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Trump, il peccato originale: rivelazioni sulle responsabilità democratiche della seconda elezione del tycoon

Imagoeconomica

Dopo che Donald Trump ha gettato nel caos l’economia e i mercati finanziari mondiali con la sua politica daziaria, ha colpito i dipendenti federali con un’ondata di licenziamenti senza precedenti, ha cercato di bloccare i visti per gli studenti stranieri iscritti all’università di Harvard (il provvedimento è stato congelato per un mese da un tribunale federale) e intende espellere quelli che ci studiano già distruggendo quella dinamica di brain drain che ha consentito agli Stati Uniti di porsi all’avanguardia mondiale in tutti i campi della ricerca, mentre il tycoon oscilla tra il cedimento ai diktat di Vladimir Putin e sterili minacce di ulteriori sanzioni alla Russia rispetto alla guerra in Ucraina e non è riuscito a risolvere la crisi a Gaza, in molti proseguono a chiedersi come sia stato mai possibile il ritorno di The Donald alla Casa Bianca per un secondo mandato.

In effetti, l’elezione alla presidenza di un candidato pregiudicato, inquisito in altri tre procedimenti penali, con complessivi 91 capi d’imputazione formulati contro di lui, fomentatore di un mancato colpo di Stato il 6 gennaio 2021, razzista, misogino e accusato di tentazioni dittatoriali persino da alcuni suoi ex collaboratori continua a fare discutere e a portare a concludere che il 3 novembre 2024 si sia verificata una sconfitta del partito democratico più che una vittoria di Trump.

Il capro espiatorio

Risulta estremamente facile addossare a Biden la responsabilità per la devastante débâcle democratica dello scorso novembre, trasformando l’ex inquilino della Casa Bianca dal salvatore della patria nel 2020, quando era riuscito a impedire che Trump venisse confermato alla guida degli Stati Uniti, ad affossatore delle possibilità di successo del proprio partito nel 2024.

Secondo questo ragionamento, Biden avrebbe dovuto essere un presidente di transizione, come lui stesso aveva lasciato intendere nel corso della campagna elettorale del 2020, e avrebbe dovuto mettere a frutto i suoi anni alla Casa Bianca per formare un proprio successore, atteggiandosi a padre nobile del partito democratico.

Invece, inebriato dalla vittoria su Trump nel 2020, avrebbe maturato la convinzione di essere insostituibile nonché l’unico candidato in grado di sbarrare a Trump la strada per una seconda presidenza, non avvedendosi né della sua età avanzata, né del proprio declino intellettivo, che gli rendeva sempre più difficile governare, né di essere stato semplicemente “fortunato”, per citare il titolo di una delle prime analisi sulle presidenziali del 2020 (Lucky: How Joe Biden Barely Won the Presidency, Crown, 2021).

I suoi autori, Jonathan Allen e Amie Parnes, attribuirono l’elezione di Biden nel 2020 a un complesso di circostanze favorevoli quali la colpevole sottovalutazione del covid-19 da parte di Trump nonché la recessione economica e l’alto numero di morti (che superarono la soglia dei 230.000 il 1° novembre, due giorni prima del voto) provocati dal coronavirus.
Tant’è che la pandemia sarebbe stata “la miglior cosa mai accaduta” a Biden, secondo la testimonianza di una sua autorevole e influente consigliera, Anita Dunn, raccolta da Allen e Parnes.

Invece, quattro anni dopo, l’ambizione sfrenata e la sopravvalutazione delle proprie capacità portò Biden non solo a ricandidarsi alla presidenza, impedendo che le primarie del partito democratico potessero diventare una palestra realmente competitiva per la scelta del suo successore, ma anche a rinviare il proprio ritiro dalla corsa per la Casa Bianca fino a 107 giorni dal voto, pregiudicando irreparabilmente la sfida di Kamala Harris a Trump a causa del poco tempo rimasto a disposizione dell’allora vicepresidente per condurre la campagna elettorale.

L’atto di accusa del giornalismo d’inchiesta

A rincarare la dose contro l’ex presidente sembra prestarsi un libro appena pubblicato da due giornalisti, Jack Tapper e Alex Thompson, Original Sin: President Biden’s Decline, Its Cover-up, and His Disastrous Choice to Run Again (Penguin Press).

Gli autori elencano tutta una serie di segnali che avrebbero dimostrato l’incontrovertibile decadimento delle prestazioni cognitive di Biden e, quindi, il gravissimo errore della sua ricandidatura. Il ventaglio degli episodi passati in rassegna spazia dall’incapacità di ricordare il nome dei suoi più stretti collaboratori (da quello del consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan a quello della direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca Kate Bedingfield), al non essere stato in grado di riconoscere l’attore George Clooney a una raccolta di fondi, all’aver scambiato l’Alabama con il Texas in una discussione sul diritto all’interruzione volontaria della gravidanza.

Quasi contemporaneamente alla pubblicazione di Original Sins, Axios – il sito di informazione per cui scrive Thompson – ha diffuso l’audio dell’interrogatorio di Biden nel 2023 davanti al procuratore speciale Robert Hur, incaricato dell’inchiesta sulla denuncia che l’ex presidente, quando era stato il vice di Barack Obama, aveva conservato in casa sua documenti secretati, violando la legge. Il rapporto di Hur scagionò Biden, definendolo “un anziano ben intenzionato con una cattiva memoria”.

Infatti, dalla registrazione emerge che Biden dimostrava tempi lunghi di reazione alle domande e divagava nelle risposte, non ricordava quando fosse morto il figlio Beau e aveva difficoltà a trovare le parole e a concludere le frasi.

Secondo un altro volume uscito all’inizio di aprile, Fight: Inside the Wildest Battle for the White House (HarperCollins) dei già menzionati Allen e Parnes, Biden sarebbe stato talmente spaesato nelle sue apparizioni pubbliche da avere bisogno di una guida fluorescente sul pavimento per raggiungere il leggio quando si trattava di tenere un discorso fuori dagli spazi a lui ancora familiari della Casa Bianca.

Al di là di fornire una raccolta di aneddoti sul crescente disorientamento di Biden, di cui il disastroso dibattito televisivo con Trump del 27 giugno 2024 fu la manifestazione più eclatante e visibile a milioni di elettori, Original Sin traccia l’operato di un “cerchio magico” – ribattezzato in maniera poco lusinghiera il “Politburo”, in riferimento all’ufficio politico del partito comunista, espressione della gerontocrazia sovietica – volto a nascondere al resto del mondo la gravità delle condizioni fisiche e intellettive dell’inquilino della Casa Bianca.

Tale costante azione di occultamento fu praticata non tanto per difendere il prestigio della presidenza, quanto per salvaguardare il potere dell’entourage di Biden, destinato a svanire nel caso di una sua uscita dalla scena politica.

Questo ristretto gruppo di collaboratori rarefece gli impegni pubblici dell’ex presidente per celarne meglio lo stato di salute e filtrò le informazioni che gli erano dirette, fino al punto da alimentare la sua illusione – ancora viva il giorno successivo alle elezioni, ma contraddetta dai sondaggi che non vide – che avrebbe battuto Trump se fosse rimasto in corsa. Soprattutto il “cerchio magico” mentì in modo spudorato e incontrovertibile sulla crescente infermità di Biden.

La Lady Macbeth della Casa Bianca

Jill Biden, la seconda moglie dell’ex presidente, emerge dalla ricostruzione di Original Sins come la figura più tenace nel negare l’evidenza e più determinata nello spingere il marito a restare in corsa per la Casa Bianca anche dopo che il confronto televisivo con Trump ne aveva dimostrato un senso di smarrimento spintosi fino alla difficoltà di formulare discorsi coerenti.

Maureen Dowd, in un commento sul New York Times, ha un po’ banalizzato la volontà di Jill di non perdere i benefici del suo ruolo pubblico, a partire dalla presunta gratificazione di apparire sulle copertine della rivista “Vogue”. A giudizio di Tapper e Thompson, i consulenti di Jill avrebbero contato di più dei consiglieri di Joe, mentre la moglie dell’ex presidente sarebbe stata addirittura “una delle first ladies più potenti della storia” e avrebbe guidato la Casa Bianca da dietro le quinte.

Per lungo tempo, secondo le fonti – spessissimo anonime – di Original Sin, il solo accennare che la “Dr. Biden”, come le piace farsi chiamare in virtù di un dottorato in scienze dell’educazione conseguito all’università del Delaware, non avrebbe apprezzato un tale genere di discorsi sarebbe stato sufficiente a troncare sul nascere qualsiasi discussione sulla possibile rinuncia di Joe Biden a candidarsi per un secondo mandato.

All’inizio di luglio del 2024, ben prima della pubblicazione di Original Sin, mentre il marito era ancora in corsa per la Casa Bianca, l’attaccamento al potere di Jill attraverso il coniuge aveva portato Kara Voght e Jesús Rodríguez, in un articolo del “Washington Post”, a paragonarla a Lady Macbeth, la manipolatrice del debole sovrano scozzese nella tragedia shakespeariana.

Il precedente di Edith Wilson

In realtà, a rivaleggiare con Jill per la palma di first lady più influente si erge sicuramente Edith Wilson, anche lei una seconda moglie, quella del democratico Woodrow Wilson. Durante la malattia del marito, rimasto semiparalizzato e immobilizzato a letto per le conseguenze di un ictus che lo aveva colpito il 2 ottobre 1919, per quasi un anno e mezzo Edith fece costantemente da tramite tra il presidente e i membri del governo, stabilendo lei quali affari di Stato dovessero essere sottoposti all’attenzione dell’inquilino della Casa Bianca e giungendo, secondo alcuni, persino a sovrintendere informalmente ad alcune riunioni di gabinetto che Woodrow era costretto a disertare.

Per la storica Mary Stockwell, Edith divenne di fatto il capo dello staff presidenziale. Wilson, e con lui la moglie, aspirava a ottenere un terzo mandato nelle elezioni del 1920 (ancora non era stato varato il XXII emendamento costituzionale che dal 1951 lo vieta), in considerazione anche dell’impasse che si sarebbe potuta verificare alla convenzione nazionale democratica, con i delegati equamente divisi tra tre aspiranti alla nomination: il governatore dell’Ohio James M. Cox (che alla fine l’ottenne), l’ex segretario del Tesoro William G. McAdoo Jr. e il procuratore generale A. Mitchell Palmer.

Tuttavia, constatate le sue condizioni di salute, la dirigenza del partito si rifiutò di prendere in considerazione una sua ulteriore candidatura.

Le responsabilità collettive

La campagna elettorale del 2024 racconta, invece, un’altra storia rispetto a quella del 1920. Non soltanto i più stretti collaboratori di Biden ma anche i leader democratici, compresa l’allora vicepresidente Kamala Harris, impedirono a lungo all’opinione pubblica e all’elettorato di conoscere quali fossero le reali condizioni di salute dell’ex presidente.

Alla fine, però, a costringerlo a ritirarsi non furono certo le tardive esternazioni di Nancy Pelosi, l’ex Speaker della Camera dei Rappresentanti di Washington, oppure la presa di distanza da parte dell’ex presidente Barack Obama, quando ormai il danno era stato fatto, cioè il dibattito televisivo con Trump aveva mostrato al mondo quello che il vertice del partito conosceva già. A indurre Biden a farsi da parte furono i finanziatori che congelarono le donazioni per la campagna democratica per non sprecare i loro fondi puntando su un candidato che non aveva alcuna possibilità di sconfiggere Trump.

La ricerca del sensazionalismo conduce gli autori di Fight a privilegiare le affermazioni ad effetto: a proposito della salute di Biden, Jonathan Reiner, consulente medico della Casa Bianca, sostiene che “il pubblico dovrebbe essere informato di tutta la verità, non di una verità selettiva”; per spiegare l’ostinazione di Biden a ricandidarsi, alludendo ai privilegi dell’incarico, Mike Donilon, il capo degli strateghi della campagna del 2024, dichiara che “nessuno lascia spontaneamente la Casa Bianca, l’aereo e l’elicottero”.

In questo ambito, Allen e Parnes si diffondono sulla mancanza di fiducia di Obama sia in Biden sia in Harris. Invece, Tapper e Thompson riportano il parere di uno dei responsabili della campagna elettorale di Harris, David Plouffe, secondo il quale il partito democratico sarebbe rimasto “fregato” dal comportamento di Biden, cioè dalla sua ricandidatura e dal suo ritiro tardivo.

Errori collegiali che ridimensionano quelli individuali

Esistono, però, dinamiche più profonde all’interno del partito democratico che aiutano a spiegare meglio la sconfitta di Harris nel 2024. Per paradosso, visto l’esito delle elezioni del 2024, Biden era un personaggio che faceva comodo ai democratici, una formazione divisa da tempo in due componenti contrapposte ma quasi equivalenti per peso – l’ala progressista e quella moderata – che riuscivano a trovare un punto di intesa solo nell’anti-trumpismo di cui il vecchio Joe era divenuto la personificazione.

Per evitare una resa dei conti tra queste due fazioni, causando una spaccatura che avrebbe potuto difficilmente ricomporsi prima del voto del 5 novembre e avrebbe quindi riconsegnato a Trump la presidenza su un vassoio d’argento, il ritiro di Biden non comportò una riapertura delle primarie per sostituirlo sulla scheda elettorale.

In pieno dispregio della democrazia interna e senza nessun tipo di consultazione della base del partito, con un’operazione assolutamente verticistica compiuta in nome dell’unità tra le forze di opposizione a Trump, la candidatura alla presidenza fu conferita a Harris quale scelta gerarchicamente naturale in quanto si trattava della vice di Biden alla Casa Bianca. Ma questo metodo deluse numerosi potenziali votanti democratici, allontanandoli dal partito e da Harris.

Inoltre, enfatizzando le menzogne propinate agli elettori dall’entourage di Biden e in particolare da sua moglie Jill nonché il ritardo di Joe nel rinunciare alla candidatura quali principali fattori della sconfitta del partito democratico nelle elezioni presidenziali del 2024, soprattutto Original Sin finisce quasi per assolvere Harris dalla responsabilità di avere contribuito a riportare Trump alla Casa Bianca, pur additandone la complicità nella congiura del silenzio sulla salute dell’ex presidente.

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In fondo, questa colpa appare ridimensionata dalla constatazione che, nell’assicurare che Biden fosse in grado di ricoprire un secondo mandato, Harris fu affiancata da numerosi altri esponenti del partito democratico come il governatore Gavin Newsom della California e la deputata Alexandra Ocasio-Cortez di New York. Verrebbe quasi da concludere: responsabili tutti, nessuno responsabile in particolare, a partire dalla stessa Harris.

Quando sono i contenuti politici a costituire il problema

Sulla sconfitta contro Trump, invece, ebbe un peso rilevante la formulazione di un programma contraddittorio rispetto ai valori tradizionali dei democratici proprio da parte di Harris.

Per esempio, malgrado il suo partito propugnasse da tempo una legislazione restrittiva sulla diffusione delle armi, Harris non si trattenne dal dichiarare di possedere una pistola Glock e che non avrebbe esitato a usarla per difendersi da intrusi che le fossero penetrati in casa.

In maniera analoga, il rifiuto esplicito di varare una carbon tax e di vietare il fracking (la compressione idraulica delle rocce per ricavarne idrocarburi, un processo con un impatto devastante sull’ambiente) la pose in contrasto con molti giovani sostenitori del Green New Deal quale politica più opportuna per affrontare la crisi climatica. Pure l’impegno a operare affinché le forze armate statunitensi restassero le più letali al mondo, espresso nel discorso di accettazione della candidatura alla Casa Bianca alla convenzione di Chicago, non si dimostrò ideale per mettere Harris in sintonia con gli elettori progressisti.

Per inseguire gli americani conservatori ma non reazionari strappandoli a The Donald (per esempio, nel 2023 solo il 38% degli elettori repubblicani riteneva che la diffusione delle armi fosse un problema, rispetto all’81% dei democratici), Harris “trumpizzò” in parte il programma del proprio partito, per parafrasare l’autorevole settimanale britannico “The Economist”. Così facendo, tuttavia, finì per perdere oltre sei milioni di voti popolari in confronto a quelli conquistati da Biden nel 2020, elettori che non necessariamente passarono dalla parte di Trump perché The Donald accrebbe il proprio seguito di poco più di 3 milioni di voti tra il 2020 e il 2024.

Ed è proprio dal programma che il partito democratico dovrà ripartire per mobilitare i propri sostenitori potenziali scontentati dalla svolta moderata di Harris, se vorrà tornare a essere competitivo alle urne, già in previsione delle elezioni di metà mandato del prossimo anno, quando saranno rinnovati l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato.

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STEFANO LUCONI insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787-2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619-2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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