Il cessate il fuoco che è stato raggiunto nel conflitto militare tra Israele e Iran sembrerebbe un successo propagandistico di Donald Trump. Il condizionale è ovviamente d’obbligo, in quanto bisognerà vedere se la tregua verrà rispettata, a fronte della constatazione che la storia del Medio Oriente è costellata di accordi violati.
Rimane anche l’incognita se gli impianti iraniani per l’arricchimento dell’uranio a Fordow, Isfahane Natanz siano stati effettivamente distrutti, come The Donald ha immediatamente proclamato senza attendere riscontri obiettivi, o se siano stati più semplicemente danneggiati, come affermato in un rapporto preliminare su cui l’intelligence americana – investita dall’ira del tycoon – ha dovuto fare rapidamente marcia indietro.
Nell’immediato, però, il presidente che ambirebbe a conseguire il Nobel per la Pace e che non è stato capace di far terminare le guerre in Ucraina e nella striscia di Gaza in ventiquattro ore dal proprio insediamento, come aveva invece promesso durante la campagna elettorale del 2024 con una delle sue numerose spacconate, ha apparentemente segnato un punto a proprio favore.
L’ardore bellico di un aspirante al Nobel per la Pace
Il paradosso che Trump sia riuscito a presentarsi come figura di pace, dopo aver coinvolto gli Stati Uniti in uno scontro armato già in atto tra Israele e Iran con l’Operation Midnight Hammer, risulta del tutto in linea con la biografia di un personaggio che si è sempre dimostrato pronto a riscrivere la storia a proprio vantaggio.
Lo ha fatto, per esempio, nel caso dell’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, per impedire la certificazione ufficiale della vittoria di Joe Biden nelle presidenziali del 2020, tramutando alcune centinaia di facinorosi golpisti in “patrioti”, che ha poi prontamente provveduto a graziare dopo il suo ritorno alla Casa Bianca in quanto presunte vittime di una magistratura politicizzata a favore del partito democratico.
Del resto, nella campagna elettorale del 2020 il tycoon si era già dipinto come un presidente di pace in riferimento alla politica estera del suo primo mandato, facendo calare un velo di silenzio sull’attacco alla base militare dell’aviazione siriana ad al-Shayrat, il 7 aprile 2017, sull’aumento dei militari statunitensi impegnati nei combattimenti in Afghanistan nel 2017, sull’impiego della GBU 43 – al tempo il più potente ordigno non nucleare in possesso degli Stati Uniti – contro le forze del Wilaya Korashan e sull’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani, il 3 gennaio 2020, un omicidio che per alcuni giorni parve poter scatenare una guerra tra Teheran e Washington.
Neppure le bombe Gbu 57 ad alta penetrazione che Trump ha fatto sganciare sugli impianti di Fordow, Isfahan e Natanz, con il rischio di provocare una ulteriore escalation in un conflitto al quale fino a quel momento gli Stati Uniti non avevano preso parte attiva, collocano The Donald necessariamente in una posizione contraddittoria rispetto al Nobel al quale il tycoon è stato formalmente candidato da Buddy Carter, uno dei membri repubblicani della Georgia alla Camera dei Rappresentanti di Washington.
Ricordiamoci che il riconoscimento per la Pace annovera tra i suoi vincitori statunitensi anche Woodrow Wilson, il presidente democratico che fece entrare gli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, e Henry Kissinger, il consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato del repubblicano Richard M. Nixon che fu corresponsabile dell’allargamento della guerra del Vietnam alla Cambogia nel 1970 e fu implicato nel golpe che rovesciò la presidenza di Salvador Allende, portando al potere il generale Augusto Pinochet in Cile nel 1973.
L’ultimo americano insignito di questo premio in ordine di tempo è stato il democratico Barack Obama, il presidente che è stato più a lungo in guerra in tutta la storia del Paese e che, dopo aver ereditato due conflitti bellici dal suo predecessore, quella in Afghanistan e quella in Iraq, ha concluso solo il secondo, estendendo invece il coinvolgimento militare di Washington in Libia, Siria, Somalia e Yemen.
La ricerca della pace attraverso il ricorso alla forza militare
La narrativa trumpiana ha equiparato il bombardamento di Fordow, che ha fatto cessare quella che lo stesso tycoon ha ribattezzato la “guerra dei dodici giorni”, al lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che costrinse il Giappone alla resa e segnò l’atto conclusivo del secondo conflitto mondiale.
Questa impropria analogia appare richiamare la motivazione addotta da Wilson per giustificare l’ingresso degli Stati Uniti nella Grande guerra: dare un contributo determinante alla vittoria delle nazioni democratiche contro le potenze autocratiche (la Germania guglielmina e l’Austria-Ungheria), scongiurando lo scoppio di successivi scontri militari e trasformando così il primo conflitto mondiale nella “guerra per mettere fine a tutte le guerre”.
D’altra parte, l’idea di raggiungere la pace attraverso l’uso della forza armata ha attraversato l’intera storia degli Stati Uniti. Per esempio, sebbene fosse stato eletto alla Casa Bianca nel 1968 in base all’impegno a conseguire una “pace rapida e onorevole” nella guerra del Vietnam, Nixon prolungò la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto fino al 1973, perché era intenzionato a firmare la pace da una posizione di forza che gli permettesse di ritardare il più a lungo possibile la caduta del regime filostatunitense del Vietnam del Sud.
Lo stesso Trump ha già saggiato questa formula all’inizio della sua seconda presidenza, ammonendo più volte Hamas di liberare gli ostaggi israeliani, altrimenti Washington avrebbe scatenato “l’inferno”.
La convinzione che una superpotenza militare come gli Stati Uniti possa fare affidamento sulle operazioni belliche per risolvere le crisi e ripristinare condizioni di stabilità, anziché alimentare il disordine mondiale, è così radicata in Trump che, tra il serio e il faceto, The Donald ha proposto di ripristinare la denominazione storica del dipartimento della Difesa, tornando al nome originario di dipartimento della Guerra.
Una politica altalenante
L’intervento armato degli Stati Uniti contro l’Iran, breve nella sua durata e contenuto negli obiettivi, conferma anche l’imprevedibilità della politica di Trump, frutto non già di dilettantismo e improvvisazione, come gli rimproverano gli avversari, ma di una precisa volontà di affermarsi disorientando alleati, antagonisti e interlocutori in genere.
Nonostante i bellicosi proclami contro il regime di Teheran in tutte e tre le campagne elettorali per la Casa Bianca e l’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano l’8 maggio 2018, dall’inizio del secondo mandato The Donald era sembrato voler puntare su una soluzione diplomatica nei rapporti con Teheran, nel rispetto dell’impegno preso con gli americani a non coinvolgere gli Stati Uniti in guerre mediorientali “interminabili”.
A tal fine, aveva frenato per mesi Benjamin Netanyahu, desideroso di approfittare di una finestra di opportunità forse irripetibile (la caduta del regime di Assad in Siria e la disarticolazione di Hezbollah in Libano e di Hamas nella Striscia di Gaza), per cancellare con raid aerei e omicidi mirati il programma nucleare iraniano e forse anche per rovesciare la stessa teocrazia degli ayatollah.
Eppure Trump ha finito per cedere alle pressioni del premier israeliano e per dare il suo via libera alle operazioni militari di Gerusalemme. Al vertice del G7 in Canada The Donald aveva sottoscritto una risoluzione che auspicava la de-escalation nei “recenti sviluppi tra Israele e Iran”.
Però, la sua richiesta a Teheran di non limitarsi a congelare il programma di arricchimento dell’uranio, come raccomandato in precedenza, ma di smantellarlo tout court era un contributo all’escalation.
Come se non fosse bastato, due giorni prima degli attacchi statunitensi ai siti di Fordow, Isfahan e Natanz il presidente americano aveva dichiarato che avrebbe deciso nelle successive due settimane se impiegare la forza militare contro l’Iran, ma ha poi ordinato i bombardamenti poco più di quarantotto ore più tardi.
Inoltre, nel pomeriggio di domenica 22 giugno Trump aveva ventilato l’ipotesi di un cambiamento di regime in Iran, salvo rinnegare questa soluzione il giorno successivo. In tal modo, da una parte, l’attacco contro l’Iran ha scontentato una parte della base elettorale trumpiana, quella che ha ancora il proprio portavoce in Steve Bannon e interpreta gli slogan “America First” e “Make America Great Again” nei termini di un neoisolazionismo che consenta di reindirizzare le risorse del governo federale sulla risoluzione dei problemi interni, evitando di dilapidarle per effettuare campagne militari all’estero, soprattutto se condotte in regioni lontane.
Dall’altra, la rinuncia a sbarazzarsi della teocrazia al potere in Iran ha deluso i falchi dell’amministrazione, come il generale Michael Kurilla, comandante del Centcom (lo United States Central Command), e think tank iper-conservatori, come la Foundation for Defense of Democracies, che auspicavano di dare il colpo di grazia al regime di Teheran per stabilizzare il Medio Oriente, riplasmandolo attraverso la diffusione della democrazia liberale.
Il sovranismo interventista di The Donald
Ancora una volta Trump ha finito per sorprendere non solo i suoi critici ma anche i suoi sostenitori. Da un lato, si è dimostrato consapevole del fatto che i cambiamenti di regime nel Medio Oriente in passato si erano rivelati controproducenti per gli Stati Uniti.
In risposta agli attentati di al-Qaeda dell’11 settembre 2001, anche il presidente repubblicano George W. Bush si era proposto di portare la democrazia in questa regione, abbattendo il governo dei talebani in Afghanistan nel 2001 e la dittatura di Saddam Hussein in Iraq nel 2003.
La rapida vittoria militare, però, fece piombare entrambi i Paesi nel caos, provocando complessivamente 7.054 morti tra le forze armate statunitensi, senza riuscire a impedire né il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan, né lo scoppio di una guerra civile in Iraq, per certi aspetti non conclusasi neppure dopo l’insediamento di debolissimi governi filooccidentali.
Non andò meglio per Washington con il sostegno fornito da Obama alle primavere arabe. Per esempio, il rovesciamento di Hosni Mubarak in Egitto portò al governo in un primo momento Mohamed Morsi, legato all’organizzazione fondamentalista islamica e tutt’altro che filostatunitense dei Fratelli Musulmani, e poi alla presidenza autoritaria del generale Adel al-Sisi.
Ancora più svantaggiosa si rivelò nel 2011 la caduta di Mu’ammar Gheddafi, grazie soprattutto a un intervento della Nato, patrocinato da Washington, a protezione dei ribelli. La Libia, infatti, è divenuta uno Stato fallito, preda di fazioni che hanno dato vita a cruenti conflitti interni, e non espresse nessuna forma di gratitudine verso l’amministrazione Obama che aveva permesso al Paese di sbarazzarsi di un efferato dittatore.
Anzi, la Libia fu teatro di manifestazioni antiamericane, culminate l’11 settembre 2012 con l’assalto al consolato statunitense di Bengasi, nel corso del quale persero la vita l’ambasciatore degli Stati Uniti, J. Christopher Stevens, e tre persone del suo seguito.
Dall’altro lato, Trump non ha mai pensato a un vero arretramento dalla scena internazionale. The Donald è intenzionato a ristabilire la supremazia di Washington a livello planetario, sia pure attraverso un ripensamento del concetto di interesse nazionale, che declina in termini economici e di sicurezza degli Stati Uniti.
Di qui, l’abbandono di una visione etica in campo mondiale da perseguire con l’impiego delle forze armate all’estero, come avevano fatto i suoi predecessori, ma non la rinuncia agli interventi militari – sia pure circoscritti – quando è in gioco la sicurezza nazionale. Non a caso, in nome della difesa degli interessi economici degli Stati Uniti, all’inizio dello scorso gennaio, prima ancora di insediarsi per la seconda volta alla Casa Bianca, in una conferenza stampa a Mar-a-Lago, Trump non aveva escluso l’uso della forza per occupare il Canale di Panama e la Groenlandia, un progetto sicuramente fantapolitico ma comunque agli antipodi del neoisolazionismo raccomandato da Bennon.
Il presidente e i poteri di guerra
L’Operation Midnight Hammer ha comportato implicazioni anche per quanto riguarda le crescenti tendenze autoritarie dell’amministrazione Trump. L’intervento militare contro l’Iran, infatti, è stato condotto senza l’autorizzazione del Congresso.
Ha, pertanto, suscitato l’indignazione e le proteste dei democratici, alcuni dei quali hanno addirittura lanciato la proposta di intraprendere una terza procedura di impeachment contro The Donald, un’iniziativa del tutto velleitaria e meramente propagandistica – al pari delle due precedenti – perché il partito repubblicano è in maggioranza al Senato e i propugnatori della messa in stato di accusa del presidente non disporrebbero quindi dei voti per condannare e destituire Trump.
La faccenda della costituzionalità dell’attacco contro l’Iran merita, comunque, attenzione in quanto getta luce sui metodi di governo del tycoon.
I precedenti storici
La sezione 2 del secondo articolo della Costituzione federale assegna al presidente il comando delle forze armate, ma la sezione 8 del primo articolo conferisce al Congresso il potere di dichiarare la guerra.
In passato, oltre all’ingresso nei due conflitti mondiali, sia la partecipazione degli Stati Uniti alla prima guerra del Golfo per la liberazione del Kuwait dall’occupazione irachena nel 1991, sia le operazioni militari per rovesciare Saddam Hussein nel 2003, avvennero in ragione di risoluzioni approvata dal Congresso.
Anche l’intervento in Afghanistan nel 2001 era coperto dal consenso di deputati e senatori all’uso della forza, in questo caso contro i responsabili degli attentati terroristici dell’11 settembre. Tuttavia, a partire dall’inizio del Novecento gli Stati Uniti hanno assistito a un progressivo, ancorché incostante, spostamento dei war powers dal Congresso alla Casa Bianca.
A iniziare ad avocare a sé i poteri di guerra fu il repubblicano William McKinley, non a caso uno dei presidenti più stimati da Trump. Nel 1900, McKinley aggregò truppe statunitensi al contingente internazionale incaricato di liberare dall’assedio il quartiere delle legazioni straniere a Pechino e di sedare la rivolta dei Boxer nell’Impero Cinese.
Lo fece senza domandare l’assenso del Congresso, con il pretesto che l’operazione militare era estremamente urgente e non c’era tempo sufficiente per convocare senatori e deputati e per discutere sull’opportunità della partecipazione dei soldati americani.
Il democratico Harry S. Truman non chiese al Congresso una dichiarazione di guerra per l’intervento nel conflitto in Corea nel 1950, giustificandosi con il fatto che le operazioni belliche erano scattate in applicazione di una risoluzione delle Nazioni Unite a cui gli Stati Uniti non potevano sottrarsi in quanto membri di questa organizzazione.
In seguito, il Congresso concesse preventivamente carta bianca al repubblicano Dwight D. Eisenhower nel 1954, per fronteggiare un possibile attacco della Repubblica Popolare Cinese contro Taiwan, e a Lyndon B. Johnson nel 1964, per contrastare future incursioni delle forze nordvietnamite contro i militari statunitensi nel sudest asiatico, ponendo le premesse legali per la partecipazione diretta di Washington alla guerra del Vietnam.
Invece, nel 1973, approfittando dell’indebolimento di Nixon a causa dello scandalo del Watergate, il Congresso approvò una risoluzione sui poteri di guerra, ancora oggi in vigore, in base alla quale il presidente è tenuto a comunicare a deputati e senatori l’impiego delle forze armate al di fuori dei confini nazionali e a ritirarle entro 60 giorni, prorogabili a 90 in particolari circostanze, in assenza di una autorizzazione dei legislatori.
Nondimeno, nel 2011, Obama si rifiutò di chiedere al Congresso il benestare per la partecipazione dei militari statunitensi ai raid per impedire all’aviazione di Gheddafi di colpire gli insorti, operazioni che durarono oltre sette mesi, dal 19 marzo al 31 ottobre.
Secondo il presidente, l’applicazione della no-fly zone sulla Libia era stata deliberata dal consiglio della Nato e, dopo che il Senato aveva ratificato l’adesione degli Stati Uniti al Patto Atlantico nel 1949, Washington era vincolata alle decisioni di questa alleanza militare e il governo federale non poteva chiamare in causa il Congresso per sindacare le singole scelte.
Poteri di guerra e “stato di eccezione”
In apparenza, l’attacco statunitense contro l’Iran rientrerebbe legittimamente nell’ambito di quanto previsto dalla disposizione del 1973. Il bombardamento degli impianti di Fordow, Isfahan e Natanz non si configura di per se stesso come una guerra perché è stato un intervento estremamente limitato nello spazio e nel tempo.
Inoltre, il potere del Congresso di dichiarare la guerra non è mai stato interpretato, né dai legislatori né dall’esecutivo, nel senso che senatori e deputati debbano autorizzare qualsiasi azione militare all’estero.
Infine, il secondo articolo della Costituzione conferisce al presidente la prerogativa di impiegare le forze armate per difendere gli Stati Uniti e i cittadini americani da attacchi non solo già in corso ma anche imminenti nonché per proteggere e promuovere gli interessi nazionali. Però, proprio qui si colloca il punto essenziale della questione costituzionale. Il nodo è in quale misura il programma iraniano di arricchimento dell’uranio costituisse realmente una minaccia.
Secondo Tulsi Gabbard, la direttrice dell’intelligence di Washington, il regime di Teheran sarebbe stato ancora lontano dalla capacità di assemblare un ordigno atomico, anche se poi Trump l’ha costretta a smentire la sua valutazione iniziale e ad allinearsi alle posizioni di chi dichiarava che era imminente il raggiungimento di un potenziale nucleare da parte dell’Iran.
Come nel caso della presunta “invasione” dei clandestini per procedere con le deportazioni di massa, le premesse dell’Operation Midnight Hammer hanno attestato ancora una volta l’orientamento di Trump a creare in modo artificioso ipotetiche emergenze nazionali per avvalersi di poteri previsti sì dalla Costituzione e dalle leggi vigenti ma soltanto in circostanze di speciale gravità.
Si tratta di una metodologia estremamente pericolosa per la democrazia, perché sembra quasi trarre ispirazione dal concetto di “stato d’eccezione”, formulato dal giurista nazista Carl Schmitt per legittimare la sospensione delle garanzie dello Stato di diritto.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).