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Dai consumatori lunga vita alla ripresa USA

Prosegue la creazione di posti di lavoro americani e ciò, insieme a un buon aumento dei salari reali, alimenta fiducia e spesa, mentre l’alto tasso di risparmio garantisce che non ci sono eccessi

L’economia mondiale sta ripartendo. O meglio: riparte nel suo secondo motore, che è la Cina. Sia l’indicatore anticipatore OCSE sia i dati PMI coincidenti  (il composito è ai massimi da 21 novembre) fanno vedere una significativa accelerazione del colosso asiatico, che si trainerà dietro tutte le economie che le gravitano attorno.  Giappone, Sud Corea, Vietnam, Indonesia, Singapore e Malesia hanno tutti visto migliorare gli indici di attività in novembre.

All’estremo opposto c’è l’area euro, che rimane incollata a una semi-stagnazione. Il manifatturiero continua ad arretrare ancora con grande velocità, e a novembre è stato il turno della Repubblica Ceca di patire la botta delle difficoltà dell’industria tedesca, assieme all’Italia e ai Paesi Bassi. Quanta strada ci sia da percorrere prima di vedere la fine del tunnel per il manifatturiero teutonico (e di conserva per quelli suoi fornitori) ce lo ha ricordato la caduta della produzione industriale in ottobre: -1,7% mensile l’attività nel manifatturiero (dopo -1,3% in settembre); ritmi di contrazione superati solo nella Grande Recessione. E la nuova flessione degli ordini (-0,4% su settembre) dice che la svolta non ci sarà a breve.

Il buco nero dell’auto sta inghiottendo domanda e capacità produttiva; se si pensa che un’auto elettrica ha una componentistica che è una frazione di una con motore a scoppio e richiede molta meno manutenzione, la distruzione di valore aggiunto e occupazione è evidente e si dipanerà per molti anni, nell’industria e nei servizi. Piovendo sul bagnato, alla crisi dell’auto si aggiunge quella delle banche, che occupano 1,8 milioni di persone; secondo alcune stime dovranno essere tagliate di un quarto. Ci saranno sicuramente maggiore efficienza e produttività, ma il morale delle famiglie e dei consumatori non trarrà giovamento dall’andamento del mercato del lavoro, perché nuovi posti saranno creati ma meno sicuri e meno retribuiti. In generale, se anche il posto in banca non è più (e da tempo) una cassaforte occupazionale a vita, l’ansia si diffonde. I consumi ne patiscono: le vendite al dettaglio in volume sono scese dello 0,6% mensile a ottobre, dopo il -0,2% di settembre, cosicché la variazione annua si è quasi dimezzata rispetto all’estate (a +1,4%).

A ciò si aggiunge l’incognita della Brexit, che non è detto venga sciolta dal voto del 12: se proseguisse l’erosione del vantaggio Tory, avremmo un altro parlamento bloccato e si andrebbe a un nuovo referendum; se invece Johnson riuscisse a spuntarla, altre crepe si aprirebbero dentro il Regno che diverrebbe molto meno Unito (separazione di Scozia, Irlanda del Nord e, forse, Galles). Lo stress per ora viene pagato soprattutto dall’economia britannica, con il PMI composito in area contrazione e la fiducia sotto le scarpe. Le onde negative si fanno sentire al di qua della Manica.

In mezzo tra i due poli, quello positivo e quello negativo, ci sono gli USA, che si mantengono su quel sentiero di crescita moderata (intorno al 2%: da metterci la firma noi europei!) che per la FED è il migliore dei mondi possibili. Novembre ha portato segnali contrastanti, in realtà. Nelle due versioni, ISM e Markit, il PMI è tornato a divaricare sensibilmente sia nel manifatturiero sia nel terziario. Chi dice il vero? Markit è più affidabile, per rappresentatività del campione, nel dare lumi sulla dinamica dell’economia americana. Sono comunque numeri non da andamento pimpante, piuttosto modesto.

Il la è dato ancora una volta dalla spesa dei consumatori, ma le statistiche sono inquinate dallo sciopero GM (mentre nell’Eurozona hanno iniziato proprio a tirare i remi in barca). La job machine macina aumenti di occupazione del’1,6% annuo (primi undici mesi 2019), senza rallentare il passo dal 2018, e con l’incremento del 3,0% della paga settimanale porta a un +4,6% nel monte salari (+2,8% reale). Intanto, c’è stato un aumento vivace degli ordini, durevoli e non: una promessa di maggiore produzione futura.

È un quadro globale in progresso: il composito globale è salito a 51,5 dal minimo di 44 mesi toccato in ottobre. Ma non c’è molto da festeggiare. Specie con l’autoproclamato «genio equilibrato» che tweetta guerre tariffarie contro l’universo mondo (e meno male che non commerciamo ancora con Marte!).

La navicella italiana in questo mare procelloso imbarca acqua, ma riesce a fare un po’ meglio della Germania ed è a un’incollatura dell’insieme dell’area euro. La fiducia delle imprese è tornata a scendere, insieme ai giudizi sugli ordini; quelle della filiera dell’auto sono bloccate dalle scelte tedesche di abbandonare il diesel per darsi all’elettrico. Le scorte continuano a essere tagliate, ma meno velocemente di prima e ciò spinge su il Pil. I consumi hanno messo a segno un forte aumento nel terzo trimestre (+1,6% annualizzato), grazie anche all’effetto reddito di cittadinanza, che già verrà meno nel quarto; tanto più che la fiducia delle famiglie è scesa molto a novembre. Mentre arretrano gli investimenti diversi dalle costruzioni. La continua fibrillazione politica non fa tornare la voglia di spendere.

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