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BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – La Cina cambia, ma la difesa del cambio non può farla da sola

A un visitatore occidentale che gli chiedeva come fosse possibile gestire l’immensità cinese, il primo ministro Zhou Enlai rispose che governare un grande paese è semplice come cucinare un piccolo pesce. Erano gli anni Settanta e la Cina aveva un’economia minuscola. Era un paese di contadini con un piccolo proletariato urbano impiegato nell’industria pubblica e un sottile strato di intellettuali che controllava il partito. La frase di Zhou Enlai era in realtà una citazione di Laozi, un filosofo del VI secolo avanti Cristo. Secondo alcuni Laozi non è mai esistito, ma personifica una tradizione taoista che in politica si traduce nel lasciare che le cose vadano per il loro verso, intervenendoci il meno possibile. Oggi gestire la Cina non è più così facile. Il partito ha ancora un forte controllo, ma il suo potere non nasce più, come amava dire Mao, dalla canna del fucile, ma dalla tenuta del consenso delle classi urbane. Le campagne non sono il problema principale (rivolte contadine ci sono sempre state nella storia cinese e ce ne sono tuttora decine ogni anno senza che questo faccia notizia) ma le città costiere, aperte al mondo, colte e sofisticate, accettano di lasciare il potere nelle mani di un’élite autonominata solo a patto che questa riesca a produrre crescita e ricchezza. Una società articolata richiede anche un’elevata capacità di mediazione politica tra gli interessi dei diversi gruppi sociali.

La Cina di Mao aveva solo due gruppi, i contadini e gli operai, e alternava fasi in cui favoriva gli operai, come nel modello classico sovietico, ad altre in cui provava ad equilibrare i rapporti di forza. Oggi, tuttavia, gli interessi di un industriale esportatore non coincidono con quelli dell’industria di stato (che dà lavoro a decine di milioni di persone) o degli immobiliaristi, mentre la richiesta di aria respirabile che si leva dalle città va mediata con la sopravvivenza di Shanxi e Shaanxi, due province povere in cui 70 milioni di persone vivono dell’estrazione del carbone. C’è poi da prestare attenzione alle decine di milioni di contadini inurbati che lavorano nell’edilizia e nell’industria come manodopera poco qualificata. Sul passaporto interno hanno ancora scritto che sono contadini e in base a questa finzione giuridica non godono dei diritti degli abitanti delle città, non hanno diritto a una casa, dormono in fabbrica o in cantiere, hanno un’assistenza sanitaria inferiore e possono essere rimandati in campagna in qualsiasi momento. È il sistema sovietico, derivato a sua volta da quello coloniale britannico (che considerava la manodopera inurbata come residente nelle homeland e riserve) e che gli afrikaner portarono all’estremo con l’apartheid. Un sistema politicamente insostenibile che però fa ancora comodo e che verrà smantellato solo gradualmente. La crescita impetuosa, fino ad oggi, ha permesso di fare contenti quasi tutti. La crescita ha però avuto fasi diverse. L’amministrazione Jiang Zemin, negli anni Novanta, ha aperto il paese e attuato grandi riforme. L’amministrazione Hu Jintao (2003-2013) ha vissuto di rendita sulle riforme del decennio precedente, non ne ha attuate di nuove ed è anzi tornata a rafforzare il peso dell’industria pubblica. Il modello di crescita, sotto Hu Jintao, è stato per sua stessa ammissione distorto e insostenibile.

Si è basato in larga misura sull’edilizia, con l’esproprio di terreni agricoli da parte degli enti locali e la rivendita degli stessi terreni a prezzi moltiplicati agli immobiliaristi con il permesso di costruire come e quanto volevano. Questo ha creato ovviamente un sistema di corruzione nella pubblica amministrazione e un eccesso di offerta di case. Il boom immobiliare ha trascinato al rialzo il prezzo dell’acciaio e del rame, ha rafforzato l’industria pesante pubblica e ha creato una bolla in molti paesi produttori di materie prime, dal Brasile fino all’Australia. Se quasi nessuno, nei mercati e tra i policy maker occidentali, ha criticato seriamente il modello di crescita di Hu Jintao è perché, in particolare dopo la crisi del 2008-2009, il boom cinese ci ha fatto molto comodo. Il sostegno alla domanda globale, moltiplicato dal credito facile concesso dalle banche cinesi agli immobiliaristi, ha dato un contributo a farci uscire dalla recessione paragonabile al Quantitative easing e al disavanzo fiscale americano. Quasi tutti invece criticano oggi la nuova amministrazione Xi Jinping, la più orientata alle riforme che la Cina abbia mai avuto dal 1978. La nuova leadership ha però disinnescato due mine potenti, il mercato immobiliare e le sofferenze delle banche. Sono due mine che negli anni scorsi avevano fatto dire ai pessimisti che la Cina era avviata a una crisi finanziaria ed economica senza precedenti. In realtà i non performing loans (l’uno e mezzo per cento del totale) continuano a essere smaltiti velocemente e sono coperti da accantonamenti, mentre la bad bank di sistema funziona bene. Quanto alle case, le foto delle città appena costruite e rimaste vuote (come Ordos in Mongolia Interna) continuano a circolare, ma sono sempre quelle. Lo stock di case invendute è stabile da tre anni e se invece di quartieri rimasti vuoti si fossero costruite portaerei nessuno avrebbe avuto niente da ridire. I prezzi delle case, dal canto loro, non sono crollati come molti avevano previsto ma sono rimasti molto tranquilli, di certo più tranquilli di quelli di Londra o San Francisco. I conti delle province e degli enti locali, una terza mina di cui molto si è parlato negli anni scorsi, sono stati stabilizzati e resi trasparenti.

Chi vuole indebitarsi, oggi, deve avere l’autorizzazione del governo centrale, che non la dà volentieri. Il grande progetto di trasformazione dalla manifattura ai servizi va avanti veloce, anche se non si può pretendere che si realizzi in pochi mesi. I consumi crescono dell’11 per cento anno su anno e se qualcuno è più bravo ce lo faccia sapere. All’interno della manifattura è in corso uno spostamento dall’industria pesante all’alta tecnologia. Non un renminbi di sussidi per acciaierie e miniere, vasti programmi di infrastrutture per la connettività. Quanto alle privatizzazioni, il rialzo di borsa della prima metà del 2015 aveva il compito, agli occhi del governo, di preparare la strada al collocamento di alcune parti del settore pubblico. È andata come è andata e le privatizzazioni sono state rinviate. Il governo, in ogni modo, non vuole privatizzare alla russa e creare una classe di oligarchi che privatizza i profitti e socializza le perdite. Il suo scopo è semmai di cedere uno alla volta rami di attività in grado di stare in piedi da soli e competere nel mercato. Il grande merito dell’attuale amministrazione è quello di avere liberalizzato i tassi d’interesse e di preparare la riforma più coraggiosa, quella del cambio. Per anni gli economisti e i governi occidentali hanno raccomandato esattamente questo, ma ora che la Cina sta realizzando quanto le si chiedeva le critiche si levano ancora più alte. In effetti, quando si diceva alla Cina di lasciare fluttuare il cambio si pensava che il renminbi sarebbe salito, ma vedendo che una valuta libera può anche scendere i liberisti si sono trasformati in dirigisti e invocano (come ha fatto Kuroda) la reintroduzione dei controlli sui capitali da parte della Cina. Già, ci si può chiedere, ma perché il renminbi scende? Non ha forse, la Cina, un surplus commerciale che nel 2016 raggiungerà il livello record di mezzo trilione? La Cina, in effetti, non ha nessun problema di competitività, come invece spesso si dice. Ha semplicemente da attraversare la fase in cui i portafogli, finalmente liberi di investire dove vogliono, realizzano una diversificazione fisiologica.

Gli americani hanno 9 trilioni di azioni e obbligazioni estere, gli europei dell’Eurozona ne hanno 7 e i cinesi ne hanno solo 0.2. Avranno diritto anche loro a comprarsi qualche azione americana, o no? Perché se noi compriamo un fondo emergente o un bond americano facciamo una normale attività di gestione, mentre se la stessa cosa la fa un cinese è il segnale della profonda sfiducia nella sua economia? E perché se Draghi pilota l’euro verso il basso è bravo e brillante, mentre se lo fa la Cina (per molto meno) è segno di panico e di crollo imminente? La nostra impressione è che la Cina riuscirà a gestire tutte le trasformazioni strutturali su cui si è impegnata. Economisti che da anni seguono costantemente la Cina come Donald Straszheim di Evercore o Diana Choyleva di Lombard Street sono oggi cautamente positivi dopo essere stati negativi fino a qualche mese fa. Quello su cui però la Cina non ce la farà da sola è la difesa del cambio. Come nota Alan Ruskin di Deutsche Bank, se una modesta svalutazione cinese è un problema globale anche la soluzione dovrà essere globale. Ruskin fa proposte stimolanti, come un Qe americano in cui la Fed acquista renminbi con dollari stampati di fresco. Servirebbe a moderare la voglia di dollari, sazierebbe la voglia di diversificazione cinese e darebbe una nuova giovinezza al Qe, dirottandolo dai Treasury già abbastanza cari a un renminbi che, a ben vedere, non è affatto sopravvalutato. In attesa di soluzioni audaci per alcune delle tensioni valutarie del mondo accontentiamoci (e non è poco) delle aperture di Draghi per un ampliamento del Qe europeo e del tono sommesso con cui la Fed annuncia che i futuri rialzi dei tassi torneranno a essere condizionati dai dati macro. O crescita sostenuta e allora rialzi, o crescita debole e allora niente rialzi. Dovrebbe essere abbastanza per stabilizzare mercati molto nervosi. Nel frattempo cambi stabili, renminbi incluso.

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