In attesa di valutare nelle prossime settimane i primi effetti reali dei dazi in vigore dallo scorso 1° agosto, sia sull’export diretto verso gli Stati Uniti sia in relazione alle commesse estere che vanno ad alimentare le grandi catene di fornitura globali, per l’economia europea resta sul tavolo la questione principale: sarà possibile normalizzare i rapporti con la Casa Bianca? Il rischio, anticipato già da molti osservatori, è che questo allargamento profondo nei rapporti euro-atlantici innesti in un processo – forse ancora più pericoloso – di smarrimento politico proprio all’interno dell’Unione europea, stretta tra crisi economiche interne (Francia e Germania) e partiti euroscettici che un po’ alla volta stanno prendendo il largo nelle democrazie del Vecchio Continente.
“Gli accordi annunciati sui dazi sono ancora approssimativi, quindi è facile che ci saranno differenze man mano che si vanno a stabilire i dettagli. Questo riguarda le regole per alcuni settori ma anche la questione degli investimenti, visto che l’Ue non può decidere direttamente cosa fanno le aziende private. Da tenere presenta che la Corte Suprema potrebbe invalidare quasi tutti gli accordi fatti finora, costringendo il Presidente a trovare un diverso meccanismo per perseguire il suo metodo di pressione sugli altri Paesi”, osserva Andrew Spannaus, giornalista e analista politico americano, ideatore della newsletter Transatlantico.info e diventato noto per aver anticipato con i suoi libri la trasformazione in corso negli equilibri politici di Stati Uniti ed Europa.
Le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico quando potranno riprendere la via della normalizzazione dopo lo shock?
“C’è una differenza fondamentale che sarà difficile da superare: gli Stati Uniti, con Trump o un presidente democratico, hanno interesse a ristabilire i rapporti con la Russia, con l’idea di non lasciare completamente il campo alla Cina. Infatti, per i prossimi anni l’enfasi della politica estera americana è e sarà sul Pacifico. L’Europa deve decidere se rimanere con la linea Macron-Starmer-von der Leyen di scontro aperto contro la Russia, oppure trovare uno spazio all’interno di questa nuova realtà strategica, con un atteggiamento di maggiore realismo”.
Questa frattura tra americani ed europei ha qualche effetto nel dibattito politico interno negli Usa?
“In merito all’Ucraina si parla molto della posizione europea, a volte facendo notare che la Casa Bianca non si fida degli alleati che sembrano voler frenare la possibilità di un accordo, considerato ancora troppo negativo per Kiev. Non è il tema principale, ma chi segue le faccende internazionali sa che si tratta di un pezzo fondamentale del processo diplomatico in corso. Sul Medioriente gli europei vengono visti invece come un elemento di disturbo, per esempio con le dichiarazioni a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese. Con questo governo il realismo in merito a Israele fa fatica a salire in superficie a Washington”.
Fino a dove l’Europa si spingerà lontano dagli Usa per sostenere Kiev?
“È sorprendente il percorso europeo sulla questione Russia-Ucraina. Prima si preferiva non chiudere completamente a Mosca, tanto è vero che sono state le pressioni di Washington a spingere Bruxelles verso una posizione netta. Ora che l’America cambia, l’Europa si trincera nella propria posizione. La rigidità di Bruxelles è ormai leggendaria in più campi, ma in questo caso c’è un pericolo particolare: Trump è certamente inaffidabile, ma seguire la linea di Londra e Parigi sembra escludere quel principio di realismo che servirà per congelare il conflitto”.
L’imprevedibilità totale che Donald Trump ha impresso alla politica estera Usa sta accelerando numerosi processi di convergenza politica globale. Il mondo si sta riorganizzando in blocchi d’influenza in parte, o in tutto, alternativi a quello che fino a qualche mesa fa era il Vecchio Occidente.
“La creazione di un blocco alternativo all’Occidente fa parte di un processo molto lungo, iniziato nella seconda metà degli anni Novanta. Ci sono vari aspetti che lo hanno alimentato, partendo dalle grandi questioni di politica finanziaria fino alle numerose iniziative strategiche messe in atto allo scopo di difendere la capacità dell’Occidente di proiettare la sua influenza sullo scacchiere globale. In questo contesto Donald Trump sta peggiorando la situazione, data la sua incapacità di capire le conseguenze più profonde delle sue azioni. Il contrario di quello che si poteva sperare da un Presidente che si vanta di stabilire rapporti con gli altri leader piuttosto che fare guerre”.
La Cina governa chiaramente questa nuova fase di revisione del potere globale. Le chiedo: alla luce di questi riposizionamenti, agli Stati Uniti conviene davvero un’Europa più debole e divisa da questioni di politica interna?
“La debolezza dell’Europa non proviene dalla divisione. È il contrario: l’Europa è divisa perché è debole in termini di contenuti. A parte le differenze di interessi strategici verso Est, un buon esempio è la politica economica: ancora ancorata ad una visione monetarista e mercatista, che non riesce ad adeguarsi al nuovo scenario post-globale, cioè di correzione dei grandi errori della globalizzazione. Forzare l’unità politica per mascherare i problemi profondi non è una strategia intelligente. Occorrerebbe creare una coesione autentica attraverso una discussione onesta sui contenuti, più che puntare sulla centralizzazione come soluzione ai problemi”.
In questo scenario, la Germania deve ritrovare un ordine interno da dare alla sua macchina industriale ed economica. Sicuramente i tedeschi indirizzeranno parte della loro forza industriale ad un progetto di riarmo. Gli Stati Uniti come vedono questo scenario?
“È utile che la Germania cambi politica economica rispetto a certi freni del passato, perché potrà aprire spazi per un cambiamento più generale in Europa. Nell’ottica di garantire gli armamenti a Kiev, il ruolo tedesco sarà sicuramente importante, ma non mancano le perplessità tra chi vede un riarmo tedesco proiettato verso Est. Con una battuta, inviare i carri armati attraverso la Polonia per affrontare i russi non è del tutto rassicurante”.
Sempre in Europa, la Francia in poche settimane ha disvelato una pericolosa fragilità nei suoi conti pubblici, così forte da minare addirittura la tenuta governativa e che richiederà sacrifici molto restrittivi allo stato sociale francese. Si sta avverando il disegno di chi, fuori e dentro l’Europa, sogna di far deflagrare l’Unione colpendo i paesi fondatori?
“La deflagrazione viene principalmente dall’ottusità dei trattati e delle regole europee. Non basta qualche deroga: serve ripensare l’impianto attuale, fatto per un mondo concepito negli anni Novanta in linea con “la fine della storia”: una facciata di libero mercato e diritti umani che copre strutture che in realtà ostruiscono un cambiamento più profondo in senso democratico e popolare. Basti pensare alla costruzione dei trattati, senza voto popolare, o all’austerità imposta ai Paesi più deboli per risanare i conti delle grandi banche. L’Europa non potrà raggiungere quelli che sono obiettivi giusti senza un dibattito reale sui propri errori”.
Fuori dall’Unione, anche il Regno Unito presenta conti pubblici sotto pressione e un’economia asfittica. È una congiuntura che rischia davvero di travolgere gli equilibri europei in un quadro di ridefinizione delle relazioni transatlantiche?
“Dopo un periodo di transizione successiva alla perdita del suo ruolo dominante come impero globale, gli inglesi sono approdati ad un’economia sbilanciata sul lato dei servizi finanziari. Anche qui occorre decidere cosa fare per il futuro: aggrapparsi all’idea di essere un player globale per diritto o costruire un’identità più solida in un mondo nuovo. Se si scegliesse la prima opzione, i potenziali alleati farebbero bene a non avvicinarsi troppo”.
A proposito di alleanze in via di riconfigurazione, che idea si è fatto della poderosa rassegna di forza militare cinese nella parata dei giorni scorsi?
“La Cina si sente matura in questo momento, pronta ad affermare il suo ruolo come attore internazionale che non intende sottomettersi alle pretese dell’Occidente. È una risposta comprensibile rispetto alle umiliazioni passate e un effetto della grande crescita economica degli ultimi decenni. Pone però un grosso problema: rappresenta un sistema politico che ai nostri occhi è inaccettabile in termini di diritti e regole fondamentali. La domanda è se riusciremo a gestire il rapporto diplomatico ed economico senza subordinarlo alle considerazioni militari e strategiche. Non sarà facile, ma l’alternativa alla coesistenza e al dialogo è una guerra catastrofica”.
Ha colpito il punto di contatto tra India e Cina, cosa che sembrava lontanissima fino a qualche anno fa.
“Da anni l’India è al centro di una campagna occidentale per portarla dalla “nostra parte” nella sfida strategica con la Cina. Con Trump si è ignorato l’orgoglio e l’indipendenza del Paese, arrivando a minacce e pressioni che potevano solo provocare una reazione contraria. Tuttavia, rimangono differenze fondamentali tra Nuova Delhi e Pechino, che non permetteranno un’alleanza stretta nei prossimi anni. C’è una lezione fondamentale da tenere a mente: il resto del mondo non intende più sottostare alle nostre condizioni, per questo sarà preferibile un maggiore realismo politico piuttosto che una posizione ideologica portata avanti con il bullismo che vediamo ora a Washington”.