La statista e la donna, l’austero e intransigente personaggio politico (apertamente contestato dal cinema engagè britannico degli anni ottanta e novanta) e la vecchia vedova malata di Alzheimer, la potenza e la fragilità, il ferro e il burro.
Sono proprio loro, il ferro e il burro, i due volti distanti e simmetricamente antitetici di un’unica medaglia, la Margaret Thatcher impersonata da una mimetica Meryl Streep, che il film di Phyllida Lloyd (già autrice di Mamma Mia, sempre con la Streep), in uscita nelle sale italiane il 27 gennaio, vuole raccontare agli spettatori.
Nel montaggio intrecciato, infatti, le immagini della carriera politica della “figlia del droghiere” (come la definivano con disprezzo alcuni avversari), dall’ascesa che la porterà a diventare la prima donna premier britannica fino alla caduta, passando per la guerra delle Falklands e lo sciopero a oltranza dei minatori (che si arresero senza condizioni, dopo un anno, alla linea dura della Thatcher), si alternano a quelle della dolce vedova ultraottantenne invasa dai ricordi di un passato glorioso, inerte rispetto alla sua stessa memoria, che immagina di vedere ancora il marito morto (interpretato dal premio Oscar Jim Broadbent), mentre fa colazione.
Il film, che forse paga un po’ la mancanza di una selezione, di una riduzione del campo che avrebbe comportato, a fronte di una minore estensione, una maggiore profondità e incisività negli argomenti, finisce così per disegnare un ritratto discontinuo, ma affascinante di una vita straordinaria, un quadro sfumato che in alcuni passaggi si imperla anche di interessanti riflessioni sull’esercizio del potere.
Non si può chiaramente non menzionare la solita, straordinaria Meryl Streep che riesce, nella sua assoluta aderenza al modello originale, ad arricchirlo di sfumature ulteriori, irradiando con la sua bravura l’intera pellicola. La sua meravigliosa interpretazione è stata già premiata con il suo ennesimo Golden Globe, e alla notte degli Oscar si presenterà da probabile favorita.