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Appiah, filosofo cosmopolita e paradigma di libertà

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Kwame Anthony Appiah è un omosessuale americano di colore, discende da una famiglia aristocratica afro-britannica e parla inglese con l’accento della BBC che si impara nelle migliori scuole del Regno unito. Si può pensare, correttamente, che questi tratti ci dicano già qualcosa di lui.  

Appiah, professore di filosofia a New York, sa che certi argomenti contano: ha fatto carriera studiando concetti come negritudine e omosessualità, etichette sociali che ci guidano attraverso l’inafferrabile diversità dell’umanità – ma lui tiene a farci sapere che la maggior parte di esse sono solo pure sciocchezze.  

Prendiamo la razza. Thomas Jefferson, spesso presentato come il più illuminato dei pensatori americani, riteneva che le persone di colore olezzassero più dei bianchi, avessero bisogno di meno sonno e, pur avendo una buona memoria, non riuscissero a padroneggiare la geometria. Oggi nessuno può considerare una visione così sciocca e oltraggiosa come illuminata; ma, come sappiamo, era il prodotto di un tempo in cui i colonialisti bianchi avevano spacciato l’idea di una razza inferiore per giustificare lo sfruttamento di massa dello schiavismo. 

“La verità è che non ci sono razze”, ha dichiarato Appiah in un saggio del 1985 che gli è valso la fama tra filosofi e teorici sociali e la notorietà tra i suoi coetanei afro-americani. “I ‘bianchi’ hanno inventato i neri per dominarli”, ha scritto in seguito nel premiatissimo In My Father’s House (1992).  

L’argomentazione di Appiah è fondata sulla scienza. In natura ci sono poche opzioni e i biologi sanno che le variazioni nel colore della pelle non si correlano con altre caratteristiche ereditate e, tra i gruppi etnici, ci sono tante variazioni genetiche quante ce ne sono tra le persone. Questo non poteva associarsi, scriveva in quel libro, con l’idea di una “essenza razziale” che passasse dai genitori ai figli e influenzasse ogni aspetto della vita, dall’intelligenza alla prestanza, fino al talento musicale.  

Le conseguenze dell’idea di una essenza razziale sono state enormi, persino rivoluzionarie. Lo stigma della “falsità” è stata impresso sulla faccia dell’umanità e Appiah, un cosmopolita che aborre tutto ciò che impedisce di vedere la verità, è determinato a strapparla via con un colpo lancinante. I suoi critici hanno affermato che la posizione di Appiah equivale a dire che l’idea stessa di razza è una pura finzione. “Mi sono allontanato un po’ da quella – dice –. Ma solo un po’”.  

Un matrimonio da rotocalco 

Appiah possiede un allevamento di pecore nel New Jersey, ma ci incontriamo nel suo appartamento a New York, dove le pareti sono ricolme di libri, tra cui i 170 romanzi che deve leggere come presidente della giuria del Man Booker Prize di quest’anno.  

Ha delle regole su chi lasciar entrare in casa. I capi maya non sono i benvenuti: la quota è stata già superata. Né sono ammesse le opere d’arte britanniche: ne ha già una del “grandissimo ritrattista” Augustus John. Manufatti dalla Cina e da Cuba sono anch’essi fuori dalla lista. “Mi permetto aggiungere qualcosa a patto che provenga da qualche parte del mondo di cui non ho niente”, spiega Appiah.  

Il cosmopolitismo è un tratto che ha acquisito alla nascita. Il matrimonio dei suoi genitori è stato da rotocalco si dice che abbia in parte perfino ispirato Indovina chi viene a cena, il film sul matrimonio interrazziale con Katharine Hepburn, Spencer Tracy e Sidney Poitier. Il film uscì nel 1967, proprio l’anno in cui Thurgood Marshall divenne il primo afroamericano ad entrare nella corte suprema. Ma quando le nozze “reali” furono annunciate 14 anni prima a Londra, frantumarono le idee dei contemporanei sulla razza e le gerarchie nazionali.  

Peggy Cripps era la figlia dell’ex cancelliere laburista Sir Stafford Cripps; Joe Appiah era uno studente di legge e il rappresentante a Londra di Kwame Nkrumah, allora primo ministro della Costa d’Oro, al tempo ancora una colonia britannica. Cripps era determinato a combattere la censura razzista di alcuni suoi pari. “Se come europei incontriamo qualche difficoltà nel mescolarci, allora mi metterò dalla parte delle persone di colore”, disse al Sunday Express. Alcuni anni dopo la nascita di Kwame nel 1954, la Costa d’Oro divenne lo stato indipendente del Ghana.  

Tra il Ghana e il Gloucestershire 

Appiah si comporta con la facilità di un nativo e l’occhio critico di un estraneo. “È molto facile per qualcuno con il mio background essere relativamente rilassato [in diversi paesi]”, dice. “Ho imparato, molto giovane, il cambio di codice necessario a muoversi tra un posto e l’altro”. La prima parte della sua infanzia la trascorse nella città ghanese di Kumasi. La regione Ashanti, ricca di oro, aveva da tempo smesso di avere il suo impero, ma conservava tuttavia le tracce del suo antico status. Quando il re morì nel 1970, il suo successore fu un uomo che Appiah aveva conosciuto come zio Matthew. Gli Ashanti erano in buoni rapporti con i mercanti nigeriani e con i commercianti mediorientali. “Sembrava tutto così naturale ” ha scritto Appiah. “Non ricordo di essermi mai chiesto come mai queste persone si fossero stabilite tra noi di loro spontanea volontà per portare avanti le loro attività così lontano da casa”.  

Nel villaggio di Minchinhampton nel Gloucestershire, dove trascorse del tempo con la nonna mentre frequentava la scuola nel Dorset, la storia era diversa. Non c’era ostilità, ma “il colore della pelle e la discendenza africana che condividevo con le mie sorelle ci rendevano diversi” precisa Appiah. Anche alcuni anni fa, un partecipante alle conferenze di Appiah tenute all’Aristotelian Society di Londra si domandò a voce alta come un docente non bianco potesse padroneggiare così bene la lingua inglese. 

Le culture nazionali” sono un mix inscindibile 

“C’è un senso in questa domanda che è ovvio a chi è inglese, perché sono persone che sono state qui e vivono qui da sempre”, dice Appiah, rompendo un altro tabu sociale che ha un profondo significato per coloro che lo rivendicano e gli causa una pena indicibile quando viene negato. “È una novità, penso, per molti inglesi venire a sapere che, nel XVIII secolo, gli ebrei andavano e venivano senza problemi. Si dimentica che il Danelaw (un territorio controllato dai Vichinghi o Dani) si estendeva per gran parte del nord dell’Inghilterra e che l’Inghilterra è stata governata per molto tempo da gente che parlava una lingua norrena. 

“Dimenticano che i Romani hanno lasciato ogni tipo di traccia, che i Normanni sono arrivati in numero significativo e che la gente dall’Inghilterra è andata in Normandia. Dimenticano che, in effetti, qui c’è più mescolanza che altrove. “Appiah alzando un po’ il tono della voce aggiunge: “Questa mescolanza non era percepita perché la maggior parte delle persone che venivano nelle isole britanniche non aveva la pelle scura. Quindi la traccia della loro discendenza non è evidente sui volti delle persone”. 

Non c’è alcun modo di negare che l’inglesità esista, anche se l’accezione della maggior parte delle persone è di natura astorica. “Ci sono delle falsità, ma non c’è nulla di male nel lasciarle perdere”, dice. “Quando se vivi la tua vita e usi le identità… un intellettuale [che] continua a criticare e a ricercare i dettagli non è utile.  

“Tuttavia, qualunque sia la loro religione, sessualità, identità razziale o nazionalità,” le persone dovrebbero avere una mano più leggera nell’uso di queste categorie di identità in un modo tale che nei momenti in cui insorgono conflitti nelle nostre culture, questi possani essere in qualche modo disinnescati”.  

Il solo dir questo, afferma, potrebbe essere provocatorio. “Poiché le persone hanno a cuore la loro identità, puoi gettare un ponte per spingerle a prenderla un po’ meno sul serio di quanto facciano, ma c’è sempre il rischio di una reazione.  

“Ma nel complesso penso che ciò debba essere fatto e sono pronto a farlo, e poiché ritengo che quello che dico sia un elemento che corregge la visione dominante e moralmente superiore al punto di vista comune, penso che, più emerge in superficie, meglio è. 

New York e l’America 

Appiah pratica ciò che predica. In una famiglia come la sua, dice, “la razza non è l’asse principale della identità perché Christian, il mio nipote più grande, è alto e biondo mentre il mio primo nipotino è mezzo nigeriano e più scuro di me.” Per lui essere gay è stato un fattore importante quando era più giovane; allora scrisse lunghi saggi per difendere il matrimonio tra persone dello stesso sesso. 

Nel 2011, quando quella rivoluzione morale arrivò a New York, ne fu tra i primi beneficiari, insieme a Henry Finder, direttore editoriale di “The New Yorker” e suo partner da più di 25 anni. “Mi rendo conto che c’è molta omofobia nel mondo e ciò mi interessa per una questione di giustizia”, afferma a proposito. “Una ragione per cui non sono troppo preoccupato dell’identità gay è che non c’è molta omofobia nel mondo in cui vivo.” 

Essere americano, tuttavia, è qualcosa che Appiah prende molto sul serio. Questa è la nazione che ha scelto. Come scrittore ha cercato di influenzarla. Come una sorta di Maria de Filippi intellettuale – tiene una rubrica settimanale sul New York Times chiamata “The Ethicist” – offre consigli ai lettori che scrivono al quotidiano di New York. (“Il mio gatto può uscire se fa il prepotente con gli altri gatti?”, ha chiesto un lettore. La risposta di Appiah, più o meno è stata: “dipende.”) “Penso a me stesso come a un intellettuale – dice – come a qualcuno la cui principale vocazione è cercare di comprendere le cose e spiegarle ai propri concittadini. 

Ha insegnato nelle più prestigiose università degli Stati Uniti tra cui Yale, Harvard e Princeton, prima di trasferirsi nel 2014 al dipartimento di filosofia della New York University, dove è rimasto. Passare un anno negli Stati Uniti, quando aveva meno di vent’anni ed era ancora studente universitario a Cambridge (UK), non era una scelta ovvia. “È razzista ed è pericoloso, la gente viene aggredita in continuazione”, gli si diceva. “Assimilavo tutti questi stereotipi attraverso Kojak… Sono cresciuto leggendo Richard Wright [l’autore afro-americano i cui scritti hanno raccontato il radicato razzismo del paese], che in realtà è venuto a far visita alla mia famiglia quando ero bambino in Ghana”. 

Gli studi afro-americani e lo sbarco a Yale 

In Gran Bretagna, il suo lavoro si era concentrato su alcuni temi che richiamavano l’attenzione di appena poche centinaia di filosofi professionisti. Per guadagnarsi da vivere, iniziò a tenere corsi di studi afro-americani, prendendo così coscienza del crudo risentimento di un gruppo di persone oltraggiate ancora in lotta per far valere i loro diritti. 

Si era avvicinato a questo tema con l’occhio di un estraneo e il rigore di un logico. Era più disposto di alcuni storici americani ad approfondire la storia orale. “Leggere il materiale trascritto delle interviste con persone non istruite non era la loro idea di ricerca”, dice Appiah. “Ovviamente se chiedi agli ex schiavi di parlare della schiavitù, ottieni un’immagine diversa da quella che si ha leggendo gli archivi ufficiali”. 

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Rientrato in Gran Bretagna, dopo l’anno negli Usa, lavorò su una dissertazione dal titolo Conditions for Conditionals – “un’opera che non trovò un editore, pur essendo una profonda riflessione sulla logica filosofica” precisa – che lo lasciò amareggiato per la sua mancata diffusione. Poi arrivò una pausa. “Yale mi offrì… – si corregge – …stava cercando un esperto di filosofia e di studi afro-americani e non c’erano molte persone che avrebbero potuto essere prese in considerazione per questo posto. Allora ho fatto domanda e ottenuto il ruolo”. Sono passati sei anni da quando Appiah ha ottenuto da Barack Obama un riconoscimento nazionale per le scienze umanistiche con la motivazione di avere ricercato “le verità eterne nel mondo contemporaneo”. Da allora, il primo presidente di colore degli Stati Uniti è stato fatto oggetto di insulti razzisti che sostenevano esserci “persone molto più brave” tra i bianchi. È ancora realistico sperare che gli americani possano non preoccuparsi così tanto delle identità sociali divisive? 

Identità e libertà 

Appiah pensa che dovremmo avere una mano più leggera nell’uso delle categorie di identità. Trump ha perso il voto popolare. Un sondaggio svolto a giugno 2018 ha mostrato che sempre più americani pensano che l’immigrazione sia una buona cosa a confronto di quanti lo pensavamo quando Trump è entrato in carica. Città come Atlanta, New York e San Francisco sono tra le più diverse del mondo e la loro popolazione è in aumento. “Se vivessi nel Minnesota rurale, potrei essere… – sembra sul punto di dire – pessimista”, o qualcosa del genere, ma si ferma. I campus universitari del Minnesota, osserva, sono “pieni di studentesse bionde alte un metro e ottantacinque con origini norvegesi e svedesi, ma ci sono anche molte ragazze ghanesi e sembrano tutti perfettamente a loro agio in questa situazione”. 

La sua ragione ultima per l’ottimismo, tuttavia, sembra più che altro una concessione. Accettare che altre persone abbiano modi diversi di vita potrebbe anche significare che alcune di queste persone non accettino le tue. Gli Amish mandano via i loro figli a 16 anni, osserva, in modo che possano decidere da soli se scegliere la comunità chiusa della loro gioventù o il mondo di fuori. Anche se questo non va sempre bene per i bambini mal preparati a questa immersione, la pratica rende l’Amish “un paradigma di libertà, nonostante si possa pensare una cosa bizzarra da affermare”. 

Anche nella cerchia rarefatta di Appiah ci sono delle persone i cui interessi sono gretti e provinciali. La regina madre di Ashanti, una fonte eccezionale per i rotocalchi scandalistici, non aveva alcun interesse per ciò che avveniva fuori dal suo ambiente. “Per me va bene – dice Appiah –. In effetti sembra strano sentirmi dire che per me va bene, ma non sono affari miei.” 

Il mondo moderno, afferma, vuole un confronto tra le culture: “Sono ottimista sul fatto che ce ne sarà a sufficienza. Non chiediamo a tutti di essere cosmopoliti; sarebbe troppo poco cosmopolita “. 

 

Questo articolo contiene la traduzione del resoconto della conversazione avuta da Mark Vandevelde, il corrispondente dagli Stati Uniti del Financial Times, con Kwame Anthony Appiah in occasione dell’uscita del suo ultimo libro The Lies That Bind: Rethinking Identity, disponibile su Amazon. Il pezzo è stato pubblicato sul supplemento del weekend del Financial Time, Life & Arts. 

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