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Gaza e Cisgiordania, le due decisioni di Israele “distruggono ogni speranza di pace” ma nessuno dei due contendenti vincerà: parla Silvestri (Iai)

FIRSTonline

“Due decisioni drammatiche prese da Israele, l’approvazione del piano E1 per nuovi massicci insediamenti in Cisgiordania e l’inizio dell’operazione militare per l’occupazione di Gaza, distruggono ogni speranza di trattativa e di chiusura politica del conflitto Israelo-palestinese e lasciano aperta solo la via della guerra totale. Una guerra, peraltro, che non ha alcuna speranza di poter essere vinta dall’una o dall’altra fazione con la completa “debellatio” del nemico e l’accettazione generale delle ragioni del vincitore, se non altro perché gran parte degli sponsor e degli alleati dei due campi non sono direttamente coinvolti”. Il professore Stefano Silvestri, esperto di geopolitica e consulente di affari internazionali per l’Istituto di ricerca Iai, che ha presieduto per lunghi anni, non riesce a essere ottimista nemmeno un poco nella conversazione con FIRSTonline sugli ultimi avvenimenti nella Striscia di Gaza.

I fatti in realtà sono particolarmente crudi e non indulgono a facili speranze. Partiamo dal piano E1 (East 1), cui accenna il prof Silvestri. Si tratta di un progetto di insediamento che prevede la costruzione di circa 3.400 abitazioni per nuovi coloni in un’area di 12 chilometri quadrati, disegnata come corridoio negli anni Novanta, a est di Gerusalemme, ma che se sarà così ricostruita e abitata dagli israeliani, spezzando in due la Cisgiordania. Una decisione “storica”, secondo il  ministro ultra ortodosso Smotrich, che metterebbe fine per sempre alla nascita di uno Stato unito di Palestina. Il “chiodo nella bara dell’idea dei due Stati”, come si è espresso. 

A questo va aggiunto che l’esercito israeliano si è messo in moto iniziando a circondare Gaza per occuparla definitivamente. E che non sia solo propaganda lo dimostra il fatto che 60mila riservisti, cioè civili che hanno fatto il servizio militare obbligatorio, siano stati richiamati e dovranno presentarsi in caserma, per partecipare all’operazione, entro il 2 settembre. Anche questo piano è stato denominato biblicamente “Carri di Gedeone” (il secondo, visto che il primo era quello che aveva portato all’occupazione di primavera) e prevede che si arrivi a mettere in campo 130mila soldati. Prevede di occupare in realtà solo il 25% del territorio della Striscia, dato che il 75% è già nelle mani di Israele, ma è l’area dove vive la grande maggioranza della popolazione palestinese sfollata; vale a dire la città di Gaza e le due zone costiere attorno a Deir al Balah e al Mawasi, dove si trovano i grandi campi profughi. Finora questa zona era stata risparmiata perché si temeva  ( e si teme) che lì fossero tenuti in ostaggio i rapiti del 7 ottobre, dei quali si ritiene che in vita ne restino almeno 24. 

Prof perché lei trova la situazione (quasi) senza speranza? 

“Perché fino a quando non ci sarà il riconoscimento l’uno dell’altro, se palestinesi e israeliani continueranno a volere solo la reciproca distruzione, sarà impossibile trovare soluzione. Non c’è spazio per la pace in questa condizione. E non si arriva da nessuna parte nemmeno con i soli atti di guerra. Intendo dire che nessuno dei due arriverà a distruggere l’altro, né se usa la via del terrorismo, come hanno fatto i palestinesi finora; e neppure se percorre la strada del conflitto aperto, la distruzione totale dei territori e l’affamare delle popolazioni, come ha scelto di fare il governo di Israele. Perché anche per Israele, il più forte protagonista militare in questo momento in Medio Oriente, questa è una guerra limitata. Netanyahu non può portare una guerra totale, non può andare fino in fondo perché comunque deve tenere conto degli equilibri e degli interessi delle potenze in quell’area, e fuori di quell’area.”

Come potrebbe procedere la comunità internazionale in una situazione disperata come questa?

“La cosa più difficile, una strada che non si è mai riusciti a percorrere fino in fondo: bisognerebbe offrire ai palestinesi e agli israeliani una prospettiva politica completamente diversa da quella che è stata loro offerta dai vai padrini politici. E cioè che mai potranno raggiungere la vittoria frontale. Vale a dire l’eliminazione dell’altro. E’ da qui che si deve partire, con il convincere i due protagonisti che, trascorsi ormai quasi 80 anni da quando è stato disegnato quel pezzo di terra, non hanno raggiunto nulla dallo scontro frontale. Aggiungo una cosa: al di là dei chiodi nelle tombe di cui ha parlato il ministro Smotrich io penso ancora che la soluzione dei due Stati possa essere un obiettivo, anche se mi rifiuto di entrare nel merito di come essi debbano essere concepiti”.

Difficile pensarlo vista la situazione… Come si può arrivare a questo? 

“Il primo passo lo dovrebbe fare Israele. Dura da pensare e da dire, ma è così. Gli israeliani potrebbero obiettare che mai accetteranno di avere come amministratori di uno Stato vicino gli stessi che hanno condotto gli attacchi terroristici del 7 ottobre. Comprensibile. Ma non è questo che si chiede a Israele, si chiede solo di accettare la prospettiva dei due Stati. Poi verranno i dettagli. Perché lo dovrebbe fare Israele? Perché è il più forte. E perché in questo modo offrirebbe agli Stati arabi una sponda per proseguire sulla strada. Altrimenti essi resteranno  incastrati in una inerzia che di fatto aiuta  Hamas.”

Netanyahu però ha scelto tutt’altra via…

“Già. Ecco perché siamo di fronte a una tragedia. Con il pericolo che un governo scellerato come quello di Netanyahu rappresenti tutto un popolo con i rischi di antisemitismo ai quali già stiamo assistendo. Per fermare tutto questo, potrebbe avere un ruolo importante Trump. Essendo il principale alleato di Netanyahu ed essendo l’uomo talmente imprendibile ed egocentrico che potrebbe anche sparigliare le carte se si convince che gli viene lustro dallo spingere  l’israeliano sulla strada dell’unica politica giusta, quella dei due Stati. Ma a dire il vero e conoscendolo un po’, Trump potrebbe anche peggiorare la situazione del tutto, sostenendo il neo imperialismo di Tel Aviv fino in fondo. Chi può dirlo?”

Professore, potrebbe aiutare a sbrogliare la matassa riconoscere la Palestina come Stato? Lo hanno fatto i tre quarti dei Paesi dell’Onu, ma non l’Italia. E per questo 70 ambasciatori hanno firmato un appello..

“Il riconoscimento della Palestina in un certo senso io lo trovo assurdo perché riconosceremmo legittimità alla leadership dei terroristi di Hamas che in questo momento restano i capi della Palestina. Però nello stesso tempo capisco la logica di dire: dobbiamo dare una scossa a Israele che non può pensare di poter continuare a fare tutto quello che vuole. Quindi penso che il riconoscimento della Palestina sia una proposta  estremamente ambigua e andrebbe molto circoscritta sul piano politico. Vale a dire: riconosciamo il diritto del popolo palestinese a un altro Stato e riconosciamo in questo senso l’ l’esistenza dello Stato palestinese, ma non vogliamo  avere rapporti con l’attuale leadership politica. Non sarà facilissimo fare questa distinzione, onestamente. Insomma se il tentativo è quello di smuovere le acque e dire a Israele che non  può ignorare l’esistenza dei palestinesi, va benissimo. È un messaggio forte, ma a mio parere dovrebbe essere ben gestito. Altrimenti lascia il tempo che trova nel migliore dei casi. E nei peggiori rischia di far nascere altri bubboni amministrativi clientelari e corrotti. Insomma resto dell’idea  che è prioritario il cambiamento della prospettiva politica: se l’unico obiettivo di israeliani e palestinesi rimane la capitolazione l’uno dell’altro saremo sempre lontano dalla risoluzione del problema, con annesse tragedie umane e politiche”.

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