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BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – I mercati non credono alla guerra, ma cambia il rischio

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Venti minuti di sparatorie durante l’operazione militare a Parigi Saint Denis. Bisogna risalire ai tempi della Comune del 1871 per trovare scontri a fuoco di questa portata. Del resto, se Parigi è ancora oggi così bella è perché fu risparmiata nelle due guerre mondiali. Il presidente Hollande dice che la Francia è in guerra, il primo ministro Valls dice di temere attacchi chimici e batteriologici. L’Isis fa notare come siano bastati otto uomini per fare proclamare lo stato d’emergenza, una misura che era stata presa l’ultima volta durante la guerra d’Algeria.

C’è da chiedersi che conseguenze potrebbero produrre 80 o 800 uomini. Non se lo chiedono i mercati, sembra di capire, dal momento che appaiono in ottima forma e rimangono concentrati sulle loro occupazioni di sempre, tassi, Quantitative easing e utili.

In effetti, guardando al passato, nei rapporti tra mercati e conflitti si vedono reazioni molto diverse. La borsa di New York salì del 20 per cento nella prima settimana del settembre 1939, mentre la Germania invadeva la Polonia. Scese però per otto mesi dopo Pearl Harbor, quando cioè l’America entrò in guerra.

Italia e Germania videro borse in ribasso negli anni Settanta, ma più per effetto della crisi economica che del terrorismo interno e mediorientale. Lo stesso accadde per l’America impegnata in Vietnam. Il terrorismo irlandese non fermò economia e mercati in Inghilterra durante il boom thatcheriano del decennio successivo. Gli attacchi di Madrid nel 2004 e di Londra del 2005 produssero brusche cadute, prontamente recuperate nei giorni successivi.

L’attacco più clamoroso, quello alle Torri Gemelle del 2001, provocò un ribasso istantaneo che fu però riassorbito pienamente nel mese successivo. Al contrario, l’attesa logorante dell’invasione dell’Iraq del 2003 tenne sotto scacco le borse di tutto il mondo per sei mesi e le portò a segnare pesanti minimi di periodo. Nell’attesa di una guerra che si immaginava incerta e lunga (durò in realtà solo 21 giorni) i compratori entrarono in ibernazione e venditori e ribassisti ebbero completa libertà d’azione. Quanto ai conflitti prolungati ma a bassa intensità, come è il caso dell’Afghanistan negli ultimi anni, nessuna reazione è percepibile nei mercati.

Come si vede ogni caso fa storia a sé, ma si può comunque ricavare qualche regola generale. La prima è che i conflitti endemici e gli attentati occasionali non influenzano la tendenza in corso. La seconda è che l’attesa di un conflitto, facendo da spada di Damocle, può fare più male del conflitto stesso.

Nel caso attuale è evidente che i mercati non credono all’ipotesi di una guerra tradizionale in preparazione contro l’Isis. Gli Stati Uniti hanno già escluso un intervento diretto sul terreno e l’Europa, ancora traumatizzata dall’intervento franco-britannico di Suez nel 1956 e da quello in Libia del 2011, non ha né l’intenzione né la forza di andare oltre i bombardamenti dall’alto. Hollande può dunque affermare di essere in guerra, ma non è credibile.

Il problema è che, qualche volta, la guerra non la scegliamo noi ma ce la portano in casa gli altri. Al primo attacco militare dell’Isis in terra di Francia (quello a Charlie Hebdo non aveva aspetti militari) si può reagire con indifferenza, ma come si reagirebbe la prossima volta? A Parigi sono state messe bombe quasi sotto i piedi di Hollande, ad Hannover sono state messe a poche decine di metri dalla Merkel. Come staremmo oggi se le due figure guida dell’Europa fossero state colpite?

Al momento, in ogni caso, i mercati si concentrano sugli aspetti positivi del dopo Parigi. C’è un riavvicinamento evidente tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania. Le sanzioni contro Mosca non verranno cancellate subito, ma verranno comunque aggirate. La borsa russa, che a gennaio veniva data per perduta, è oggi in rialzo del 32 per cento rispetto all’inizio del 2015. Calcolata in euro va ancora meglio.

Il disgelo con Mosca porta buone notizie anche all’Ucraina. La guerra è congelata, il debito è stato ristrutturato con successo (con l’avallo, annunciato al G-20, del creditore Putin). Da questo traggono benefici la Germania e il Dax.

Il medio termine appare però oscuro o quanto meno difficile da decifrare. Quella che la rivista Limes chiama Caoslandia, la vastissima terra del caos che si estende dall’Africa all’Asia meridionale, bussa alle nostre porte. I flussi migratori destabilizzano la piccola e fragile Europa. Per una difficile unione bancaria che si crea, si alzano muri sempre più alti tra un confine nazionale e l’altro. Come nota Stratfor, nel 2017 Francia e Germania avranno comunque leadership più euroscettiche di quelle odierne. L’America sarà forse più isolazionista.

Se l’Isis ci fa paura, un’altra guerra ancora più temibile si affaccia all’orizzonte. L’autorevole rivista medica Lancet ci informa che i batteri stanno rapidamente recuperando il terreno strappato loro con gli antibiotici. Ci siamo compiaciuti per Internet e per le nanotecnologie, ma il rischio di morire per un’infezione, che secondo Lancet sta crescendo esponenzialmente in modo inarrestabile, rischia di portarci entro pochi anni indietro di un secolo, quando però eravamo cinque volte meno di oggi.

Per fortuna il breve termine è più controllabile e meno minaccioso, o almeno così ci appare. Le banche centrali tengono in pugno i mercati, il Qe europeo e giapponese crea ogni mese 125 miliardi di base monetaria, le politiche fiscali, sia pure sottovoce, si stanno facendo espansive. La linea ufficiale europea, l’austerità, rimane in vigore nei trattati, ma viene svuotata giorno dopo giorno da un’interpretazione discrezionale delle formule sempre più oscure con cui viene calcolato l’output gap. Gli obiettivi di bilancio così ricalcolati vengono a loro volta sempre più tranquillamente mancati nel nome delle emergenze. Per la Germania sono i costi dell’arrivo dei migranti, per la Francia le nuove spese per la sicurezza e per la guerra, per Spagna e Portogallo è il quadro politico, per l’Italia è semplicemente la voglia di abbassare qualche tassa.

Il 2016, incognite a parte, non si profila brutto per la crescita globale e appare per adesso come un prolungamento del 2015. L’Europa accelererà ancora ma a un certo punto il processo di indebolimento dell’euro dovrà arrestarsi e forse cedere il posto a un modesto recupero. Stare lunghi di dollaro e di borse europee ha ancora senso, ma quello che dovrà cambiare, nei portafogli è il livello complessivo di rischio. Il rapporto tra rischio e rendimento, infatti, è destinato a deteriorarsi, lentamente ma inesorabilmente. Alle strategie direzionali, che finora hanno pagato bene e richiesto uno sforzo minimo, dovranno gradualmente subentrare strategie long/short e modalità più tattiche di allocazione. Si potrà ancora guadagnare, ma bisognerà lavorare di più.

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