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Usa, fiscal cliff: prime aperture dai Repubblicani

Eleggendo un Congresso ancora diviso, e riportando Barack Obama alla Casa Bianca, gli elettori hanno lanciato un messaggio inequivocabile: lo spettro del “fiscal cliff” va scacciato ricorrendo a un compromesso tra le parti. E’ questa l’opinione del senatore democratico Chuck Schumer, secondo cui il compromesso dovrà comprendere aumenti fiscali e tagli alla spesa, per impedire che la traiettoria insostenibile del deficit federale porti i conti a un livello critico nei prossimi anni.

Si tratta di una apertura importante, anche se si deve ricordare che, in realtà, la disponibilità a risolvere il dilemma in modo bipartisan è da sempre nelle corde dei Democratici. Un pò meno, invece, in quelle del partito Repubblicano, spesso ostaggio della destra radicale, che ha battuto i pugni sul tavolo ogni qual volta si sia parlato di aumenti fiscali per consolidare le finanze pubbliche.

La rielezione di Obama, però, cambia le carte in tavola, rilanciando il potere strategico e negoziale del primo cittadino. Che a buon diritto può ritenersi rappresentante di tutti gli americani, anzichè di una sola frazione. Soprattutto dopo la pubblicazione di un sondaggio, che rivela come una parte dell’elettorato conservatore ritenga necessario un sacrificio del 2% più ricco, in grado di pagare una parte dei 600 miliardi di dollari che – qualora non si raggiungesse un accordo – verranno spalmati tra nuove tasse (per 440 miliardi) e tagli di spesa, a partire dal primo gennaio 2013, riportando quasi certamente l’economia in recessione. Una richiesta fatta propria anche dal Presidente, che, ieri, durante la sua prima apparizione post-elettorale, ha puntato al braccio di ferro, ponendo gli aumenti fiscali a carico dei redditi oltre 250mila dollari come condizione necessaria al raggiungimento dell’intesa.

Intanto lo speaker repubblicano alla Camera, John Boehner, è sceso a più miti consigli, aprendo velatamente a un accordo contenente maggiori entrate, ma da ottenere non introducendo nuovi balzelli o ritoccando verso l’alto le aliquote, bensì riformando il fisco e il sistema delle deduzioni, ma anche combattendo le pratiche elusive. L’apertura va tuttavia presa con le pinze, vista la facilità con cui – soprattutto nell’agosto 2011 – Boehner ha chinato il capo di fronte alle rivendicazioni del Tea Party, l’ala massimalista del suo stesso partito.

La situazione rimane molto complessa: la proposta dei Repubblicani è probabilmente insufficiente a contenere il deficit, e per far tornare i conti servirebbero tagli più cospiqui ai programmi federali (come la sanità). Ma i Democratici non ci stanno, e ritengono necessario ricondurre a regime il sistema fiscale, riportando le aliquote marginali sui redditi alti ai livelli precedenti i tagli di Bush del 2001, poi rinnovati da Obama nel primo mandato.

Il Presidente può comunque giocare la partita con più slancio e puntando sul fatto che i Repubblicani non possono rischiare troppo. Soprattutto dopo il lodevole fair play, e il richiamo a una leadership di “coesione nazionale”, in seguito alla vittoria elettorale, sarebbe politicamente sconveniente inasprire il clima e deragliare l’accordo per un vezzo ideologico, innescando l’entrata in vigore del “burrone fiscale”, un “mostro” che peserebbe per il 4% del Pil solo nel 2013, contraendo (secondo le stime del Congressional Budget Office) l’economia di mezzo punto l’anno prossimo e portando i livelli di disoccupazione oltre il 9%, vanificando i faticosi progressi degli ultimi mesi.

Uno scenario che spaventa anche la comunità finanziaria, tanto da convicerla a fare un primo, timido, passo indietro. Schumer lo ha confermato: le trattative in corso hanno già visto Wall Street disponibile ad accettare una fiscalità più aspra, ma solo a patto che una spending review strutturale riveda a fondo la struttura impositiva e i programmi di spesa federale. Ma, in ogni caso, ad aliquote invariate. Il compromesso non è ancora sul tavolo, ma qualche spiraglio incoraggiante inizia a vedersi. Una soluzione, a questo punto, conviene a tutti: se la guerra ideologica è un valido cavallo di battaglia in campagna elettorale, dopo le urne deve vincere l’economia reale.

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