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Apple da Steve Jobs a Tim Cook: giovedì debutta in Italia il film di Danny Boyle

Giovedì 21 esce in Italia Steve Jobs il film di Danny Boyle scritto da Aaron Sorking che si è ispirato all’omonima biografia di Walter Isaacson. Il film, interpretato da un cast di prim’ordine, ha ottenuto due Golden Globes per la migliore sceneggiatura a Aaron Sorkin e per la migliore attrice non protagonista a Kate Winslet. Abbiamo pensato di accompagnare la visione di questo film con un lungo articolo che tratta della Apple dopo Jobs sotto la direzione di Tim Cook a cui Jobs ha affidato la guida della società della mela.

Da Hobbes a Rousseau

Sembrava indicibile solo qualche anno fa, ma forse esiste davvero un’alternativa allo stile di leadership di Steve Jobs. Tim Cook la sta realizzando. Forse la sua Apple è ancora migliore di quella di Steve. La leadership di Jobs sembrava ispirarsi al pensiero, peraltro profondissimo, di Thomas Hobbes e di quei pensatori che non si fanno troppe illusioni sulla natura sociale dell’uomo e sullo stato di natura. La leadership di Tim Cook muove da principi differenti che, mantenendo il parallelo filosofico, potrebbero far capo alla concezione della natura sociale dell’uomo del grande filosofo ginevrino Jan-Jacques Rousseau. Per Jobs la leadership era vincere nel Bellum omnium contra omnes attraverso rapporti di forza, di dominanza e di sottomissione attuati per mezzo di innovazioni furiose, paranoiche e inattese. In tutto questo c’era anche una componente mistica che rendeva meno brutale questa visione. Per Cook la leadership è sostanzialmente relazione, relazione mediata da accordi rispettati consensualmente in cui opera il principio fondamentale di reciprocità. Laddove Jobs cercava il dominio, Cook ricerca l’egemonia. Non è che il progetto di Apple sia cambiato nel passare da Jobs a Cook, il progetto è rimasto lo stesso, quello di essere leader nell’innovazione e nella costruzione di grandi prodotti senza preoccupazione di scardinare prodotti e servizi già affermati e fortemente redditizi.

Intendiamoci Steve Jobs era tutt’altro che un conservatore, un moderato o un filo-repubblicano. Al Gore è uno dei membri più anziani del consiglio di amministrazione della Apple e si potrebbe dire è un po’ la sua faccia politica. Il biograbo di Steve Jobs, Walter Isaacson, riferiasce di un episodio raccontato dallo stesso Jobs durante le loro numerose conversazioni. Jobs racconta che, in occasione di una cena nella sua abitazione di Paolo Alto con Rupert Murdoch per discutere del lancio del progetto e-books di Apple, dovette nascondere tutti i coltelli della cucina per paura che la moglie Laurene Powell, una liberal convinta che aborre Fox News, ne infilasse uno nella schiena del magnate australiano. Un desiderio comune a molti liberal americani ed europei. In realtà Jobs era un cane sciolto, aveva una visione di sintesi e poteva stupire un osservatore politico con le sue osservazioni radicalmente di destra o radicalmente di sinistra dette in successione. L’unica cosa sicura che si può dire è che Jobs era guidato da un’etica del lavoro prussiana e questo informava molte delle sue visioni in campo civile, sociale e politico. Cook è palesemente democratico, fautore dei diritti civili e uno dei  punti di riferimento di Michelle Obama per le sue iniziative in molti campi. Difficile udire da Cook un’opione “storta” o politicamente non corretta. La sua difesa della politica fiscale della Apple, di fronte alla commissione del Senato USA, è stata talmente impeccabile da mettere in imbarazzo i componenti stessi della commissione che cercavano nei comportamemti della Apple qualcosa di fraudolento. Non si sa che cosa avrebbe potuto dire Steve Jobs di fronte a un terzo grado del genere.

Quando il cantautore Neil Young telefonò a Steve Jobs per lamentarsi della qualità inferiore della musica su iTunes rispetto al vinile, Jobs chiuse subito la conversazione con queste parole “Fuck Neil, and fuck your records. You keep them.” Quando Taylor Swift si è lamentata pubblicamente del mancato pagamento delle royalty agli artisti durante il periodo di prova di AppleMusic, ha ricevuto da Eddy Cue, uno dei più stretti collaboratori di Cook, una replica ben differente: “When I woke up this morning and saw what Taylor had written, it really solidified that we needed to make a change”. “To make a change” è proprio quello che sta accadendo nella Apple di Tim Cook.

Differente anche l’atteggiamento di Jobs e di Cook di fronte alla filantropia. Jobs, che pur ammirava quello che stava facendo il suo antico rivale Billa Gates in questo campo, pensava che il contributo maggiore a cambiare le cose nel mondo venisse da grandi prodotti in grado di aiutare la gente a migliorare le proprie condizioni di vita con la propria iniziativa. Aveva tantissimo a cuore la scuola e l’istruzione, tanto che molti programmi di Apple tendevano a favorire le istituzioni scolastiche e formative. Nell’idea originaria di Jobs, NeXT, la workstation visionaria ideata dal suo team dopo l’estromissione da Apple, era proprio destinata al mondo accademico e della ricerca. Oltre questo però non andava, malgrado le insistenze della moglie che invece credeva e crede moltissimo nelle attività filantropiche e di beneficienza. Cook sta pensando, come ha fatto Mark Zuckerberg, di devolvere grande parte dei propri averi in attività filantropiche volte a tutelare i diritti delle minoranze e a diminuire l’ineguaglianza tra le persone e le nazioni. Un’altra diversità.

Il giornalista e direttore editoriale di “Fortune”, Adam Lashinsky, autore di Inside Apple (2012), ha scritto un esteso articolo di 4500 parole, Apple’s Tim Cook leads different, per spiegare come Tim Cook ha cambiato e sta cambiando la Apple, in meglio. Ilaria Amurri ha tradotto l’articolo per i nostri lettori. Lo abbiamo diviso in due parti, data la sua estensione. Di seguito la prima parte. Buona lettura.

Se ti passa addosso un camion

Dopo aver preso il posto del leggendario Steve Jobs, Tim Cook di Apple ha trascinato il colosso dei computer ancora più in alto, ne ha trasformato la cultura ed è diventato un vero leader, ma anche una voce pubblica.

Pensava di essere pronto ad affrontare la visibilità che spetta al CEO di Apple Inc., in fin dei conti aveva già sostituito Jobs tre volte durante la sua malattia ed era subentrato nel suo ruolo sei settimane prima della morte del fondatore, avvenuta nell’ottobre del 2011. Invece ha scoperto che non si è mai pronti a reggere gli sguardi maliziosi che incombono sul successore di un mito come Steve Jobs.

Ho sempre avuto la pelle dura – racconta – ma adesso è diventata come la roccia. Quando Steve è scomparso ho imparato qualcosa che prima sapevo solo a livello teorico, oserei dire accademico, e cioè che lui era un scudo potentissimo per tutto il team. Probabilmente nessuno di noi lo apprezzava abbastanza, perché non ci davamo peso. Eravamo concentrati sui nostri prodotti e sulla gestione della società, ma lui si è sempre preso la responsabilità di tutto. Certo, si è preso anche i meriti, ma la verità che dava sempre il massimo.

Tante volte ha sentito dire che “Apple non può innovarsi con Tim Cook”, che la società aveva bisogno di un iPhone economico per contrastare il successo di Android di Google, che non sarebbe mai riuscito a replicare la magia di Jobs e che quindi Apple non sarebbe mai più stata “follemente grande”.

Lui, per tutta risposta, ha imparato a ignorare il baccano: “Prima mi ritenevo piuttosto bravo, ma sono stato costretto a diventare formidabile. Quando un camion ti passa sopra la schiena impari molte cose”.

Quel che è certo è che per fortuna le ruote di questo metaforico camion non hanno lasciato cicatrici permanenti. È ancora troppo presto per dire se novità come Apple Watch, Apple Pay o Apple Music avranno davvero un riscontro economico, ma sicuramente dimostrano che Apple, sotto il primo CEO non fondatore dopo che Gil Amelio fu fatto fuori nel 1997, sta continuando a prosperare. Sono scelte che rivelano una salda leadership, se non altro in rapporto alla convinzione comune secondo cui Cook si sarebbe limitato a badare alla società affidatagli da Steve Jobs.

Cook, una leadership su molti fronti

C’è poco da obiettare sul fatto che le condizioni di Apple sotto Cook siano fondamentalmente sane. Il valore delle azioni è passato da 54$ (post-frazionamento) a 126$ dopo la morte di Jobs alle 105 attuali, per un valore di mercato pari a oltre 700 miliardi di dollari, un record tuttora imbattuto. Apple vale più del doppio di Exxon Mobil o di Microsoft e il suo gruzzolo è triplicato a partire dal 2010 fino a superare i 150 miliardi di dollari (nonostante abbia speso in tutto 92,6 miliardi tra dividendi e riacquisti con Cook, il che è notevole se si pensa che a Jobs non piaceva distribuire soldi agli azionisti). Apple ha difeso il suo giardino di lusso con gli smartphone, soprattutto in Cina, dove ha ne venduti per 38 miliardi di dollari nel 2014. Nel frattempo, Cook ha gestito i flop con candore e umiltà, basti pensare ad Apple Maps, e in generale ha tenuto insieme la squadra di gestione ereditata da Jobs, con poche aggiunte chiave, prendendosi la responsabilità delle occasionali cantonate sul piano del management.

Inaspettatamente, Cook è diventato un importante punto di riferimento per Apple e non si è limitato a tollerare i riflettori, ma ne è andato letteralmente in cerca per attirare l’attenzione su temi che interessano a lui e alla sua società. Nell’ottobre del 2014, la decisione di dichiarare pubblicamente la sua omosessualità ha trasformato in un batter d’occhio il CEO di un tempo, troppo modesto e riservato, in un modello globale. Inoltre è diventato il primo CEO dichiaratamente gay nella lista di Fortune 500 e ha sfruttato Apple come piattaforma planetaria per dire la sua sulle questioni più disparate, dai diritti umani, all’educazione, alla figura della donna a Wall Street, alla riforma dell’immigrazione, al diritto alla privacy. Si è persino avventurato nel profondo sud, nella capitale del suo Stato, l’Alabama, per condannarne i tristi episodi di razzismo.

Tim Cook si è distinto da Jobs sotto diversi aspetti e non solo per il desiderio di affrontare questioni sociali. Nel 1998 approdò ad Apple dopo aver lavorato per Compaq Computer, dove svolgeva mansioni organizzative, e aveva passato gli anni formativi della sua carriera da IBM, perciò non era precisamente un esperto in materia di sviluppo, progettazione e promozione dei prodotti, era più simile un allenatore che ha fiducia nei suoi giocatori, diverso dal machiavellico Steve Jobs.

Risultato, nelle alte sfere della società la situazione diventa inaspettatamente stabile. Non si è mai sforzato di essere Steve – spiega Eddy Cue, Senior Vice President for Internet Software and Services arrivato ad Apple nel 1989, “ha sempre cercato di essere se stesso. È stato molto bravo a lasciarci fare le nostre cose, la sua è una visione d’insieme, mentre a Steve interessavano i dettagli più microscopici.

Conservare la cultura di Steve Jobs, evolvendola

Nessuno può sapere cosa significhi prendere il posto di Steve Jobs, famoso per un’impulsività smodata che spesso lo ha condotto alla grandezza, e anche adesso sembra che tre anni e mezzo di successi non siano una garanzia per il futuro. Dice Michael Useem, illustre professore presso il Dipartimento di Management della Wharton University of Pennsylvania e direttore del Wharton Center for Leadership and Change Management: “nel mio campo ci si chiede sempre più spesso se Cook sia in grado di sostenere l’impeto di Apple”.

Da parte sua, Cook dice di essere giunto alla conclusione che è più importante imparare a ignorare le critiche che sforzarsi di controbattere. Non sono un candidato, non mi servono i vostri voti – dice Cook. Devo solo sentire che sto facendo la cosa giusta. Sono io che decido, non i media o chi non sa niente di me, penso che sia una vita migliore.

La sua sicurezza rispecchia perfettamente il CEO che è diventato. Nessuno protegge la cultura aziendale plasmata da Jobs più strenuamente lui, ma allo stesso tempo sta anche smussando gli spigoli di Apple, portandola dove vuole con l’apporto della sua visione personale e riuscendo a ridefinirne l’immagine in modo sottile, seppure evidente. Non è chiaro se l’enigmatico Steve Jobs avrebbe approvato o meno tutto questo, ma fu il fondatore stesso, nei suoi ultimi giorni di vita, a chiedere a Tim Cook di non pensare a lui nel prendere le sue decisioni, quindi la questione di quello che Jobs avrebbe pensato della nuova linea non sussiste e basta.

Tecnologia e scienze umanistiche

Richard Tedlow ha insegnato storia del business ad Harvard per 31 anni, durante i quali ha sviluppato una profonda conoscenza del settore tecnologico. Nel frattempo ha scritto un libro sulla burrascosa gestione di IBM da parte della famiglia Watson e una biografia del volubile CEO di Intel, Andy Grove. Oggi insegna alla Apple University, l’unità di formazione aziendale creata da Jobs pochi anni prima della sua morte, unica nel suo genere, che Tedlow definisce “Think Different University”, alludendo al famoso slogan coniato dal mitico fondatore alla fine degli anni ’90. Tedlow si propone l’obiettivo di individuare i tratti tipici della cultura aziendale di Apple per trasmetterli ai dipendenti della società, facendo in modo che allo stesso tempo imparino a prendere in considerazione altri punti di vista, per sviluppare un pensiero critico e aprire la mente a nuove idee.

Tedlow vede questa scuola come una sorta di “alleanza terapeutica tra tecnologia e le scienze umanistiche”, infatti i suoi corsi toccano temi apparentemente molto distanti dal mercato dei computer e dei dispositivi digitali, rafforzando in modo piuttosto esplicito la visione che Apple ha di se stessa. L’esperto di filosofia politica Joshua Cohen dell’università di Stanford ha tenuto una lezione sul pianista Glenn Gould, che registrò più e più volte le famose Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach per raggiungere il più alto grado di perfezione possibile (agli studenti della Apple University sarà venuto in mente Steve Jobs con la sua mania della simmetria, in particolare l’aneddoto che ha per protagoniste le vitine laterali del MacBook).

Momenti di verità

L’ultimo corso di Tedlow è intitolato “Momenti di verità”. Tra gli argomenti toccati c’è anche il celebre discorso tenuto da Abraham Lincoln all’inaugurazione del suo secondo mandato, in cui disse “senza malizia verso alcuno, con carità verso tutti”, parole in cui Tedlow vede “un momento non di punizione, ma di riconciliazione”. L’ex Professore universitario, rimasto lontano dai riflettori dopo l’ingresso ad Apple, ha parlato inoltre di Margaret Thatcher e della sua decisione di intraprendere la guerra delle Falkland, ma anche di come James Burke, CEO di Johnson & Johnson, ha gestito lo scandalo delle pillole tossiche di antidolorifico Tylenol.

Il sessantasettenne ha intravisto un filo diretto tra i momenti di verità di questi personaggi e la situazione che Cook ha affrontato dopo la scomparsa del suo predecessore. È chiaro che non si possono mettere sullo stesso piano la direzione di una potente società di computer e la riunificazione di un grande Paese fatto a pezzi da una sanguinosa guerra civile, però il paragone emotivo ha senso. “Sicuramente è stato costretto a buttarsi e a prendersi il peso delle aspettative di tutti”, pensa Tedlow.

Eppure, durante una commemorazione nel piazzale dell’Apple Campus di Cupertino, in California, lo stesso Tim Cook ha detto “i nostri giorni migliori devono ancora venire”, un messaggio difficile da trasmettere in quel preciso momento, che il professore paragona al tentativo di Lincoln di rassicurare una nazione affaticata della guerra e profondamente divisa.

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All’inizio non è stato facile convincere chiunque che l’era post-Jobs fosse piena di promesse e come se non bastasse le novità da lanciare a breve termine erano quantitativamente e qualitativamente deboli. L’applicazione per il riconoscimento vocale Siri, ad esempio, fu presentata il giorno prima che Jobs morisse, ma era solo un mezzo con cui Apple sperava di mettersi al passo con l’offerta per Android di Google e per di più non funzionava neanche tanto bene. In definitiva, Siri servì solo a far perdere credibilità ad Apple a causa della sua frequente incapacità di capire gli utenti.

Un anno dopo la società era di nuovo nelle peste, questa volta per colpa di Apple Maps. In pratica Apple aveva eliminato Google Maps come app preinstallata su iPhone in favore della sua applicazione di web mapping. Peccato che era zeppa di errori e, grottescamente, portava la gente nei posti sbagliati. Il prodotto zoppicava a tal punto che Cook si scusò pubblicamente dichiarandosi “estremamente dispiaciuto” per il fiasco e arrivò a suggerire Google Maps come valida alternativa. Poco dopo licenziò Scott Forstall, capo della divisione Mobile Software e vecchio accolito di Jobs.

All’inizio del 2013, Cook affrontò un’altra sfida nel campo del management. A dirigere la catene di negozi Apple Store aveva chiamato John Browett, ex CEO della britannica Dixons, anche se il gestore di una catena di elettronica a basso costo sembrava una scelta curiosa da destinare a vendite “high-touch” come quelle di Apple (Ron Johnson, ex dirigente della catena di grandi magazzini Target e direttore storico della divisione Apple Store, aveva già lasciato la società per diventare CEO di J.C. Penney, catena texana di grandi magazzini). Quella di Browett ad Apple non fu un’esperienza particolarmente felice, per cominciare faceva una gran confusione con i prodotti e Cook lo scaricò nel marzo del 2013 (Browett si dichiarò sconvolto dal fatto di essere stato mandato via non tanto per la sua incompetenza, ma perché non era abbastanza coeso con la cultura di Apple, e si astenne da ulteriori commenti).

Il consolidamento a porte chiuse

Guardando indietro, Cook vede l’episodio come una fase naturale della sua formazione da CEO: “Tutto questo mi ha ricordato l’importanza fondamentale di avere una cultura comune, è una cosa che si impara col tempo. Quando sei CEO sei preso da mille cose e di conseguenza dai meno importanza ai dettagli. Ci vogliono più velocità, meno dati, meno conoscenze, meno fatti. Se sei un ingegnere puoi permetterti di fare analisi approfondite, ma se capisci che le persone sono più importanti dei numeri, allora resta poco tempo per decidere, bisogna spingere quelli bravi e aiutare i meno bravi oppure mandarli via, nel peggiore dei casi”.

Tim Cook ha dovuto trovare il modo di trasmettere il messaggio di Apple anche quando i nuovi prodotti non erano ancora presentabili. Nel 2013, a una conferenza sul settore tecnologico fu talmente vago che gli investitori gli chiesero apertamente se avesse una visione per la società, anche perché in quel periodo le azioni erano ricadute al livello di quando era diventato CEO.

Nel frattempo, a porte chiuse, Cook consolidava la sua squadra gestionale, mentre Apple sviluppava i prodotti tanto bramati dal mondo intero. Alla fine del 2013 si accaparrò il CEO di Burberry, Angela Ahrendts, che mise a capo degli Store, e un anno dopo lanciò l’iPhone 6 con lo schermo più grande e poi l’iPhone 6 Plus. Introdusse anche un nuovo metodo di pagamento, Apple Pay, e presentò l’Apple Watch. Furono soprattutto i nuovi iPhone a rimettere la società in carreggiata. Ne vendette l’incredibile cifra di 745 milioni e mezzo nell’ultimo trimestre del 2014, per 18 miliardi di profitti, riportando le azioni in rialzo.

Il successo ha permesso a Cook di riparare agilmente gli errori commessi: nel 2014 il produttore di vetro zaffiro GT Advanced Technologies, con cui Apple aveva contrattato per creare uno schermo di ultima generazione, dichiarò bancarotta quando il colosso rifiutò di adottare i suoi prodotti. GTAT, come è noto, fece causa ad Apple, dichiarando di aver subito gravi perdite a causa degli investimenti fatti per adeguarsi alle sue richieste. Apple, da parte sua, si dichiarò sorpresa e si impegnò a installare un centro di elaborazione dati e un parco solare su quello che era il sito di produzione di GTAT, in Arizona, e in conclusione subì una bella batosta finanziaria, anche se non ne rivelerà mai l’entità (un danno non indifferente per una società che investe regolarmente miliardi di dollari nei processi di produzione). Jeff Williams, Senior Vice President of Operations e successore di Cook nel suo ruolo, dice che il CEO gli disse tre cose dopo la battaglia legale: “Quando gliene ho parlato, la sua risposta è stata ‘vediamo cosa possiamo imparare. Nessuno è perfetto. Continueremo a scommettere su grandi tecnologie per i nostri clienti’”.

Visione a lungo termine

L’approccio emotivo alquanto misurato di Cook è molto diverso da quello del suo predecessore, ma la tendenza a concentrarsi sui prodotti di punta e a fare proiezioni a lungo termine sono sempre le stesse, di conseguenza non è vitale che Apple Play o Apple Watch producano enormi profitti in questo momento. “La mia è una visione semplificata della società”, spiega Jean-Louis Gassée, dirigente Apple negli anni ’80, oggi voce di una famosa rubrica settimanale dedicata alla mela morsicata nella newsletter “Monday Note”.

Hanno sempre avuto un chiodo fisso, i computer. Adesso li fanno in tre formati, piccoli, medi e grandi, iPad, computer portatili e fissi. Tutto il resto è fatto per alzare i margini degli altri prodotti, come l’Apple Watch nel caso dell’iPhone,”. Secondo Gassée, la strategia di Cook assomiglia a quella attuata da Jobs 15 anni fa, quando novità come iTunes sostenevano le vendite dell’iPod e poi del Mac, che consisteva nel mettere al centro il digitale: “a modo suo anche Tim pone obiettivi a lungo termine.

Infatti al CEO interessano un certo tipo di investimenti e non perde l’occasione di mettere le mani avanti: “Cerchiamo investimenti a lungo termine perché è così che prendiamo le nostre decisioni. Chi vuole risultati veloci ha tutto il diritto di comprare azioni e gestirle come gli pare e piace, è una sua scelta, ma voglio che tutti sappiano che qui si lavora in modo diverso”.

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