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Barometro della guerra, ecco come la finanza aiuta a capire se dura o finisce: parla Barone Adesi

Imagoeconomica

Corsa dell’inflazione e rallentamento della produzione industriale. Saranno questi gli effetti a regime della guerra in Ucraina sull’economia europea. Gli scenari sono simili a quelli di uno stress test estremo: «Nell’immediato ci si confronterà con l’inflazione e la difficoltà di mantenere operative e competitive le industrie, strette tra mancanza di materie prime e aumento dei prezzi. Nel medio periodo rimarrà comunque un’inflazione alta e si rischierà lo stop della crescita economica. L’incertezza sui mercati durerà a lungo perché Putin non potrà avere tutto quello che desidera e non potrà però nemmeno fermarsi fino al momento in cui non avrà garantito la sua sopravvivenza politica». Lo sostiene Giovanni Barone Adesi, professore di Teoria Finanziaria presso l’Università della Svizzera italiana, uno dei massimi studiosi al mondo di strumenti derivati e coautore del modello più usato nella valutazione delle opzioni americane.

In caso di guerra prolungata nel tempo, qual è il rischio principale che vede per il sistema finanziario europeo?

«L’aumento dei tassi d’interesse sarà inevitabile, anche se si sta facendo strada l’ipotesi di aspettare per intervenire. Ma non si potrà mantenere la stabilità monetaria con i prezzi che salgono senza sosta. Le Borse europee sono destinate a soffrire perché non ospitano i grandi colossi industriali che producono materie prime, ad esclusione in parte di quella di Londra. Diversa è la situazione del mercato finanziario statunitense, visto che gli Usa sono ormai i più grandi produttori mondiali di petrolio».

Il rapporto tra l’euro e dollaro?

«Chiaramente l’euro è destinato a deprezzarsi rispetto al dollaro: l’economia europea è molto più esposta alla guerra in Ucraina. Inoltre, l’Europa – anche se attualmente sconta un’inflazione più bassa degli Usa – è destinata a raggiungere lo stesso livello di aumento dei prezzi».

Il rublo tornerà ad essere una moneta scambiabile nei grandi circuiti della finanza globale?

«Il rublo è defunto a questo punto. Certamente Putin non può mollare la presa sulla guerra: se accettasse una sconfitta in Ucraina, il suo regime crollerebbe. Ma non avrà risorse per continuare una guerra intensa come quella in atto in questi ultimi giorni. È sostenibile invece il costo di una guerra strisciante che potrebbe comunque durare mesi».

I giornali europei stimano che, con 630 miliardi di dollari di riserve e un incasso giornaliero di circa 700 milioni dall’Occidente, per ora le finanze pubbliche non preoccupino Mosca.

«Forse due settimane fa le riserve valutarie non erano un problema per la Russia. Le riserve in euro sono un credito registrato nella contabilità della BCE, attualmente congelato da quest’ultima. Stessa cosa per le riserve in dollari e in franchi svizzeri. Non è congelato l’oro che hanno accumulato, stimabile in circa il 20-30% delle riserve. Discorso diverso per le riserve in valuta cinese, ma va ricordato che i cinesi sono restii a far circolare troppa valuta fuori dal loro Paese».

Per monitorare le fasi della guerra, quali strumenti finanziari bisognerà tenere sotto controllo?

«Le Borse comunicano in tempo reale le percezioni dei mercati sulle tempistiche della guerra e ovviamente scontano gli scenari possibili. I futures sui tassi d’interesse sono un buon barometro per prezzare la durata delle ostilità. Si stanno registrando inoltre notevoli aumenti dei corsi dei prezzi di molte società canadesi, collegate al mondo dei fertilizzanti e della lavorazione delle materie prime. I più grandi produttori di fertilizzanti al mondo si trovano proprio tra Russia, Ucraina e Bielorussia. La diminuzione dei prezzi di oro, palladio e del petrolio potrebbe essere invece un segnale di avvicinamento alla tregua».

C’è una parola che fa paura alla politica europea: stagflazione.

«Ci siamo già dentro. Per il 2022 c’erano grandi speranze di ripresa, ma per l’Italia non chiuderemo molto sopra allo zero virgola. L’unico spiraglio di ottimismo è una saggia tolleranza europea per il deficit dei singoli Paesi. Nessuno in tempo di guerra si preoccupa dei bilanci pubblici».

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