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Arte, il Partenone e i suoi marmi: una bellezza senza tempo

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Esempio di una bellezza senza tempo, il Partenone esercita una suggestione che, anche questa, sembra durare in eterno. La sua rovina a causa di guerre e barbarie, suscita tuttora una gran pena mentre la controversia sulla proprietà dei suoi reperti sparsi fuori dalla Grecia è fonte di infiniti dibattiti. La sua rovina però, come si legge nel libro di Marta Boneschi dal titolo Il naufragio del Mentor. I marmi del Partenone e la guerra per il dominio d’Europa, edito dalla Luiss, è frutto anche di un grande amore, di una furiosa passione per l’arte antica: nei primi anni dell’Ottocento Lord Elgin spogliò il tempio per salvarne i pezzi più pregiati portandoli a Londra. Ne era convinto. Poco nota è la storia di come una parte dei marmi del Partenone, prelevati da Elgin, siano affondati nel mar Egeo, durante una tempesta di fine estate del 1802. È una storia d’avventure e disavventure, che vede coinvolte le più illustri personalità del tempo, oltre a Elgin: dall’ammiraglio Nelson al sultano Selim III, dallo scultore Antonio Canova al poeta George Byron, da Napoleone alla bella Emma Hamilton. Aveva ragione Lord Elgin? Quei marmi sono rubati o salvati? A chi appartengono i reperti dell’Acropoli di Atene? Se ne farà un’opinione il lettore, dopo aver esplorato questo capitolo così intenso della storia e della storia dell’arte europea.

Comincia così Il naufragio del Mentor. I marmi del Partenone e la guerra per il dominio d’Europa:

«Il cielo sereno sopra il Pireo e il mare immobile invitano il brigantino Mentor ad allontanarsi dal porto per ancorare in rada. È il pomeriggio del 15 settembre 1802 quando il capitano ordina la manovra. A quarantadue anni perlopiù spesi a navigare, lo scozzese William Eglen conosce i capricci del mar Egeo, come quelli del suo mare del Nord, dell’oceano Atlantico e di altri mari che ha attraversato. Al comando del Mentor ha solcato più volte quel bacino d’acqua inquieto che sta tra l’Anatolia e la Grecia, fitto di isole e battuto dai venti in ogni stagione dell’anno. 

Il brigantino resta alla fonda durante la notte. L’indomani, il 16 settembre, allo spuntare del sole alza le vele e prende il largo. Dal molo, Giovanni Battista Lusieri lo vede scivolare sull’acqua, sempre più piccolo. Don Tita – così è noto – è romano di nascita e pittore di paesaggi per professione. La sua figura alta, i profondi occhi neri, i folti baffoni e un’inconfondibile barbetta da capra sono ben conosciuti ad Atene, dove risiede e lavora ormai da un paio d’anni. Da quasi tre è al servizio del padrone del Mentor, Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, undicesimo conte di Kincardine, ambasciatore plenipotenziario di Sua Maestà britannica Giorgio III presso la Sublime Porta. Per conto del gran personaggio stimato dai turchi e inviso a Napoleone, Lusieri si prende cura dei marmi, le opere d’arte dell’Acropoli, di Atene e di altri luoghi della Grecia strappate al loro luogo d’origine e ammassate al porto, chiuse in decine e decine di casse in legno, in attesa di intraprendere il viaggio verso le coste britanniche. 

Con il Mentor un altro carico è partito, diciassette casse, una minima parte del gran tesoro che da oltre un anno va a comporre la collezione di Lord Elgin, ma un massimo ingombro per il piccolo brigantino. Don Tita si toglie un peso di dosso, in ritardo, e questo non riesce a perdonarselo, benché abbia fatto del suo meglio per evitarlo. Fare in fretta, fare in fretta, gli scrive quasi ogni giorno Lord Elgin, trattenuto a Costantinopoli dai suoi doveri di ambasciatore. Bisogna sgomberare quei tesori, allontanarli dalla Grecia ottomana, devono raggiungere Malta, possedimento britannico che presto sarà ceduto ai francesi, secondo il dettato della pace di Amiens, e non potrà più essere usato come base per i transiti britannici. 

Don Tita accantona in un angolo della mente i guai che nelle ultime settimane hanno ritardato la partenza del Mentor: il rifiuto del capitano Eglen di prendere a bordo le casse troppo lunghe, quelle contenenti i frammenti del fregio delle Panatenaiche, delicata opera di Fidia che illustra le feste in onore di Atena che si tenevano ogni anno tra luglio e agosto; l’equipaggio scontento e riottoso; la malaria in agguato, per non dire dell’ansia generata dalle lettere perentorie e minacciose di Lord Elgin, ma anche dal sospetto di essere spiati da agenti francesi, pronti a intralciare le spedizioni se non addirittura a mettere le mani sui marmi. E poi l’autunno in arrivo, la brutta stagione che dirada i viaggi per mare. 

Ora basta, il brigantino scivola sulle onde del golfo Saronico, non tornerà al Pireo per parecchio tempo. […]

Per tutta la giornata del 16 settembre il Mentor è baciato dalla buona stella, il tempo è stabile, il vento amico. Doppiato senza intoppi il capo, imbocca lo stretto di Cerigo (l’antica Citera) e alle sei del pomeriggio di quella giornata chiara e tranquilla avvista il Capo Tenaro che si stiracchia brullo, come un dito che indica laggiù, tanto lontana quanto invisibile, la costa africana della Cirenaica. È proprio da lì, da una grotta del Tenaro, ne erano certi gli antichi, che si penetra nell’Ade, il regno dei morti. 

All’imbrunire si alza però un vento cattivo che cambia direzione quasi ogni ora, poi un violento maestrale rovescia le onde sul ponte, la nave imbarca acqua e quando fa buio il Mentor, che è stracarico, diventa ingovernabile. Come accadde a Menelao, i “venti urlanti” lo spingono quaranta miglia a sud-est e rovesciano sul ponte tanta di quell’acqua che due solerti marinai vuotano a turno, ma senza apprezzabili risultati. È una tempesta e sembra invincibile, Poseidone irato non perdona. 

Sballottati e zuppi, i passeggeri e l’equipaggio sopportano una nottata di tremori e timori fino a quando, al mattino del 17 settembre, Eglen constata che le condizioni del tempo non accennano a migliorare e, anzi, il vento rinforza. Accoglie perciò il suggerimento di Manolis Malis, il pilota greco: prima di affondare o, nel migliore dei casi, di essere sospinti chissà dove, verso Creta o verso l’Africa, magari come toccò a Ulisse per nove giorni, sarà meglio puntare al porto più vicino. A Cerigo, suggerisce Malis, la Citera avvistata anche dall’eroe acheo, l’isola a sud di Capo Malea dove il porto di San Nicolò offre riparo, affacciato com’è su un’insenatura rivolta a sud-est, protetto dal monte di Aghios Georghios e forse dal santo in persona. 

Il maestrale non si è placato. Il capitano ordina di gettare le due ancore sotto il forte ottagonale di San Nicolò, che i greci chiamano Kastello, costruito tanto tempo prima dai veneziani. Già l’equipaggio e i passeggeri, squassa- ti tra le onde, provati dal mal di mare e dalla nottata insonne, pregustano la certezza della terra ferma. Ma no, il maestrale lancia una serie di raffiche inaspettate. Una dopo l’altra le ancore strappano le cime sotto la forza insolita del vento. “Riprendere subito il largo!” ordina Eglen, verso un ancoraggio più riparato, e il Mentor ritorna in balia di un mare furioso. Sulla perizia del capitano vince la crudeltà della tempesta. Sotto gli oc- chi degli abitanti di San Nicolò, il brigantino è trascinato verso la landa bassa e rocciosa che chiude la baia a oriente, e spinto contro gli scogli a fior d’acqua, con lo scafo squarciato su un fianco, affonda in pochi minuti a una ventina di metri di profondità. A metà del pomeriggio, del Mentor adagiato sul fondale spunta solo la cima dell’albero maestro».

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