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Donbass, perchè Putin vuole a tutti i costi questa parte dell’Ucraina? È il carbone che fa gola alla Russia

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Perché Putin potrebbe accettare di ritirarsi dall’Ucraina in cambio soltanto del Donbass? Intanto, bisogna chiarire che per Donbass si intende tutta l’area dell’Ucraina orientale, non solo i territori delle due Repubbliche separatiste riconosciute prima dell’invasione, cioè Donetsk e Lugansk, ma anche Dnipropetrovsk, completando così la zona cuscinetto russofona. Più o meno cinque milioni di persone, la maggioranza delle quali, è stato notato, vive in estrema povertà.

Se ne sta parlando molto in questi giorni. E gli analisti si dividono: chi chiedendosi se non sia poco (la Russia vorrebbe tutta l’Ucraina); chi se non sia inutile, perché è la stessa soluzione abortita prevista dopo la guerra del 2014 (vedi Protocollo di Minsk); chi se non sia presto per fermare le armi (Putin e Zelensky vogliono guadagnare di più dal campo di battaglia).

Il Donbass e il carbone

Tutte considerazioni legittime, ma nessuna di esse tiene conto di che cosa sia stato per la storia della Russia il Donbass. E che cosa potrebbe ancora essere. L’esempio usato dagli studiosi è quello che chiarisce meglio: il Donbass è stato per l’Unione Sovietica quello che la Ruhr fu per la Germania, il centro della rivoluzione industriale. E anche oggi che l’estrazione è diminuita di oltre un terzo per colpa del conflitto, che, come si sa, dura nella zona da otto anni, il Donbass resta una regione mineraria fra le più importanti del mondo. Sarebbe del tutto plausibile allora se l’area restasse per Putin il terreno dello scambio, sempre che Zelensky lo accettasse.

Vediamo i numeri. Oggi dal bacino del fiume Donetsk, da cui prende il nome la regione, vengono estratti ogni anno 10 milioni di tonnellate di carbone: erano oltre 64 milioni prima del 2013, cifra che poneva l’Ucraina fra i primi dieci Paesi produttori del minerale al mondo. Anche così decurtata, si tratta di un bella quantità, pronta a crescere appena si tornasse al ritmo normale delle estrazioni. Che prima di ogni cosa vuol dire, è ovvio, fermare la guerra.

Per chi si fosse fatto l’idea che il carbone sia una fonte di energia del passato, ricordiamo che, secondo l’ultimo rapporto del World Energy Council, riportato da Susan Harmon, sul sito Ripley Believes, “il carbone resta la chiave per la struttura mondiale dell’energia”, rappresentando “circa il 40% della produzione mondiale di elettricità”. Tanto che gli esperti ritengono che presto sostituirà il petrolio e diventerà la più grande fonte di energia primaria. Le riserve di carbone sono stimate in 869 miliardi di tonnellate in base all’attuale tasso di produzione. “Ciò significa – conclude Harmon – che il carbone dovrebbe durare circa 115 anni in più rispetto alle riserve convenzionali di petrolio e gas.

Non è una buona notizia per il pianeta, ma questa è un’altra storia. E comunque non deve essere nelle preoccupazioni di Putin, che vuole quelle miniere esattamente come voleva (e si è preso) la Crimea. Alla base delle sue pretese c’è il solito ragionamento: il Donbass (pardon, il carbone) è stato sempre nostro, poiché il Paese era uno solo; quindi, lo rivoglio.

I rapporti storici fra Russia e Ucraina

Vale la pena a questo punto mettere un po’ d’ordine in questa storia del Paese unico, che è un po’ vera e un po’ no, come tutte quelle che si raccontano sui rapporti fra ucraini e russi, che non sono mai scorsi come un lungo fiume tranquillo, come vorrebbero le leggende sull’unità dei fratelli slavi. Per esempio, proprio nel periodo in cui i grandi e ricchi giacimenti di carbone venivano scoperti nel 1721, Kiev stava combattendo per resistere a uno degli abbracci del potente vicino, che all’epoca si chiamava Pietro il Grande, l’idolo di Putin. Andò come andò, cioè male per gli ucraini. E i rapporti sono continuati così fra i due “fratelli”, altalenanti negli anni fra una pace e una guerra, fino all’ultima campana, quella che ha suonato trent’anni fa, quando la bandiera dell’Urss è stata ammainata e l’Ucraina si è incamminata su un sentiero politico diverso da quello della Russia. Come, in verità, hanno provato a fare anche le altre Repubbliche della ex Urss.

La sfera d’influenza della Russia

È interessante a questo proposito soffermarsi su un’altra leggenda, quella che Putin ama più di tutte. Quella secondo la quale la Russia, dopo l’implosione dell’impero comunista, sia rimasta priva di zone di influenza, e quindi esposta alla pressione occidentale, che si chiami Nato o Ue. Delle 15 Repubbliche che facevano parte dell’Urss, compresa la Russia ed eccetto le tre Baltiche – Lituania, Lettonia ed Estonia, che, grazie anche alla loro storia, hanno fatto in fretta ad allontanarsi da Mosca, entrando subito in Europa – per tutte le altre, a tutt’oggi continua a essere complicato uscire da quella storia. Alcune sono ancora completamente asservite al potere russo (Bielorussia); altre devono stare attente a come si muovono nello scegliere amici e nemici (Armenia, Azerbaijan, Moldavia); altre ancora, come le Repubbliche asiatiche (Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, Kirghizistan) hanno barattato una certa quantità di libertà interna con una sottomissione totale a livello economico e strategico; mentre contro le più ribelli, Ucraina e Georgia, si sono usate e si stanno usando i carri armati per impedire loro di scegliere il proprio modo di vivere. Come si chiamano queste se non sfere di influenza?

La Russia e la Nato

Insomma, è vero che, come sostiene Putin da anni, e come generosamente hanno concesso molti analisti occidentali, la Nato si è pericolosamente avvicinata ai confini russi, visto che tutti i Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia, tranne la Russia, ora sono membri dell’Alleanza militare antagonista; ma sono altrettanto vere altre due considerazioni. La prima riguarda proprio i confini: su 20mila chilometri di frontiere la Russia ne condivide 1.215 con un membro della Alleanza. L’altra considerazione è che la Nato che immagina Putin non esiste più: nel 1989, quando il mondo sovietico cominciava a scricchiolare, l’Alleanza schierava in Europa oltre 300mila soldati; l’anno scorso ne sono stati contati poco più di 60mila. Un po’ poco per parlare di accerchiamento.

Infine, tornando al Donbass, forse la causa più profonda della guerra della Russia all’Ucraina sta proprio nella perdita di quelle miniere. Dopo tutto, i conflitti nella storia umana sono sempre stati aperti e condotti per motivazioni economiche ammantate da sovrastrutture ideologiche. È probabile che più che i cittadini russi maltrattati dai governanti ucraini “nazisti” (o l’accerchiamento fantasma della Nato) debba essere stato il carbone perduto a indignare Putin. E forse proprio quel carbone ora potrebbe contribuire a chiudere il conflitto. Sempre che Zelensky, come abbiamo accennato, accetti di privarsene, perché anche per l’Ucraina quelle miniere hanno un valore economico enorme, oltre al fatto che non sono più russe, checché ne pensi Putin. Ma tutto questo potrebbe far parte delle trattative di pace: una soluzione si trova sempre, se si vogliono far tacere le armi. Per ora il problema è solo questo.

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