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Australia, fine del miracolo economico? Preoccupano inflazione, caro affitti e calo dell’export cinese

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Il miracolo australiano è finito? Leggendo alcuni dati, sembrerebbe di sì. E sono dati che fanno riflettere, poche settimane dopo le elezioni che nonostante la crisi hanno confermato alla guida del Paese oceanico il laburista Anthony Albanese, destinato dai sondaggi alla sconfitta ma “salvato” in extremis dall’effetto Trump. Le provocazioni del tycoon hanno infatti finito per spingere la maggioranza degli elettori a sbarrare la strada al candidato conservatore e filo-Usa, Peter Dutton, che non è nemmeno riuscito ad entrare in Parlamento. Albanese è in carica dal 2022 ed è dunque il primo presidente dal 2004 ad essere eletto per un secondo mandato, seppur alla guida di un Paese apparentemente in netto declino.

Perché l’Australia non è più il paradiso di una volta

Per 30 anni l’Australia è stata un invidiabile modello di crescita: niente recessione, boom demografico, stipendi alti (nominali ed effettivi), export trainato dalla domanda cinese di materie prime, e investimenti immobiliari. Un Paese che seppur con regole molto rigide attirava giovani da tutto il mondo, con città considerate tra le più vivibili e opportunità per chi cercava un futuro migliore. Era l’esempio che funzionava: con un visto working holiday si poteva trovare lavoro in poco tempo e dare il proprio contrbuto ad uno dei paesi più stabili, ricchi e dinamici del mondo. Ma oggi i numeri raccontano un’altra storia, ad incominciare dal Pil pro capite, che è inferiore di 2.400 dollari all’anno rispetto a prima del Covid. Il reddito reale delle famiglie si è ridotto dell’8% in due anni e per milioni di persone ora c’è il problema del caro casa: Sydney e Melbourne ad esempio sono diventate quasi inaccessibili, con prezzi che superano fino a 10 volte il reddito medio, e anche gli affitti nelle aree periferiche crescono senza sosta, a ritmi superiori al 20% annuo. Secondo l’Australian Bureau of Statistics, circa una famiglia su tre spende oltre il 30% del proprio reddito solo per pagare l’affitto. Per molti italiani potrebbe sembrare una proporzione accettabile, ma siamo abituati male: nei Paesi avanzati è una soglia oltre la quale si parla ufficialmente di “stress abitativo”.

Stipendi erosi dall’inflazione: lavorare non basta più per sentirsi al sicuro

Il modello Australia ha mostrato le sue crepe innanzitutto per via del calo di immigrati, che hanno trovato sempre meno attraente un Paese così costoso e lontanissimo dal resto del mondo, poi per la crescita immobiliare, che si è trasformata in speculazione, e infine per la riduzione dell’export verso la Cina, che ora guarda più verso l’Africa e Sudamerica per approvvigionarsi di materie prime agro-alimentari e anche energetiche (in passato sceglieva l’Australia soprattutto per ferro, carbone e gas). La crisi colpisce in particolare i giovani: i working holiday maker e gli studenti internazionali rappresentano ancora una parte significativa della nuova forza lavoro, ma spesso vivono in condizioni precarie, con affitti condivisi, stanze sovraffollate e salari che non sempre rispettano il minimo legale. In parallelo, l’edilizia pubblica è in declino e le leggi urbanistiche impediscono di costruire dove servirebbe davvero.

Per non parlare del caro vita, che pesa anche per chi ha un lavoro stabile. Gli stipendi sono ancora alti sulla carta, ma non riescono più a tenere il passo con l’inflazione: tra il 2022 e il 2023, l’Australia ha registrato il calo più marcato del reddito disponibile reale tra tutti i Paesi Ocse, con l’inflazione che nel 2022 è salita al 7,8%. La disoccupazione nel 2023 era solo del 3,6%, ma ormai avere un lavoro non sempre basta: gli australiani lavorano, ma si sentono più poveri. Anche l’Australia si trova così di fronte alla grande sfida del momento: il lavoro povero.

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