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Bassanini: “Tim difende la sua rete ma la vera ultrafibra è quella di Open Fiber”

Le polemiche sulla banda ultralarga e la rete in fibra? “Non sono tra Open Fiber e Tim ma tra governo, Infratel e Tim”. Ma di quale fibra parliamo: quella che arriva dentro case e uffici (Ftth) o quella che si ferma all’armadio telefonico (Fttc), salvando il doppino in rame? “Sono discussioni di piccolo cabotaggio. E’ un dibattito vecchio. Quando si costruisce un’infrastruttura bisogna proiettarsi in avanti, a quando la rete sarà completata. E il futuro non sarà delle decine o centinaia di Megabit. Il futuro sarà della Gigabit society: mille Mega e oltre. Dal 2020 in poi, si va verso un mondo in cui o hai la rete in fibra ottica 100% e il 5G (che a sua volta presuppone un backbone capillare in fibra ottica) o sei fuori. Questa è la realtà del futuro e questa è la scelta che ha fatto il governo. Il resto sono chiacchere”. 
 
Franco Bassanini, presidente di Open Fiber (OF), la società 50% Cassa depositi e prestiti (Cdp) e 50% Enel che ha lanciato la sfida sulla rete in fibra ottica rilevando Metroweb, sa bene di cosa parla. E’ stato ministro della Funzione pubblica nel 1996 quando Ernesto Pascale, allora Ad di Telecom Italia, lanciava il piano Socrate, il primo con l’ambizione di dotare l’Italia di una rete in fibra ottica. A quel tempo Bassanini puntava sulla digitalizzazione della Pubblica amministrazione per svecchiare la brontosaurica burocrazia italiana e per questa auspicava una rete  TLC di nuova generazione. Fino al 2015 era presidente di Cdp e da lì ha seguito in diretta il tema delle infrastrutture. Come consulente di Palazzo Chigi ha benedetto la nascita del Piano Banda Ultralarga del Governo, che, insieme con la nascita di Open Fiber,  sta mettendo Telecom Italia sotto pressione sul suo asset più significativo: la rete in rame, quell’ultimo miglio su cui l’ex monopolista vanta un primato esclusivo. Un asset, però, destinato al tramonto, prima o poi. Sul “quando” si gioca la partita. Come finirà? C’è spazio per due reti in ultra broadband? E il modello di business disegnato da OF –  che prevede il pareggio operativo già nel 2018 e una redditività dell’80% su circa 1 miliardo di ricavi dal 2026 – regge all’avanzata di Tim (che si appresta alla probabile uscita di Flavio Cattaneo) che ha intensificato gli investimenti sulla propria rete?  Lo chiediamo a Franco Bassanini che risponde in questa intervista a FIRSTonline. Se Tim rilancia sulle aree bianche, Open Fiber non arretra: “Il nostro obiettivo è di fornire una rete 100% in fibra su tutto il territorio nazionale e ci candidiamo ad essere il backbone per la futura rete mobile in 5 G”. 
 
E’ molto articolata la vicenda della fibra in Italia: tra le aree “nere” pienamente concorrenziali o anche aree A e B dove gli operatori si contendono i clienti; le aree “bianche” a fallimento di mercato o anche C e D dove invece arriverà lo Stato con i bandi lanciati da Infratel; e quelle grigie, meno competitive dove comunque non è ammesso l’intervento pubblico, sono proprio queste ultime che rischiano di soffrire di più. Come procede il piano di Open Fiber per la realizzazione della rete in fibra ottica? 
 
“Stiamo procedendo in linea con tempi e obiettivi del piano industriale che riguarda medie e grandi città italiane.  Oltre a Milano, Torino, Bologna che abbiamo acquisito con Metroweb, abbiamo individuato altre 10 città – tra le quali Perugia, Napoli, Cagliari – in cui stiamo già lavorando alla costruzione della rete. Da luglio ne abbiamo aggiunte 81, in corso di progettazione, per arrivare complessivamente a 271 città coperte nelle aree nere. E’ un piano importante, interesserà 9 milioni e mezzo di abitazioni che collegheremo in fibra ottica Ftth, quindi fin dentro le case o gli uffici. A fianco di questo programma, c’è il piano Infratel per le aree C e D. Abbiamo vinto il primo bando in 6 Regioni, per il secondo bando abbiamo avuto una pre-assegnazione ma sarà aggiudicato tra qualche settimana. Sottolineo che siamo andati ben oltre gli obiettivi previsti dalle gare: copriamo il 90%  in Ftth andando molto oltre i 100 Mega di velocità richiesti dai bandi. Il restante 9% avverrà via wireless punto-punto. La prima gara di Infratel prevedeva la realizzazione di infrastrutture per un costo stimato di circa 1,45 miliardi di euro; Open Fiber ha offerto un ribasso del 19%, con un importo di circa 1,180 miliardi di euro. Ad esito della gara il risparmio complessivo ottenuto dallo Stato è stato del 53% circa dell’importo di gara perché l’offerta di Open Fiber (come da regolamento di gara) è stata “scontata” dei ricavi attesi e si è, dunque, attestata su un valore di circa 675 milioni di euro. 
 Tim aveva proposto 1,080 miliardi. Lo Stato ha risparmiato più di 750 milioni che possono essere utilizzati per sostenere la domanda mediante bonus a famiglie e imprese facilitando così la migrazione dal rame alla fibra. E’ vero tuttavia che resta una parte di aree grigie, fuori dalle 271 città, in cui non abbiamo definito gli investimenti: alcune dovevano essere coperte da Tim che però pare abbia deciso di dirottare in parte i suoi piani di sviluppo su alcune aree bianche, puntando a toglierci quelle potenzialmente più redditizie”. 
 
 Si potrebbe dire che questi sono gli imprevisti di un’economia di mercato. Ma se Tim arriva prima di Open Fiber con la tecnologia Fttc (Fiber to the cabinet), regge ancora il vostro modello di business nelle aree bianche? E come stanno reagendo le banche che devono darvi i finanziamenti? 
 
“Premetto che il conflitto che si è venuto a creare con il cambio di rotta impresso da Tim non è tra noi e loro. Semmai è tra il governo e Infratel da un lato e Tim dall’altro. Il piano del governo è stato concordato virgola per virgola, possiamo dire, con la Commissione europea dopo una doppia consultazione con gli operatori, realizzata nel 2015 e 2016. I bandi delle due prime gare Infratel sono stati fatti quando nessun operatore  aveva dichiarato di voler investire in quelle aree definite appunto per ciò bianche. Se ora Tim cambia rotta, il governo rischia di dovere spendere di più per realizzare gli obiettivi di copertura sulla parte restante, meno redditizia, delle aree bianche. Per questo ha avviato una procedura: per stabilire se è legittimo o no questo cambiamento in corso d’opera. Si dovranno pronunciare diverse istituzioni: l’Antitrust, l’Autorità per le Comunicazioni, il Tar e forse persino il tribunale civile se ci fossero dei ricorsi per risarcimento danni. Open Fiber è protetta da una clausola contrattuale che prevede il riequilibrio del piano economico-finanziario della concessione se le condizioni iniziali cambiano non per colpa nostra. Questo le banche lo sanno perfettamente. Ma proprio per questo il Governo, e dunque il contribuente, potrebbe subirne un danno. Che le autorità competenti potrebbero giudicare illegittimo”. 
 
Quindi cosa potrebbe accadere? 
 
“Sostanzialmente, se Tim non dà seguito a ciò che ha detto di voler fare su alcune aree bianche o perde sul fronte legale, tutto rimane come è e lo Stato risparmia 730 milioni (rispetto al 1,4 miliardi del primo bando) che potrà destinare a voucher nelle aree nere o grigie. L’Europa sembra favorevole a considerare i voucher un sostegno alla domanda e dunque a non considerarli aiuto di Stato: ci sono del resto precedenti in questo senso. Se invece Tim va avanti e vince la partita legale, allora chiederemo il riequilibrio della concessione e bisognerà reperire altrove le risorse per i voucher”. 
 
Secondo lei come andrà a finire? 
 
“La mia personale opinione è che alla fine il problema sarà affrontato e risolto. Il Governo ha già annunciato una ridefinizione delle aree bianche nelle Regioni del terzo bando,  Puglia, Calabria e Sardegna, che non è stato ancora pubblicato. Riguardo agli altri due bandi invece se Tim lascerà scoperte aree grigie, nelle quali decide di non voler più investire, a differenza di quanto aveva comunicato nel 2016, allora il governo verosimilmente dovrà prevedere un bando supplementare per includerle nelle aree bianche. Per quanto ci riguarda la nostra prospettiva, se dovessero esserci dei “buchi”, è di colmarli, ovviamente verificando la redditività complessivamente del nostro investimento. Ma, a regime, intendiamo fornire una rete Ftth su tutto il territorio nazionale e ci candidiamo ad essere il backbone per il 5G mobile”. 
 
 Lei sottolinea che la rete di Open Fiber è in fibra fino alle case (Ftth). Tim chiama fibra anche la rete che arriva fino alla cabina telefonica (Fttc). Non si fa confusione così? E soprattutto cosa cambia con l’una o con l’altra tecnologia per le famiglie e le imprese dal punto di vista dei servizi? 
 
“Questo è un punto importante. Verizon, a Manhattan, sta mettendo fibra Ftth ovunque e si contende i clienti con le cable Tv. Queste stanno passando allo standard Full Docsis 3.1 che garantirà banda a 10 Gigabit sia in upload, quando si invia per esempio un film, che in download, quando lo si scarica. In Italia non abbiamo le cable Tv. Per le TV, abbiamo il Digitale terrestre che ha assorbito frequenze che dovrà però in buona parte cedere alle TLC mobili entro il 2022. Allora avremo un solo network per trasmettere programmi televisivi, comunicare, inviare dati, gestire il cloud delle piccole e grandi imprese, connettere oggetti fra loro. E’ di tutta evidenza che solo una rete 100% fibra potrà garantire questo livello e quantità di connessioni che saranno accelerate dall’arrivo del 5G. La fibra 100% non è solo più veloce, ma è più stabile e affidabile, consuma meno energia, riduce i costi di manutenzione e i guasti. Non esiste Adsl che possa garantire altrettanto: ma se la immagina l’auto senza guidatore o con la guida assistita se salta la connessione alla rete per un guasto? Che la rete mista fibra più rame venga proposta ai consumatori con termini come supefibra, ultrafibra o simili è ingannevole e abbiamo sottoposto la questione all’Antitrust. E’ come vendere come olio d’oliva una bottiglia con un 30% di olio di oliva e il resto di olio di palma o di semi. Se poi ci fosse una norma di legge che lo vietasse, sarebbe ancora meglio. In Francia, dopo un ricorso presentato da Xavier Niel di Iliad, si può propagandare come fibra solo l’Ftth. Tutto il resto va presentato come rete mista e bisogna precisare dove arriva. Sarebbe utile chiarire anche qui: noi raggiungiamo case e uffici con fibra 100% , altri si fermano al 30%. E non è la stessa cosa”. 
 
Tornando ai finanziamenti, come procedono? 
 
“Stiamo negoziando con le banche un prestito ponte da 500 milioni che arriverà in termini ravvicinati che è parte del prestito “jumbo” da 3,5 miliardi necessari per realizzare il grosso del nostro piano nelle aree nere e bianche, al netto dei finanziamenti pubblici. Di questa architettura finanziaria fa parte anche un prestito di 500 milioni dalla BEI – in fase avanzata di definizione – nell’ambito del piano Juncker. Il negoziato con il consorzio di banche che assicurerà il project financing “jumbo” è in corso, contiamo di chiudere a cavallo di fine anno o nei primi mesi del 2018”. 
 
Caduta l’opzione di F2i, a gennaio, per entrare nel capitale di Open Fiber, pensate di riaprire l’ingresso all’equity per nuovi investitori istituzionali? 
 
“Sia l’opzione F2i che l’ingresso di nuovi soci  tornerà d’attualità appena completato il processo di finanziamento.  Ci sono diversi fondi d’investimento specializzati in infrastrutture che hanno manifestato interesse ad entrare nel capitale, quando lo apriremo, con quote di minoranza”. 
 
Potrebbe esserci la Bpi francese il cui Ad, Nicolas Dufourcq, è venuto a Roma nei giorni scorsi? 
 
“Fondi di molti Paesi si sono fatti avanti ma non mi risulta che tra questi ci sia la BPI perché la Bpi è azionista di Orange, la Telecom francese, e di solito preferiscono investire in casa propria”. 
 
Tirando le somme, c’è spazio in Italia per due reti in fibra ottica? Lei ha parlato di compatibilità in massimo 10-12 città. Nelle altre cosa si fa? 
 
“Io mi sono limitato, in una relazione al Digital Regulatory Forum di Londra,  a citare il consensus degli analisti e non a fare mie previsioni, come è chiaro a chiunque abbia letto quella relazione: e ho anche osservato che in altri Paesi la concorrenza infrastrutturale c’è, fra rete TLC e reti TV cavo. Detto questo, è un fatto che si debbano accelerare gli investimenti in Italia. Il futuro è nelle mani di chi fa una rete per metterla a disposizione di tutti gli operatori oppure ciascuno procede per conto suo? Nel mondo delle infrastrutture, in generale, ovunque si afferma la distinzione sempre più marcata tra chi fa l’infrastruttura e chi offre i servizi. La ragione è chiara: l’azionariato di chi offre servizi è composto prevalentemente da investitori istituzionali che chiedono rendimenti adeguati nel breve periodo. Chi investe in infrastrutture, come fondi pensione, assicurazioni, banche di sviluppo, invece, si muove con una logica di lungo periodo. Se fosse vera la stima degli analisti, ipotizzo tre scenari possibili: o si fa anche in Italia un accordo per dividersi il territorio come hanno fatto Verizon e AT&T negli Stati Uniti, oppure uno dei due contendenti vince la competizione sull’altro, oppure si raggiunge una qualche intesa per fare un’unica rete non verticalmente integrata, al servizio di tutti i 320 service providers italiani. Faccio però osservare che in Italia non c’è la Tv via cavo e quando si concluderà l’esperienza del Digitale terrestre si dovrà scegliere una rete tlc. Vedremo quale sarà più conveniente e affidabile. Per ora si può dire con certezza che la discesa in campo di Open Fiber ha costretto Tim ad abbandonare il suo vecchio mantra (“in Italia non c’è domanda, dunque non serve investire sulla fibra”) e ad accelerare gli investimenti che altrimenti avrebbe continuato a condizionare all’avvio di una futuribile domanda, anche a tutela del suo comprensibile e legittimo interesse aziendale a prolungare il più a lungo possibile il valore della sua rete in rame e la posizione dominante connessa alla proprietà di questa rete”.

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