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Accadde Oggi – 11 luglio 1995: Srebrenica, 30 anni fa il genocidio che l’Europa non ha voluto vedere

Unsplasah

8.372. È questo il numero degli uomini e dei ragazzi bosniaci musulmani uccisi tra l’11 e il 19 luglio 1995 a Srebrenica. Torturati, giustiziati, sepolti in fosse comuni. Alcuni ancora vivi, caricati su camion come bestiame e scomparsi nel nulla. Avevano tra i 13 e i 70 anni. Civili inermi, sterminati perché musulmani. In quei giorni, mentre l’Europa voltava lo sguardo, nella Bosnia orientale si compiva un genocidio nel cuore del continente. Un crimine che ha frantumato ogni illusione sulla fine dell’orrore dopo il 1945.

Oggi, 11 luglio, ricorrono trent’anni da quella tragedia. Srebrenica non è solo un nome: è un monito, una vergogna collettiva perché simboleggia il fallimento di un’Europa che non ha saputo (o voluto) fermare l’odio etnico. Una ferita aperta nella coscienza del nostro tempo.

Trent’anni dopo, Srebrenica resta ancora una questione irrisolta, soprattutto nei balcani. In ampie parti della società serba e serbo-bosniaca, l’indifferenza, la negazione, il revisionismo – spesso alimentati da élite politiche e culturali – continuano a soffocare qualsiasi tentativo di memoria onesta, fatta eccezione per poche organizzazioni indipendenti e voci isolate che osano sfidare il silenzio. È vero: in ogni guerra si commettono atrocità e da ogni parte si versano sangue e innocenza.

Ma bisogna dirlo con chiarezza: ciò che accadde a Srebrenica non fu un semplice episodio tra tanti, non fu un “massacro come gli altri”. Fu un genocidio. Un piano lucido e sistematico, volto ad annientare l’intera popolazione maschile musulmana della città. Non dimenticare è l’unica forma di giustizia ancora possibile per quelle vittime.

Alcune foto delle vittime di Srebrenica

Cosa accadde: il crollo della Jugoslavia e la guerra in Bosnia

All’inizio degli anni ’90, la dissoluzione della Jugoslavia innescò una catena di guerre civili. Nel 1992, la Bosnia ed Erzegovina proclamò l’indipendenza, ma la convivenza fragile tra bosgnacchi musulmani, serbi ortodossi e croati cattolici si trasformò rapidamente in un conflitto etnico sanguinoso. I serbi di Bosnia, riuniti nella neonata Republika Srpska e sostenuti politicamente e militarmente da Belgrado, avviarono una campagna sistematica di pulizia etnica per creare territori “etnicamente omogenei”.

Ma, mentre l’attenzione del mondo si concentrava sull’assedio di Sarajevo – il più lungo in Europa dalla Seconda guerra mondialein altre zone della Bosnia si consumava una tragedia silenziosa e altrettanto devastante.

Tra le aree più vulnerabili c’era Srebrenica, cittadina a maggioranza musulmana nella valle del fiume Drina, nella Bosnia orientale. Una regione povera e isolata, ma strategicamente cruciale per i serbi perché si trovava a pochi chilometri dal confine con la nuova Repubblica Federale di Jugoslavia. Un tempo importante polo industriale jugoslavo, Srebrenica era nota per le sue miniere di salgemma e per la storica stazione termale. Nel 1993, l’Onu la dichiarò “zona sicura” attraverso la risoluzione 819, affidandone la protezione a circa 429 caschi blu olandesi. Srebrenica sarebbe dovuta essere un rifugio per decine di migliaia di civili in fuga dalla violenza. In realtà, divenne una trappola. La protezione promessa si rivelò una tragica illusione.

Profughi provenienti da tutta la regione si riversarono nell’enclave, ma l’area era già assediata dalle forze dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia. I caschi blu, privi di mezzi adeguati e di un reale mandato d’intervento, non furono in grado di opporsi. Mentre la comunità internazionale esitava, migliaia di vite venivano abbandonate alla mercé delle truppe guidate dal generale Ratko Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci, braccio armato di Radovan Karadžić, presidente della Republika Srpska dal 1992 al 1996.

Srebrenica, che doveva essere un’oasi neutrale sotto la tutela delle Nazioni Unite, divenne così il teatro del più grave genocidio avvenuto in Europa dopo la Shoah.

L’assedio e la caduta di Srebrenica

Il 6 luglio 1995 iniziò l’offensiva serbo-bosniaca. L’11 luglio, le truppe del generale Mladić entrarono a Srebrenica senza la resistenza dei caschi blu. Le immagini di quei momenti mostrano Mladić che accarezza bambini, sorride, promette protezione: una messa in scena cinica, mentre la macchina del genocidio era già in moto.

Mladic intento a “rassicurare” le donne

Gli uomini furono separati da donne, bambini e anziani. Apparentemente per essere interrogati, in realtà per essere giustiziati. Condotti nei boschi, nei magazzini, nei campi. Fucilati e sepolti in fosse comuni. Successivamente, molte di queste furono riaperte per disperdere i resti e rendere più difficile l’identificazione delle vittime. Alcuni corpi furono anche mutilati: ossa appartenenti alla stessa persona sono state rinvenute in più fosse diverse, anche a decine di chilometri di distanza.

La fuga e la “strada della morte”

Tra i 10.000 e i 15.000 uomini tentarono la fuga verso il territorio controllato dal governo di Sarajevo. Si incamminarono nella notte, attraverso foreste e colline, in una marcia disperata lunga oltre 100 chilometri. Molti furono intercettati, catturati e giustiziati. Altri si arresero, ingannati da falsi appelli alla resa, spesso diffusi con megafoni da soldati in uniforme Onu. Non furono mai più ritrovati.

Chi continuò la fuga percorse oltre 100 chilometri senza cibo né acqua. A Krizevačke Njive e Baljkovice si consumarono massacri sotto i bombardamenti. Solo una parte riuscì a sopravvivere.

La ricerca delle vittime

Trent’anni dopo, il dolore non si è attenuato. Circa 1.000 vittime risultano ancora disperse. E il recupero dei corpi non è affatto semplice a volte. Per nascondere le prove del genocidio, le truppe della Republika Srpska non solo trasferirono più volte i resti in fosse secondarie, ma in alcuni casi minarono deliberatamente le sepolture di massa per impedire ogni futura esumazione.

L’ultima fossa comune è stata scoperta nel 2021, a 180 chilometri da Srebrenica. Anche quest’anno, in occasione della commemorazione dell’11 luglio, verranno sepolti sette nuovi corpi tra cui due diciannovenni e una donna di 67 anni. Alcuni, come Mirzeta Karic, potranno seppellire solo un frammento: la mandibola del padre. Karic ha già sepolto 49 familiari: “questo funerale sarà il peggiore. Stiamo seppellendo un osso. Non riesco a descrivere il dolore” sono state le sue parole.

Ad oggi sono oltre 7.000 le vittime identificate attraverso il Dna ma ogni anno, nuove sepolture si aggiungono al Memoriale di Potočari. I resti continuano a riemergere. Il bilancio resta provvisorio. I funerali non sono finiti. E la ferita resta aperta con la memoria affidata a ossa sparse e al racconto di chi è sopravvissuto.

Le responsabilità dell’Onu e dei caschi blu olandesi

La comunità internazionale non fermò l’orrore. Anzi chiuse gli occhi e si girò di spalle. Le Nazioni Unite avevano dichiarato Srebrenica “zona protetta”, ma quando le truppe del generale Ratko Mladić sfondarono l’enclave l’11 luglio 1995, i circa 600 caschi blu, in larga parte olandesi del battaglione Dutchbat III, si trovarono impreparati e impotenti, senza mezzi né ordini chiari. Asserragliati nella base Onu di Potočari, non solo non opposero resistenza, ma in alcuni casi collaborarono passivamente alla separazione tra uomini, donne e bambini. Circa 350 uomini bosgnacchi che avevano cercato rifugio nel compound furono espulsi e consegnati ai serbo-bosniaci. Di loro non è rimasta traccia, se non nei registri delle vittime.

Nei giorni precedenti, il comandante olandese Thom Karremans aveva chiesto ripetutamente l’intervento aereo della Nato. Ma le sue richieste furono ignorate o respinte per cavilli procedurali, lentezze burocratiche e timori per l’incolumità dei militari Onu. Solo l’11 luglio, a città già occupata, due F-16 olandesi effettuarono un raid simbolico e inefficace. Pochi minuti dopo, l’allora ministro della Difesa olandese, Joris Voorhoeve, ordinò lo stop agli attacchi per paura di ritorsioni contro i caschi blu. Al ritorno in patria, i soldati olandesi furono travolti dalle polemiche. Per anni, l’Olanda evitò di partecipare a nuove missioni di pace. Solo nel 2002, un’inchiesta ufficiale portò l’intero governo olandese a dimettersi, assumendosi la responsabilità politica, ma non penale, per quanto accaduto. Le scuse ufficiali ai soldati – non alle vittime – arrivarono nel 2022 dal premier Mark Rutte, che definì la missione un “compito impossibile”. Nel 2019, la Corte Suprema dei Paesi Bassi ha riconosciuto una responsabilità del 10% per la morte dei 350 uomini espulsi dalla base di Potočari. Altri procedimenti legali, in sede civile, hanno condannato lo Stato olandese a risarcire i familiari delle vittime. Molte famiglie, però, hanno considerato queste sentenze e scuse tardive e parziali. Una giustizia incompleta.

Genocidio di Srebrenica: tra giustizia e negazionismo

Il genocidio di Srebrenica è stato riconosciuto come tale dalla Corte internazionale di giustizia e dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Non si trattò di un crimine improvvisato, ma dell’esecuzione pianificata e sistematica di una strategia politico-militare: eliminare la presenza musulmana dalla Bosnia orientale attraverso deportazioni, esecuzioni di massa e il terrore come strumento di annientamento.

Dal punto di vista giudiziario, l’Icty ha emesso 21 condanne per i crimini commessi a Srebrenica. Tra i principali responsabili, Ratko Mladić e Radovan Karadžić, entrambi condannati all’ergastolo per genocidio.

Le condanne del tribunale Icty

Accanto a loro, Ljubiša Beara, colonnello dell’esercito serbo-bosniaco e principale organizzatore delle esecuzioni. La sua figura è al centro del romanzo-documento Metodo Srebrenica dello scrittore Ivica Đikić, che ne racconta il fanatismo burocratico e il ruolo determinante nella macchina dello sterminio.

Ma la giustizia, da sola, non ha chiuso i conti con il passato. A trent’anni di distanza, il negazionismo continua a inquinare la memoria. In Serbia e soprattutto nella Republika Srpska – una delle tre entità che compongono la Bosnia-Erzegovina – le autorità politiche rifiutano ancora di definire i fatti di Srebrenica come genocidio, nonostante le sentenze internazionali. Una posizione che ostacola ogni processo di riconciliazione, alimentando il revisionismo e le tensioni etniche ancora irrisolte.

In questo contesto, il 23 maggio 2024, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato l’11 luglio Giornata internazionale di riflessione e commemorazione sul genocidio di Srebrenica. Una decisione simbolica e necessaria, accolta con favore dalla comunità internazionale, ma respinta con forza da Belgrado e da Banja Luka. Segno evidente che, trent’anni dopo, la battaglia per la verità non è ancora finita.

Ricordare Srebrenica: il dovere della memoria

Ricordare Srebrenica è un dovere. La Bosnia vive ancora con quella ferita aperta, sospesa tra il dovere di ricordare e il desiderio di andare avanti.

A Potočari, accanto all’ex base Onu, sorge il Memoriale delle vittime del genocidio: un luogo di silenzio, dolore e verità. A Sarajevo, invece, la “Galleria 11/07/95” è il primo memoriale permanente dedicato a Srebrenica. Inaugurata simbolicamente il 12 luglio 2012, raccoglie fotografie, video, oggetti e testimonianze che raccontano l’orrore di quei giorni.

Galleria 11/07/95 a Sarajevo

Non è una semplice esposizione, ma un percorso immersivo e coinvolgente, che invita ogni visitatore a diventare testimone attivo, a farsi carico della memoria e a comprenderne il peso. Chi scrive ha visitato quella galleria, e ne è uscito profondamente provato. Perché si può parlare di genocidio, leggerne e scriverne. Ma vedere con i propri occhi i volti delle vittime, le ossa recuperate, i documenti e le immagini di quei giorni cambia la prospettiva. Rende tutto più reale e più duro.

La mostra è il frutto di un lavoro collettivo, che coinvolge il Centro memoriale di Srebrenica, l’Associazione delle Madri delle Enclavi di Srebrenica e Žepa, il Genocide Film Library e il fotografo Tarik Samarah. Un lavoro di memoria che continua, giorno dopo giorno, contro l’oblio e contro ogni forma di negazionismo.

Nel 2020, la regista bosniaca Jasmila Žbanić ha firmato Quo vadis, Aida?, il primo film a raccontare in modo diretto il genocidio di Srebrenica. La pellicola – presentata in concorso alla 77ª Mostra del Cinema di Venezia e candidata all’Oscar come miglior film internazionale – segue la storia di Aida, una traduttrice bosniaca al servizio dell’Onu che, nei giorni dell’invasione serbo-bosniaca, cerca disperatamente di salvare la propria famiglia rifugiata nel campo di Potočari. Attraverso il suo sguardo, lo spettatore vive l’impotenza, la paura e la brutalità di quei giorni. Un racconto duro, asciutto, necessario.

In Italia, il trentennale sarà ricordato in mattinata alla Camera dei Deputati, in Sala Matteotti. L’iniziativa, promossa dal Senatore Pier Ferdinando Casini insieme alla Comunità della Bosnia ed Erzegovina a Roma, rappresenta un’occasione per affermare, anche da qui, il dovere della memoria.

Un monito per il presente

La guerra in Bosnia non è stata solo una tragedia del passato, ma un’anticipazione brutale di dinamiche che oggi vediamo riaffiorare: l’ipocrisia delle potenze occidentali, la manipolazione delle narrazioni, la deliberata confusione tra vittime e carnefici. Fu un laboratorio dell’impunità, in cui la comunità internazionale preferì voltarsi dall’altra parte.

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Nella sentenza sul genocidio di Srebrenica, il Tribunale penale internazionale dell’Aja è stato inequivocabile: “La scala e la natura dell’operazione omicida, l’impressionante numero di uccisioni, il carattere sistematico e organizzato della strage, e la volontà esplicita – documentata dalle prove – di eliminare ogni maschio bosniaco catturato o arresosi, dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che si è trattato di genocidio“.

Trent’anni dopo, il monito di Srebrenica è ancora attuale. Mentre in Europa si combatte ancora e i civili continuano a morire sotto i bombardamenti, il dovere della memoria non può essere disatteso.

Murales a Sarajevo

Ricordare Srebrenica significa comprendere tre verità fondamentali:

  • Primo: la pulizia etnica non è un’eccezione nella storia europea, ma una sua ricorrente deriva. I nazionalismi radicali hanno sempre tentato di imporre l’omogeneità attraverso l’esclusione violenta dell’altro.
  • Secondo: la comunità internazionale deve riconoscere i segnali d’allarme e agire tempestivamente. L’inerzia e l’ambiguità hanno un costo, e a Srebrenica il prezzo fu di 8.372 vite.
  • Terzo: la memoria non può essere passiva. Va coltivata attraverso l’educazione, il giornalismo, i musei, il racconto. Ricordare è il primo passo per riconoscere e fermare le ingiustizie del presente.

Srebrenica ci chiede di non dimenticare. Accadde ieri. E potrebbe accadere ancora. Solo la verità, la giustizia e la responsabilità collettiva possono impedire che “mai più” diventi l’ennesima promessa tradita.

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