a 17anni andò al ristorante San Vincenzo, tra Vico e Meta di Sorrento, per raffinare le armi, approfondire il gusto delle materie prime, imparare cotture rispettose, esaltare i sapori: lo chef si chiamava Giosuè Maresca. Un altro nome eccellente il grande Gennarino Esposito due stelle Michelin della Torre del Saracino che lo ebbe come maestro all'”Alberghiero” di Vico Equense.

E con Maresca, Camillo Sorrentino ha avviato un duraturo sodalizio, ha studiato a lungo la linea della cucina, la riscoperta di antichi sapori che dovevano trasformarsi in antiche virtù di un luogo così particolare come Torre Ferano che doveva essere memoria del passato ed emozione del presente al tempo stesso, la riproposizione di antichi ricordi di famiglia portati in tavola con piacevolezza e leggerezza. Come l’insalata di Sauro arrostito, gli spaghetti con lupini e telline, il baccalà fritto, i piatti che, in qualsiasi ricorrenza o per eventi di paese, preparava suo nonno, “perché era un pescatore storico della marina di Vico e il suo hobby era cucinare per le persone della borgata”. E non si può tacere della zuppa di broccoli e fagioli secondo la vecchia tradizione locale, la genovese con ziti spezzati, la pasta e patate con il Provolone del Monaco, i ravioli di ricotta di bufala e tartufo nero del Monte Faito con guanciale croccante e un ragù da manuale che ti lascia dentro una gran voglia di ritornare. Per non parlare di un classico dello street food napoletano, la pizza fritta. Camillo l’ha rivisitata e brevettata con il marchio “La Pizza Fritta di Camillo”

Una cucina espressione del territorio a 360°, con un contatto diretto con i vicini di casa e con artigiani della città, dal mare alla montagna perché il segreto “sta nel fare una spesa giornaliera con prodotti di eccellenza, seguire la stagionalità e preparare pochi piatti, il giusto modo per mangiare bene con prezzi contenuti e il menù è fatto!”.

Un’accoppiata che si è protratta nel tempo in un costate confronto fra maestro e allievo prima, fra collega e collega poi. E anche ora che Giosuè Maresca, che per gli accadimenti della vita, ha lasciato Sorrento per trasferirsi in Ucraina, il fil rouge non si è interrotto: ”con Giosuè – dice Camillo, ci sentiamo spesso via Skype, quasi tutti i giorni, parliamo del ristorante, studiamo ricette, perfezioniamo quelle che abbiamo già sviluppato, insomma nulla è cambiato perché Torre Ferano è stata per noi un’esperienza importante”.

Ed è così che la Torre di Camillo ha resistito anche ai tempi bui del dopo Covid. Tutti si lamentavano per i ridotti introiti. Lui no: “Questa pandemia, non mi ha portato nessun cambiamento”, dice con l’aria di chi non vuole volgersi al passato prossimo. E aggiunge subito dopo con sorniona saggezza: “Una delle cose più belle successe in quei mesi è stata la Pasqua in famiglia e il piacere di mangiare la pastiera in casa”.

Insomma il suo ristorante dopo i giorni di chiusura ha ripreso in grande stile perché la genuinità dei suoi piatti è la più grande alleata di un cliente che ha imparato dai drammatici avvenimenti di quest’anno che la vita richiede maggiore rispetto per la natura. La genuinità delle verdure del suo orto, della carne di allevatori della zona che ancora credono nel piccolo mondo antico, del pesce che Camillo si procura da un suo amico pescatore e che arriva direttamente dal mare alle sue cucine, e che lui mostra con orgoglio ai suoi avventori in una sorta di defilé del pescato girando per i tavoli, riguardano le esigenze naturali del corpo. Per quanto riguarda quelle della mente, beh, l’abbiamo detto ampiamente e lui non si stanca di ripeterlo, qui la parola d’ordine è no stress, qui si viene per stare, come si dice da queste parti “in grazia di Dio”. Gli affanni, le tensioni, la fretta vanno lasciati fuori.

Ad Antonino Cannavacciuolo hanno chiesto di recente di elencare 5 ristoranti a Vico Equense che esprimessero l’identità e la genuinità di questo angolo di paradiso. E fra questi il grande chef ha inserito Torre Ferano. Qualche motivo c’è!

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