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La Cina scommette su un nuovo miracolo e punta su 8 settori strategici per la sua supremazia e autonomia tecnologica

Pubblichiamo un estratto dell’ampia analisi di Luca Paolazzi sulla Cina, apparsa nella Newsletter di Ceresio Investors, che spiega con chiarezza da dove nasce e a cosa punta la potenza del gigante asiatico

La Cina scommette su un nuovo miracolo e punta su 8 settori strategici per la sua supremazia e autonomia tecnologica

Come ha fatto la Cina a diventare una delle maggiori superpotenze mondiali e quale è la vera posta in gioco di questa nuova “guerra fredda” con gli Stati Uniti che vede i due colossi impegnati in una sfida tecnologica e industriale senza precedenti?

Pubblichiamo di seguito il testo integrale nella newsletter di Ceresio Investors di maggio 2023 dal titolo “La Cina punta al nuovo miracolo e alza la posta nella sfida con gli Stati Uniti.” L’analisi curata dall’economista Luca Paolazzi spiega come e perché l’economia cinese stia puntando alla supremazia e all’autonomia tecnologica in otto settori strategici con l’obiettivo di costruire una nuova prosperità condivisa, indispensabile per evitare future tensioni sociali.

Newsletter Ceresio Inverstors sulla Cina

Il nuovo anno cinese è iniziato da pochi mesi. È il 4720° del calendario che parte dall’insediamento dell’Imperatore giallo. Non è il più antico calendario esistente (l’ebraico conta 5783 anni e il bizantino 7531), ma lo è di una medesima unità politica nel corso del tempo. Il cinese, infatti, è l’unico impero sopravvissuto, pur mutando forma di stato e confini, tra quelli sorti nell’antichità.

Questa constatazione, per quanto possa apparire discutibile in punto di diritto costituzionale, invita a adottare un’ottica di lungo periodo nell’analisi delle vicende economiche e politiche della Cina. È rivelatrice di una resilienza istituzionale senza pari nel resto del mondo. Infine, la millenaria unità culturale alimenta nei cinesi il senso di appartenenza e l’orgoglio nazionale e quest’ultimo si traduce in un sentimento di divertita superiorità verso gli altri popoli.

Oltre a essere lungo, lo sguardo deve farsi largo, per abbracciare la seconda caratteristica della Cina: la stazza. Per superficie, è la quarta al mondo, con 9,6 milioni di kmq, distante dalla Russia (17,1) ma prossima a Canada (10,0) e USA (9,8) e il doppio dell’Unione europea. Per abitanti, nel 2023 diventa seconda, con 1.426 milioni di persone, appena superata dall’India (1.429); gli USA sono terzi e distanziati (336 milioni); per memoria, l’Italia è un ventiquattresimo e l’UE meno di un terzo (448 milioni) della misura cinese.

Per PIL la valutazione della grandezza della Cina non è altrettanto immediata. Infatti, la scienza economica, tanto per cambiare, ci mette di fronte a due possibili misure, entrambe corrette, seppure assai distanti. Nell’una la Cina produce beni per 19.240 miliardi di dollari, un ammontare secondo solo a quello degli USA, con 26.190 miliardi, ma ben sopra UE (17.010) e Area euro (14.220). Ed è dieci volte l’economia italiana (1.990). Si tratta della valutazione a prezzi e cambi correnti e si riferisce al 2023.

Nell’altra misura il valore della produzione cinese balza a 32.530 miliardi e diventa di gran lunga il primo al mondo, con gli USA che restano alla stima già indicata (il dollaro vale sempre un dollaro, ’Eurozona a 20.715. L’Italia è sempre pari a un decimo del gigante asiatico (con 3.120 miliardi di dollari). In questo caso i valori sono ancora a prezzi correnti ma convertiti usando le differenze nei livelli di prezzo, così da eguagliarli (tecnicamente si chiamano parità di potere d’acquisto, PPP).

Qui conviene chiarire significato e diversa portata delle due misure. I cambi correnti risentono delle oscillazioni delle valute, che obbediscono a variabili e scelte finanziarie e alle direzioni delle politiche, non solo economiche. Il PIL espresso in cambi correnti dice quante risorse un Paese può comandare nel sistema globale: se la sua valuta è forte, i beni e gli asset esteri sono più convenienti e accessibili. Quindi quel Paese è più “potente”, e anche più attraente come mercato dove vendere.

Con le PPP, invece, la comparazione internazionale del PIL cerca di affrancarsi dalle scorribande dei cambi e di fornire una valutazione più oggettiva della massa di beni prodotti e consumati. E dunque l’ammontare di risorse necessarie a produrli. Se un Paese ha un PIL in PPP più elevato, a parità di altre condizioni (soprattutto struttura dell’offerta), abbisognerà di più materie prime, lavoro e capitali. Quindi, la sua maggior stazza è rivelatrice della pressione che esercita sui mercati per avere quelle risorse, e anche della sua impronta sull’ambiente. Nel caso cinese è questa seconda misura che va considerata per comprendere la sua fame di commodity e, di conseguenza, le sue strategie geopolitiche.

Per inciso, val la pena notare che tutti i PIL si rivalutano significativamente passando dal valore in dollari ai cambi correnti al valore in dollari in PPP, eccetto che per Canada (invariato) e Svizzera (-7,7%). Ciò sottolinea la forza attuale della valuta USA.

Le differenze tra le grandezze a cambi correnti e in PPP si spiegano anche con il divario di sviluppo. Nei Paesi meno sviluppati, i beni di prima necessità pesano di più nella composizione del PIL, mentre pesano di meno i servizi e in generale i prodotti a maggior contenuto di innovazione, che sono più costosi. Cosicché il livello medio dei prezzi in tali Paesi è di molto inferiore a quello delle economie più avanzate, e ciò fa apparire le valute di quei Paesi più sottovalutate.

Cina, da dove è partita la sua economia e dove sta andando

Lo sguardo lungo sulla Cina ci spinge a ricordare da dove è partita la sua economia e dove sta andando. Un’analisi da fare sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo.

Nelle quantità, l’alta velocità nell’avanzata del PIL cinese è ormai alle spalle. È partita all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, dopo le riforme in direzione del mercato volute nel 1978 dall’allora leader Deng Xiaoping, e ha conosciuto una nuova accelerazione con l’ingresso nel WTO del 2000. Nei trent’anni culminati con la Grande crisi finanziaria globale il PIL totale cinese si è moltiplicato di 18 volte e il PIL pro-capite è balzato dal 2% al 18% del PIL pro-capite USA.

Le riforme hanno liberato lo spirito imprenditoriale e commerciale delle popolazioni cinesi prossime alle coste orientali, comunque inserite da millenni nella rete degli scambi locali e sovranazionali proprio perché affacciate sulle autostrade del mare. Spirito condito con grandi capacità di lavoro e di risparmio, derivanti dai lunghi ultimi quattro secoli di vacche magre. Di queste doti hanno dato numerosi esempi ovunque siano migrati, come insegnano le comunità presenti nelle numerose Chinatown sparse per il globo.

Proprio queste grandi comunità di expat sono state importanti proprio per il decollo post-riforme della Cina: avendo mantenuto stretti legami con i clan d’origine (il ruolo storico dei clan è spiegato più oltre), hanno fornito alla madre patria capitale imprenditoriale, investimenti diretti e legami commerciali con il resto del Mondo.

Il rallentamento è fisiologico e prevedibile. Nel 1998 Angus Maddison, guardando al periodo fino al 2015, scrive: «Per queste ragioni mi aspetto che la crescita cinese scenda dal 7,5% al 5,5% annuo» (Chinese Economic Performance in the Long Run, OECD, 1998). Le ragioni allora da lui indicate sono l’allineamento della dinamica della forza lavoro a quella della popolazione, il minor aumento dell’istruzione e l’incremento più moderato sia del capitale per addetto sia della produttività totale dei fattori. Ragioni che si ritrovano anche delle Long-Term Highlights di Ceresio Investors e che inducono gli autori a ritenere che il catching-up degli USA richiederà un altro quarto di secolo.

Tale previsione di rallentamento è stata azzeccata nella misura della riduzione del ritmo di crescita ma errata nella tempistica, perché prima di frenare la Cina ha accelerato molto il passo per altri vent’anni, sostanzialmente fino alla pandemia.

Cina: integrazione nelle catene globali del valore e sostegno alla domanda domestica

Il notevole prolungamento della fase di alta crescita è spiegato con gli effetti della sempre maggiore integrazione cinese nelle catene globali del valore, dell’attrazione di investimenti diretti dall’estero per sfruttare lo sviluppo del mercato interno cinese, con ampi trasferimenti di know-how, tecnologico e non, delle politiche infrastrutturali e dell’aumento della dotazione di abitazioni.

Inoltre, in misura non piccola, la crescita è stata sorretta dalle politiche di sostegno della domanda domestica negli anni della Grande crisi finanziaria, quando la Cina ha continuato a funzionare da locomotiva dell’economia mondiale mentre USA ed Europa arrancavano; le autorità cinesi in quel frangente cercarono consigli su quali ricette di policy applicare e furono leste ad attuare il sostegno della domanda interna e a non ricorrere alla svalutazione del cambio, che avrebbe generato ulteriori onde di instabilità nel sistema globale.

L’esito di questa eccezionale galoppata e il suo significato per il sistema economico mondiale si vedono ancora meglio guardando il settore manifatturiero. Infatti, fino alla fine degli anni 70 del secolo scorso la trasformazione industriale della Cina non aveva una grande incidenza sul totale globale, anche se il suo peso era molto aumentato all’interno della Cina.

Nel periodo che va dalla costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 all’avvio delle riforme nel 1978, quando il PIL totale triplicò e quello per abitante quasi raddoppiò, il peso dell’industria sul valore aggiunto passò dal 10% al 35%.

Tuttavia, almeno fino al 1973, quello fu un periodo di boom economico in tutto il mondo e la Cina non ne tenne il passo, a causa delle lotte politiche intestine e i gravi errori di visione e gestione dello sviluppo, tra cui il Grande balzo in avanti che, privilegiando l’industria pesante, depauperò di lavoratori l’agricoltura e causò una lunga e gravissima carestia con decine di milioni di morti (torno dopo su questo episodio tragico).

Inoltre, il perseguimento del gigantismo delle unità produttive, d’impostazione sovietica, creò enormi sacche di inefficienza. Per dare un’idea, alla fine di quel periodo le imprese industriali cinesi avevano mediamente una dimensione, misurata in termini di addetti, pari a undici volte quella delle imprese giapponesi, che pure piccole non erano nel panorama internazionale.

Ancora, la chiusura agli scambi con l’estero, in nome dell’autarchia tipica di ogni sistema dispotico, sottrassero l’economia cinese alla pressione competitiva. C’erano, quindi, molle cariche che, liberate dalle riforme, diedero luogo al forte slancio industriale successivo.

Cina, gli effetti dirompenti del decollo industriale

Si è trattato di un vero e proprio decollo industriale, simile a quello sperimentato da UK a fine Settecento e dall’Italia un secolo dopo. Ma molto più concentrato nel tempo e dunque assai più intenso, con effetti dirompenti sulla concorrenza globale, sulla domanda di materie prime, sull’inquinamento atmosferico, sull’allarga- mento del mercato interno e sulle prospettive future.

Infatti, dopo un quarto di secolo di corsa forsennata per elevare l’apparato industriale ai più elevati livelli tecnologici e qualitativi dei paesi leader, corsa necessariamente incentrata su export (lo yuan fu deprezzato di cinque volte nei vent’anni successivi al 1978), investimenti e manifatturiero, ormai da una decina di anni la Cina punta su consumi e servizi, per diffondere il benessere.

Un passaggio che disegna una parabola nel peso dell’industria, tanto che qualcuno parla di precoce deindustrializzazione. Ma quest’ultimo vocabolo inganna, perché la Cina non sta perdendo pezzi della sua industria, la quale prosegue nell’upgrading qualitativo e insidia la gamma alta delle produzioni occidentali.

Tanto potente è stata l’accelerazione del manifatturiero che la quota cinese sul valore aggiunto industriale mondiale è balzata dal 4,1% dei primi anni 90 del secolo scorso a oltre il 30% nel 2020. Con inevitabile forte erosione delle quote delle economie avanzate, soprattutto Giappone ed Europa, ma anche USA.

In parte ciò è l’esito dell’allargamento della produzione mondiale guidato dalla Cina stessa, che ha enormemente aumentato la domanda interna, soddisfacendola con attività soprattutto domestiche. In parte, invece, è l’effetto della concorrenza di costo del colosso asiatico (spesso con pratiche di dumping), che ha messo fuori mercato le produzioni di molte imprese in quello che un tempo si chiamava G-7. Basti pensare che 35 anni fa la Cina vendeva in Europa capi di seta allo stesso prezzo a cui gli imprenditori serici europei acquistavano la materia prima.

Il processo di sviluppo industriale cinese e lo spiazzamento delle produzioni dei paesi avanzati è stato facilitato dalle scelte delle imprese straniere che hanno investito in Cina o veicolato a fornitori cinesi commesse sempre più sofisticate, rendendo questi ultimi leader di mercato difficilmente sostituibili, perché detentori di competenze tecnologiche altrove introvabili.

Come nel caso degli smartphone, che sono diventati compagni fedeli delle nostre esistenze. E dei microchip che ne sono il cuore e anche fonte inesauribile di big-data, ossia della materia prima per la digitalizzazione dei sistemi economici.

La Cina spinge gli Usa a riscoprire la politica industriale

Ecco perché, con la scusa di combattere l’inflazione causata dalle interruzioni nelle catene globali del valore, gli Stati Uniti hanno varato la politica di grandi incentivi e sussidi per affrancarsi dal dominio cinese in questo cruciale settore produttivo.

Inoltre, la Cina è stata l’ulteriore dimostrazione dell’importanza di un mercato domestico grande per essere vincenti nella competizione globale. Casi analoghi sono stati gli USA e il Giappone. Mercato interno enorme significa imprese fuori scala per i competitor, ossia grandi in Cina per essere grandi nel mondo. Tre esempi: Hikvision (videocamere di sorveglianza), Fuyao (parabrezza e vetri delle auto), Gree Electric (aria condizionata). 

Quest’ultima è nata nel 1992, è guidata da una donna, fattura quasi 30 miliardi di dollari e impiega 70mila persone. La prima fattura 12 miliardi di dollari, e la seconda, pure nata nel 1992, ha ricavi per 4 miliardi ed è diventata famosa per il docu-film del 2019 American Factory, in cui si narra la sua acquisizione e ristrutturazione di una fabbrica in Ohio chiusa da General Motors.

Ciò che vale in aggregato per l’intero settore manifatturiero, vale ancor di più per i singoli settori. Il caso dell’acciaio è esemplare: nel 2000, ossia quando entrò nel WTO, la Cina aveva una capacità di 223 milioni di tonnellate annue, dieci volte quella della Francia, meno di un quinto del totale mondiale. Venti anni dopo l’aveva moltiplicata per 5,2 volte, a 1,2 miliardi. La sua quota è arrivata poco sopra il 50%, segno che la capacità mondiale è cresciuta molto anche altrove: in India di quasi tre volte, in Sud Corea del 50%. Certo, in alcuni Paesi si è avuta una contrazione significativa (Francia -20%), ma nell’insieme il decollo cinese ha aggiunto un motore alla crescita mondiale anche nell’acciaio.

Si può calcolare il contributo dello sviluppo economico della Cina alla crescita globale. Tale contributo è passato da un ventesimo nel 1980 a oltre un quinto all’inizio del passato decennio e a oltre un quarto poco prima della pandemia. In alcune annate la crescita cinese è stata la rete che ha tenuto su il PIL globale, evitando una più rovinosa caduta.

Cina, i 5 effetti delle sue enormi dimensioni fisiche e demografiche

Passando allo sguardo largo, le dimensioni fisiche e demografiche hanno alcune rilevanti conseguenze di cui occorre tenere conto per cercare di capire logica ed effetti degli sviluppi cinesi.

Sul piano politico, le conseguenze sono almeno cinque. Anzitutto, il governo di territori tanto vasti quanto diversi e su una popolazione così numerosa richiede un sistema capillare di amministrazione e controlli, qualunque sia il regime politico in essere; un sistema che è stato creato alcuni secoli fa (esisteva già nell’anno Mille) e che per durare deve essere credibile ed efficiente.

La classe dei burocrati cinesi era selezionata in modo rigorosamente meritocratico e l’uniformità di norme e metodi era diffusa grazie alla stampa (inventata là qualche secolo prima che in Europa). Questo non significa che fosse o sia perfetto o esente da distorsioni. Anticamente, era il meccanismo oliato di estrazione del valore aggiunto (il che impedì la nascita della classe mercantile-imprenditoriale, come avvenne in Europa). In epoca contemporanea, sistematici errori od opportunismi hanno causato disastri con conseguenze cruente.

L’esempio lampante è stata la grande carestia del 1959-61, a cui si è accennato sopra, che fu causata da decisioni basate su visioni ideologiche e assecondate da statistiche compiacenti. Provocò decine di milioni di morti; le stime variano molto, ma appaiono più affidabili quelle nella parte alta del range, quindi circa 50 milioni, cioè il 7,5% della popolazione di allora. Come se in Italia oggi morissero in tre anni 4,5 milioni di persone in più rispetto alla usuale mortalità; per avere un termine di confronto, consideriamo che i morti italiani da Covid sono stati finora meno di 190mila.

Cina, l’importanza dell’elite meritocratica ma anche dei clan

Accanto alla burocrazia formata da un’élite meritocraticamente scelta, un’altra istituzione ha giocato un ruolo cruciale nell’organizzazione sociale cinese: i clan, basati sui legami familiari con un grande culto degli antenati quale valore identitario (i lares familiares di romana memoria). Inizialmente servirono a formare il tessuto sociale allargato rispetto al nucleo della famiglia, fornendo beni pubblici ai membri (funzioni religiose, istruzione, aiuto alle vedove e agli orfani, protezione da banditi e pirati), e poi estesero il ruolo. Fondamentale nella nascita e nel funzionamento dei clan, al loro interno e in relazione agli altri clan e alla società in generale, è l’ispirazione filosofica confuciana, di cui si parlerà alla fine. E riverberano, i clan e il confucianesimo, ancora oggi.

Dall’avvio del secondo millennio dopo Cristo, durante la Dinastia Song, promuovevano lo status sociale dei suoi membri (su base del merito, perché il fallimento di un membro era un disonore per tutto il clan), organizzavano i mercati e gli scambi, cooperavano con la pubblica amministrazione (cui fornivano la classe dirigente), risolvevano le dispute commerciali e agivano come gruppi di pressione (per l’analisi di questa peculiare istituzione e anche delle radici storiche, culturali e geografiche del sistema politica cinese: Social Organizations and Political Institutions: Why China and Europe Diverged, di Joel Mokyr e Guido Tabellini).

Ma la funzione principale dei clan era il mantenimento della pace sociale, che nella scala dei valori cinese viene molto prima dei diritti dell’individuo. Questi diritti, invece, hanno permeato la nascita e lo sviluppo di tutto il diritto civile, amministrativo e pubblico in Europa occidentale, discendendo dalla religione cristiana. Mentre l’armonia sociale è un caposaldo del confucianesimo. Così come la condotta morale che deve essere tanto più irreprensibile quanto più alto è la posizione sociale a cui si è ascesi.

Per il ruolo sociale dei clan basati sui legami familiari e delle regole di condotta morale, il corpus giuridico cinese è ridotto all’osso e ha nel Codice Tang del 653 dopo Cristo il suo pilastro.

La seconda conseguenza politica della grande stazza è che per governare un popolo così ampio in un regime autocratico e di partito unico non ci si possono permettere eccessive disuguaglianze né concentrazione di potere economico senza generare disgregazione sociale e delegittimazione.

La distribuzione del reddito è molto cambiata dal 1978 in poi: fino ad allora il 10% più affluente aveva il 27,8% del reddito e il 50% più povero il 25,2%, quote sostanzialmente immutate dal 1950; nel 2011 la prima è arrivata al 43,2% e la seconda è calata al 14,1%. Tuttavia, nel decennio successivo sono rimaste pressoché costanti, proprio per la politica rivolta a non esacerbare i divari. Peraltro, tali quote non sono molto dissimili da quelle USA, solo che qui è continuato a salire il divario negli ultimi anni (fino a 45,6% vs 13,8% nel 2021).

Va sottolineato che le diversità sono anche legate al livello di sviluppo delle diverse aree geografiche. Infatti, il PIL pro-capite di Beijing e di Shanghai è di quattro volte superiore a quella della provincia più povera (Gansu). In Italia, che tra i Paesi europei è quella che presenta i divari regionali maggiori, il rapporto è di 2,3 (Lombardia rispetto a Calabria). Negli USA il divario è di 2,2 volte (in vetta lo stato di New York, in fondo il Mississippi). Quindi, al netto della differenza del grado di sviluppo, la diseguaglianza distributiva in Cina è nettamente inferiore a quanto dicono le usuali metriche.

In terzo luogo, per avere successo le decisioni devono avere comunque una certa base di consenso, non solo all’interno del vertice politico ma anche nella società. Un classico esempio è stato il rapido voltafaccia nella politica dello zero-Covid dopo le proteste popolari alla fine di novembre 2022, innescate dalla tragedia dell’incendio in un edificio di appartamenti, con le persone bloccate in casa dal rigido lockdown e i soccorsi ostacolati proprio dai blocchi anti-Covid; i social media hanno fatto da megafono e coagulante della protesta.

Ancora, le scelte sono necessariamente orientate dagli obiettivi di lungo periodo, sia sul fronte della politica interna sia su quello della politica estera. Infine, la Cina ha piena coscienza di essere un elefante in un negozio di cristalleria e quando si muove nelle relazioni internazionali il suo primo obiettivo è non fare danni, perché questi sarebbero enormi e si riverbererebbero rapidamente contro di essa.

Nei rapporti con il resto del mondo il suo obiettivo è garantirsi approvvigionamenti di materie prime e scambi commerciali fluidi, entrambi conseguibili solo in un contesto pacifico. Questo contribuisce a spiegare perché Pechino stia cercando di riportare la pace nella guerra russa all’Ucraina e comunque cerchi di sfruttare opportunisticamente quel conflitto nelle sue alleanze internazionali. Unico tabù diplomatico è Taiwan, che per Pechino è parte integrante del suo territorio, e non uno stato indipendente.

D’altra parte, ogni processo di crescita comporta un ampliamento dei divari distributivi, secondo il percorso e la logica che Angus Deaton ha chiamato «la grande fuga». Una fuga che fa emergere classi sociali benestanti, la cui formazione in Cina era visibile e prevedibile già nel 1990 e le cui schiere sono costantemente aumentate, raggiungendo i 266 milioni di individui nel 2020, con aumento atteso di altri 80 milioni di individui entro il 2025. In India, per confronto, sono 64 milioni e stimati aumentare di altri 39 milioni entro il 2025, ma qui la concentrazione della ricchezza è molto più accentuata – 57,1% la quota del 10% più ricco vs 13,1% del 50% più povero – e ciò implica una sovrastima della classe affluente. Sono considerati benestanti gli individui il cui reddito pro-capite superi i 40mila dollari annui in PPP.

Sul piano economico, le dimensioni raggiunte dalla Cina fanno sì che il suo apporto alla crescita mondiale rimanga alto nonostante l’aumento percentuale del suo PIL si sia più che dimezzato rispetto agli anni ruggenti. Con quel che ne consegue in termini di assorbimento di nuove risorse e conseguente pressione sui loro prezzi. A maggior ragione, ciò vale quando essa si dà determinati obiettivi settoriali. Per esempio, puntare sull’auto elettrica.

Inoltre, è il principale hub globale nel reticolo degli scambi commerciali internazionali. Lo è inevitabilmente, visto che è il primo paese esportatore, con una quota di oltre il 10%, seguita da USA (7,5%) e Germania (4,6%). L’Italia è ottava (con il 2,7%), davanti alla Francia (2,6%), e la Svizzera è undicesima (2,2%).

La supremazia della Cina aumenta se l’export viene misurato, anziché con il suo valore facciale, con il metro del valore aggiunto del paese esportatore contenuto in quell’export. Questo aumento significa che le esportazioni cinesi originano da produzioni più integrate verticalmente all’interno delle filiere cinesi di quanto non siano le esportazioni degli altri Paesi con cui si confronta nell’arena globale. Per capirci, un modello totalmente opposto è quello tedesco, di Bazar-economy, dove la Germania molto assembla di quanto prodotto altrove, e quindi il suo ranking peggiora quando si passa dal valore dell’export al valore aggiunto tedesco incorporato in quell’export.

La forte integrazione verticale cinese si presta ad almeno tre letture, che non si escludono. Prima lettura: c’è un forte retaggio autarchico che proviene dalla storia lontana e postrivoluzionaria cinese; l’isolazionismo era figlio di quel sentimento di superiorità di cui si è accennato sopra, giustificato fino al XV secolo dalla indubbia supremazia tecnologica e amministrativa; ed era funzionale al controllo centrale, attraverso la rete efficiente dell’élite selezionata dei burocrati.

Seconda lettura: il maggior contenuto di valore aggiunto e l’integrazione verticale comportano maggiore occupazione interna, fondamentale per un Paese che aveva bisogno di affrancarsi il più rapidamente possibile dalla miseria e dalla fame; ciò, rispetto al teorico modello ricardiano dei vantaggi comparati, va a discapito dell’efficienza, ma con un lavoro così poco costoso non era la priorità sul piano competitivo.

Terza lettura: essere integrati significa padroneggiare tutte le fasi delle lavorazioni, e quindi impadronirsene anche attraendo investimenti esteri; ciò apre la via all’upgrading qualitativo e la penetrazione di settori e mercati più sofisticati, di maggiore qualità e di più alta tecnologia, per una nuova fase di sviluppo.

Un modo diverso di guardare allo stesso fenomeno, con un taglio che parte dal ruolo cinese in vari mercati merceologici, è dall’angolatura della composizione dell’import e dell’export di beni materiali della Cina, rispetto sia al totale della Cina stessa sia al totale mondiale.

Ne emerge che il 40% delle importazioni cinesi è costituita da materie prime. Rispetto ai mercati mondiali di tali commodity, l’incidenza cinese varia molto: dall’11% per cento di quelle alimentari al 31,1% per gli input non agricoli e non energetici. Ma il peso maggiore si registra per gli acquisti di componenti elettroniche (compresi microchip), pari al 38,7% del totale globale.

In quest’ultimo comparto la Cina è un grande produttore ed esportatore, visto che le sue vendite all’estero sono equivalenti al 21,8% dell’export mondiale. Tuttavia, la maggior parte di queste importazioni sono incorporate in altri manufatti: dagli elaboratori dati e attrezzature per ufficio (40,6%), alle apparecchiature per comunicazioni (che include gli smartphone, 39,5%) e i macchinari (sulla scia del crescente machine-learning, 41,2%).

È interessante notare che, sebbene la Cina detenga una sorta di quasi-monopolio nel tessile e nell’abbigliamento, giacché le sue esportazioni sono rispettivamente il 41,1% e il 32,1% dell’insieme globale, tuttavia la loro importanza sulle esportazioni cinesi è davvero contenuta (9% nell’insieme), a significare l’affrancamento del Made in China da produzioni considerate a minor contenuto innovativo e tecnologico. Ben più rilevanti sono i prodotti con contenuto digitale (25,3% nel complesso), macchinari (14,8% e mezzi di trasporto (8,5%), oltre alla voce miscellanea degli altri manufatti (dove ci sono i mobili, i prodotti in gomma, 25,4%).

In Cina l’upgrading manifatturiero è ancor meno un processo spontaneo di quanto lo sia nei Paesi occidentali, dove gli obiettivi industriali sono perseguiti via budget della difesa o altri tipi di strumenti (per esempio, in USA l’Inflation Reduction Act contiene chiare misure mirate all’import substitution). Le autorità cinesi hanno varato programmi di politica industriale fin dai primi anni 80 e l’ultimo piano risale al 2015, ha valenza decennale ed è significativamente intitolato Made in China 2025.

L’obiettivo è di rendersi indipendenti da semilavorati e beni strumentali acquistati all’estero in settori strategici. Ciò comporta dotarsi di tecnologie e competenze ed essere poi in grado di sviluppare le une e le altre autonomamente.

Il passaggio non è né semplice né scontato negli esiti, e tuttavia è perseguito con grande determinazione e nessuno scrupolo, utilizzando un ventaglio di strumenti per pilotare il sistema nella direzione voluta: controllo diretto di produzione e intermediari finanziari, con imprese statali; sussidi a privati che si impegnino a perseguire obiettivi strategici condivisi; trasferimento forzato di tecnologia da imprese estere che investono in Cina; acquisizioni di imprese all’estero. E sembra ci stia riuscendo, a giudicare dal primato raggiunto nei brevetti attivi (3,6 milioni nel 2021, contro il 3,3 USA e i 2 del Giappone).

Cina: i settori strategici su cui punta

I settori strategici in cui la Cina vuole aumentare la quota di mercato interno servita da produzione domestica sono: aeroplani a fusoliera larga; chip telefoni; grandi trattori e mietitrici; apparecchiature mediche avanzate; robot industriali; apparecchiature per energia rinnovabile; componentistica navale; veicoli green.

Nasce da qui l’azione statunitense volta a contrastare o almeno ad arginare l’ascesa cinese come potenza tecnologica. Dopo averne favorito l’inserimento e l’integrazione nel commercio internazionale perché allora era considerata vantaggiosa per gli Stati Uniti che erano usciti vittoriosi dalla Guerra fredda e che si ritenevano, peccando di hybris, l’unica superpotenza planetaria.

La politica industriale in grande stile fu riscoperta sotto la Presidenza Obama e sull’onda della Grande crisi finanziaria, facendo l’amara scoperta che gli USA non potevano riportare subito a casa le produzioni di smartphone perché non avevano competenze e tecnologie pari a quelle cinesi. L’imposizione di dazi elevati, la messa al bando di alcuni marchi cinesi, i forti incentivi per attrarre produttori esteri (per esempio, taiwanesi) o trattenere quelli nazionali (Intel) e il divieto di esportare tecnologie sofisticate in Cina sono tutte misure parte della strategia di contenimento, se non di contrasto dell’ascesa della potenza cinese.

La quale, tra le altre cose, ha varato un lungo e complesso programma di esplorazione della Luna, che ha l’obiettivo di creare una base abitata al Polo Sud del satellite. Le prime tre fasi del programma sono state portate a termine con successo (compresi allunaggi con prelievi di materiali) ed ora è entrato nella quarta e finale. Quindi, anche nella space economy, di cui ci si è occupati nella Newsletter XXI, la Cina gioca da primattrice.

Come dimostra il rover, battezzato Zhurong (figura mitologica del sole e della luce) attraverso un concorso popolare e fatto atterrare su Marte nel 2021; è stato capace di trasmettere informazioni per quasi un anno, nonostante fosse stato progettato per durare tre mesi. Solo gli USA erano riusciti a fare altrettanto.

Per fare un altro esempio di posizionamento d’avanguardia tecnologica, la Cina sta rivaleggiando, sempre con gli USA, nell’innovazione di estrema frontiera del quantum computing, ossia nell’uso degli atomi anziché dei transistor e di un sistema non più binario 0-1 ma dell’infinità di numeri compresi nell’intervallo 0-1, con capacità di calcolo e memoria e quindi velocità milioni di volte superiori ai computer tradizionali che usiamo correntemente. I computer quantici avrebbero la capacità di violare qualunque sistema di sicurezza informatica esistente. Un problema non piccolo, tanto che frena la corsa a questa innovazione, finché non sarà stato risolto inventando sistemi di protezione adeguati.

Il punto fondamentale da comprendere è che la Cina ha spostato nettamente e da una decina d’anni le priorità di policy: dalla crescita trainata dall’export, per pagare gli acquisti dall’estero di beni necessari allo sviluppo, alla crescita tirata dalla domanda interna, servita dalla produzione domestica; dal pilastro del manifatturiero a quello dei servizi, per soddisfare consumatori più ricchi ed esigenti. Servizi che si arricchiscono di migliori cure sanitarie, che sono ancora duali: con maggiore copertura per la popolazione urbana occupata (circa un terzo del totale) e basilare per quella rurale e disoccupata.

L’obiettivo finale è la prosperità condivisa. Questo termine non è affatto nuovo nella storia della Repubblica popolare. Ma è stato variamente interpretato, passando dall’egualitarismo assoluto, con collettivizzazione dei mezzi di produzione, nell’era Mao, alla facoltà per alcuni (individui e territori) di crescere prima, per aiutare poi gli altri, nella fase di Deng, alla riscoperta sotto Xi del livellamento (ma non dell’egualitarismo), con l’intento di evitare l’allargamento delle diseguaglianze, foriere di divisioni sociali, polarizzazione politica e populismo. Il maggior controllo statale è lo strumento per smussare le punte dei più alti livelli di reddito e, al contempo, mantenere un welfare leggero che incentivi il lavoro.

Rilanciando la demografia. Secondo la proiezione centrale dell’ONU la popolazione cinese passerebbe dagli attuali 1,426 miliardi a 771 milioni a fine secolo, pur con una leggera risalita del tasso di fertilità. Quella indiana è proiettata a 1,533 miliardi.

Supremazia tecnologica, accesso pacifico alle fonti delle materie prime e controllo dei divari distributivi sono i tre pilastri della strategia cinese. Nessuna nazione, dall’avvento del rapido sviluppo economico con la Rivoluzione industriale, è mai riuscita a tenerli insieme, ma neanche si era prefisso di farlo in modo altrettanto cogente. Che la Cina riesca in questo secondo, più sfidante, miracolo andrà verificato nel tempo, tenuto conto che lo sviluppo economico porta con sé aneliti di libertà che il sistema politico inibisce (primum vivere, deinde philosophari). 

In fondo, sono le stesse linee guida del confucianesimo, una sorta di cristianesimo non trascendentale nato in Cina alcuni secoli prima dell’Avvento di Cristo. E che è stato riscoperto quarant’anni fa e rilanciato negli anni Duemila dalle stesse autorità cinesi, in nome dell’armonia sociale e di uno spiritualismo che mantenga un certo distacco dalle ricchezze materiali (per una lettura originale del confucianesimo Il Cristo zen: alla ricerca di un Gesù mai raccontato, Raul Montanari).

Confucio elaborò una concezione etica dell’uomo e di ammaestramento alla condotta di un’esistenza che porti alla realizzazione di sé in modo compatibile con la creazione di una comunità prospera e armoniosa. I suoi insegnamenti sono racchiusi nei Dialoghi, che raccolgono pensieri e aforismi.

Per la Cina gli individui non sono tutti uguali

Alla base della sua visione dell’umanità c’è la concezione che gli individui umani non siano tutti uguali (che è invece un pilastro del cristianesimo e del diritto occidentale) e che le persone siano molto diverse per intelligenza, attitudini e moralità. Inoltre, l’elevazione nasce dall’istruzione. Caratteristiche individuali e studio plasmano la classe dirigente, composta da persone savie e da loro nasce il «buon governo». Tutto questo è l’esito di un processo evolutivo lungo quanto la storia della Cina stessa.

L’insegnamento e la filosofia di Confucio non solo hanno influenzato tutto il pensiero filosofico, artistico e religioso cinese, ma sono anche alla base del taoismo, dello zen e di una parte del buddismo. E quindi le culture coreana, giapponese e vietnamita. Ma con esiti, sul piano dell’organizzazione sociale, diversi.

Il senso del pensiero confuciano è ben racchiuso in questa celebre frase del maestro: «Mi chiedi perché compro riso e fiori? Compro il riso per vivere e i fiori per avere una ragione per cui vivere». Etica ed estetica, senso pratico e amore della bellezza a braccetto.

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