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BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – Il 2016 non sarà un anno normale: indifferenti cash o azioni

Se in un gioco televisivo da ora di cena venisse offerto al concorrente di scegliere tra un premio certo di 5mila euro e una probabilità su due di averne 10mila molti sceglierebbero la seconda opzione. Il contesto adrenalinico e la voglia di giocare farebbero infatti premio sulla prudenza e solo un neolaureato in statistica riuscirebbe a rimanere perfettamente indifferente. Se però la scelta fosse tra un premio certo di 5 milioni da una parte e una probabilità su due di vincere 10 milioni quasi tutti opterebbero per la prima opzione. Anche se i milioni sicuri fossero solo 4, o anche meno, molti, incluso lo statistico, preferirebbero portarseli a casa comunque.

Questa preferenza viene modellizzata in una funzione di utilità in cui, da un certo ammontare in su, il rimpianto per i soldi lasciati sul tavolo è maggiore della soddisfazione per una vincita piena invece che dimezzata. Il rimpianto cresce esponenzialmente in funzione dei soldi in gioco ma è al tempo stesso determinato della loro utilità marginale, che è molto soggettiva. Lasciare sul tavolo 5 milioni avrebbe più conseguenze per Paperino che per Paperone, anche se sappiamo che il nipote prenderebbe la cosa con più filosofia dello zio.

Gli studiosi di teoria del rimpianto (ci sono anche loro ed è bello vedere fino a che punto è arrivata la divisione del lavoro) ci spiegano però che il rimpianto immaginato ex-ante, a tavolino, è sopravvalutato dalla gran parte di noi rispetto al dispiacere provato effettivamente ex-post. Vi farebbe più rabbia, chiedono nei test che somministrano nelle loro aule universitarie, perdere un treno per un minuto o perderlo per cinque? E tutti danno la prima risposta, aggiungendo che il disappunto sarebbe comunque grande. Se la stessa domanda viene però fatta alla stazione ai pendolari che hanno appena perso il treno per un soffio e a quelli che l’hanno perso per cinque minuti si nota un grado simile di disappunto e un’intensità più bassa di quella immaginata ex-ante nei test a tavolino.

Studiare la teoria del rimpianto può essere un esercizio utile mentre ci si prepara tutti quanti a impostare la strategia di portafoglio per il 2016. Per come lo possiamo vedere oggi, il 2016 non si profila come un anno normale. Definiamo qui come normale un anno in cui gli strategist e i gestori si aspettano un 5-10 per cento di rialzo azionario e un ritorno più modesto, ma comunque positivo, per la parte obbligazionaria.

Il 2016 non appare normale perché le borse potrebbero rendere zero e i bond potrebbero anche avere un rendimento finale leggermente negativo. Stare totalmente investiti in azioni potrebbe quindi rendere zero come la liquidità del conto corrente e fare diventare irrilevante, ex-ante, qualsiasi scelta di portafoglio.

Il paradosso di tutte le scelte è che più sono difficili e perfino dolorose, più è indifferente prendere l’una strada o l’altra. Più ci tormentiamo e meno ha senso tormentarci. Se i pro e i contro di ogni opzione si equivalgono ha perfettamente senso, almeno in astratto, lasciare decidere alla monetina lanciata per aria.

Se infatti pensassimo che il 2016 sarà un anno catastrofico, o anche semplicemente negativo, la scelta di stare completamente liquidi sarebbe obbligata e quindi facile. Quelle che si vedono all’orizzonte, tuttavia, non sono le nuvole nere della fine del ciclo, ma quelle bianche e non particolarmente minacciose che del ciclo annunciano la maturità compiuta e forse, in America, l’ingresso in una terza età ben portata che si profila piuttosto lunga.

Ecco quindi il paradosso dell’indifferenza. Il cash impiegato in titoli di stato a un anno ha rendimento negativo, quello lasciato alla banca (che prima o poi scaricherà sui correntisti i tassi negativi) è comunque un prestito, che in tempi di bail-in (Cipro insegna) è per il momento ragionevolmente sicuro, ma che in caso di nuova recessione potrebbe esserlo meno.

Le azioni e i crediti, dal canto loro, saranno esposti a venti contrastanti. Da una parte si profila una modesta crescita degli utili (qualcosa di più in Europa), ma dall’altra si profila per la prima volta un vento contrario da parte della Fed sotto forma di rialzo dei tassi nominali, anche se sui tassi reali, in previsione di un aumento dell’inflazione, non si avvertirà nessuna stretta significativa.

Tenere un portafoglio diversificato, fino ad oggi, ha significato tenere le azioni (e molti bond) per la performance e il cash per la sicurezza. Da qui in avanti le azioni significheranno diversificazione e se ci sarà performance sarà in cambio di un’accresciuta volatilità. È un contesto, quindi, in cui ha senso ridurre, ma non azzerare, azioni e crediti.

La volatilità, dal canto suo, è fumo negli occhi per molti ma può essere opportunità per altri. La condizione per approfittarne, tuttavia, è di partire leggeri e non avere troppo rischio nel portafoglio.

Ripetiamo, l’idea di abbassare con calma il profilo di rischio non è dovuta a un deterioramento della condizione dell’economia globale (per una Cina che continuerà a rallentare ci sarà un’Europa in accelerazione) ma al passaggio da una fase strategica durata sette anni a una fase tattica che potrebbe durare fino alla fine del ciclo e quindi, augurabilmente, ancora qualche anno.

Non siamo per contro particolarmente preoccupati dal malessere di questi giorni sui mercati, un malessere che viene imputato alla Bce, al petrolio e alla Fed.

La Bce, che ha deluso le aspettative dell’ultima ora, ha comunque varato un pacchetto di misure anche più ampio di quello lasciato intravedere durante la conferenza stampa del 22 ottobre, quella in cui Draghi buttò lì la possibilità di un taglio dei tassi. Se torniamo alla sera del 21 ottobre, quando il prolungamento del Qe non era dato ancora per certo e quando nessuno si immaginava il taglio dei tassi, vediamo che l’Eurostoxx era allo stesso identico livello di oggi e che il rendimento del Bund decennale, allora dello 0.51 per cento, è addirittura salito oggi allo 0.58. Solo l’euro si è mosso, passando dall’1.13 del 21 ottobre all’1.10 di oggi.

Da questo non traiamo la conclusione che il Qe2 è nato morto, come sembrano pensare i mercati, ma quella di un iniziale festeggiamento esagerato e prematuro che si è trasformato in rabbia stizzita cui seguirà, nei prossimi mesi, una terza fase di effetti benefici a rilascio lento, non tanto sull’euro, che rimarrà sostanzialmente stabile, quanto sulle borse e i crediti europei.

Quanto al petrolio e alle materie prime, i timori dei mercati sono per la domanda e per gli effetti sui paesi produttori e sulle compagnie minerarie. Sul petrolio, tuttavia, non c’è nessuna debolezza della domanda, che continua a crescere regolarmente. Quanto ai produttori, siamo entrati nella fase finale del processo di selezione naturale che vedrà vincitori quelli che hanno i costi di estrazione più bassi (Arabia Saudita, Iraq e l’area texana di Eagle Ford). L’Arabia Saudita, che conduce il gioco al ribasso sui prezzi, scommette su una stabilizzazione e inversione di tendenza entro la fine del 2016. Ci sarà quindi un momento (ma adesso è ancora troppo presto) in cui i titoli dell’energia batteranno il resto del mercato e trascineranno verso l’alto le borse. Più si scende oggi, insomma, più si risalirà domani. Nelle materie prime ha sempre funzionato così.

Quanto alla Fed, non riusciamo a vedere nessun dramma intorno al rialzo di mercoledì prossimo. Non c’è un angolo del pianeta dove il preavviso di questo rialzo non sia già arrivato da un anno e non sia stato ampiamente discusso e scontato nei prezzi. Più che una corsa a vendere, vediamo quindi probabile un grande sbadiglio globale o perfino una breve fiammata di rialzo nel caso di una conferenza stampa particolarmente rassicurante.

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