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Trump, Facebook e il caso Bannon

La radicalizzazione politica o il tribalismo ideologico non sono la causa ma l’effetto di una pubblica opinione distorta che nasce dall’appiattimento delle menti in uno schema a senso unico che esclude il dialogo e il confronto con idee diverse – Il caso Bannon, l’ideologo estremista che azzanna gli avversari a colpi di fake news che solo di recente Trump ha allontanato dalla Casa Bianca, ha molto da insegnare.

Trump, Facebook e il caso Bannon

L’incapsulamento delle menti 

Oggi il problema non è la radicalizzazione politica o il tribalismo ideologico. Queste sono le conseguenze. Il problema è l’incapsulamento delle menti della maggioranza delle persone in uno schema e in una visione totalmente impermeabile e rimbombante. Che la causa sottostante sia la crescente ineguaglianza economica provocata dal capitalismo contemporaneo, come dicono i progressisti, oppure la sana risposta immunitaria all’attacco di virus letali ai valori fondativi della comunità occidentale, come dicono i conservatori e i gruppi religiosi sempre più determinanti, oppure gli effetti della tecnologia sulla vita pubblica, come sostengono i tecnoscettici, non è dato saperlo. L’incapacità delle classi dirigenti tradizionali a confrontarsi efficacemente con questa nuova dimensione della sfera pubblica nelle società post-industriali, ha acuito questo fenomeno che sottotraccia c’è sempre stato, ma mai in queste dimensioni. Sta di fatto, però, che l’incapsulamento delle menti è una enorme forza in azione e una forza pericolosamente disgregante, perché agisce come il virus di “The Walking Dead”: l’unico istinto è azzannare. 

Nel 2015 un gruppo di studio interno a Facebook ha pubblicato i risultati di un’indagine che ha indagato per sei mesi il comportamento di 10 milioni di utenti della news feed di Facebook che si erano esplicitamente dichiarati liberal o conservatori. Lo scopo di questa indagine era quello di comprendere quali mezzi potevano essere efficaci a combattere il fenomeno della eco-chamber che spronava il dilagare delle fake news e l’incitamento all’odio. Come si poteva stimolare un lettore apertamente schierato a confrontarsi con un punto di vista differente o con una versione alternativa dei fatti? Poteva Facebook fare qualcosa come domandavano molti settori della pubblica opinione? 

Lo studio ha mostrato che il 30% dei contenuti nella news feed di questi utenti era costituito da post che contenevano un’opinione contraria alla propria, che lo studio chiamava “cross cutting articles”. Il sistema di filtraggio dell’algoritmo, che Eli Pariser aveva definito “The Bubble Filter” selezionava una cospicua quantità di questi articoli, contrariamente a quanto era stato scritto da osservatori come lo stesso Pariser o Cass. R. Sunstein. L’indagine, però, mostrava anche che i “cross cutting articles” (articoli trasversali) venivano spesso ignorati dai lettori che tendevano a approvvigionarsi e condividere le opinioni o il fatto raccontato nel post che sentivano più prossimo al proprio sentire. C’era un traffico piuttosto smilzo sui post alternativi, che restavano dei vicoli senza sfondo nella più trafficata avenue del mondo. 

Risultava infatti che nella news feed di Facebook solo il 6% degli utenti liberal cliccava su post di opinione opposta, contro il 17% di quelli di opinione conservatrice che sembravano più disposti al confronto. I liberal inoltre erano connessi ad amici meno propensi dei conservatori a condividere post di opinione contraria. Solo i post del Washington Post ricevano un consenso, diciamo, bypartisan. Altri indicatori mostravano che era proprio l’opinione liberal la più incline al fenomeno dell’echo-chamber. I liberal si erano asserragliati in una camera di risonanza con un volume molto più alto di quello dei conservatori. Forse anche per questo rinserramento non hanno visto arrivare e capito le radici profonde del trumpismo. 

News Feed, nutrimento a senso unico 

In ogni caso gli utenti tendevano a nutrirsi fortemente di opinioni simili alle proprie e con gli amici condividevano soprattutto quelle opinioni. I fatti che venivano soprattutto considerati, condivisi e inseriti nei meccanismi virali del social media erano quelli organici alla propria visione, cioè quelli che confermavano la fondatezza della propria opinione. 

L’indagine interna giungeva dunque alla conclusione che il fenomeno della eco-chamber era operativo, ma meno esteso di quanto si pensava e che la capacità di Facebook di influire sulla diversità della dieta informativa dei propri utenti era minima. Erano le scelte individuali (e quelle degli amici) a pesare molto di più degli algoritmi di filtraggio. Le persone tendevano a schermarsi spontaneamente dai contenuti che non condividevano. Conclusione: il social media poteva fare ben poco per implementare il dialogo politico sulle proprie pagine e tanto valeva mantenere il meccanismo di filtraggio impostato sui criteri meramente quantitativi di rilevanza. 

Però Facebook non è così innocente o impotente come voleva far credere in questo studio perché i suoi algoritmi di filtraggio tendono a favorire il fenomeno dell’eco-chamber piuttosto che a combatterlo. Lo stesso modo in cui è organizzata e strutturata l’informazione nella news feed, cioè intorno agli interessi delle persone profilati dagli algoritmi di analisi e di filtraggio sulla base della rilevanza individuale, non aiuta il dialogo e l’allargamento degli orizzonti conoscitivi della comunità di utenti, ma perimetra definitivamente il suo campo visivo, come le enclosure recintavano gli spazi comuni e li sottraevano all’uso generale. Il risultato, scrive Eli Pariser nel suo “The Filter Bubble”, è che ognuno vive la propria vita in un mondo fatto su misura e in una indisturbata solitudine in compagnia di assoluti omologhi all’interno della gabbia dei filtri. Un club a numero chiuso come lo era l’Accademia di Platone che non ammetteva coloro che non conoscevano la geometria. 

Così, nel luogo più importante dell’informazione, la sfera pubblica viene privata della sua natura di luogo di confronto e di approvvigionamento di idee. Ecco che cosa può provocare il sistema di filtraggio dei social media se non corretto da una task force di editor. Come scrive Andrew Marantz sul New Yorker, Internet ha mandato al parco i vecchi guardiani dei contenuti per sostituirli con dei nuovi gatekeeper ancor più selettivi, i filtri invisibili e inesorabilmente efficienti. Pariser spiega molto bene questo fenomeno nel suo talk al TED disponibile su YouTube (sottotitolato in italiano), che dura solo 9 minuti. 
 
Difficile trovare in giro un incapsulatore di menti più sopraffino di Steve Bannon. Il suo sito di informazione, Breitbart News, che egli vede come la piattaforma degli alt-right, ha fatto dell’incapsulamento mentale una vera e propria scienza, portando alle estreme conseguenze sulla rete quello che Roger Ailes ha iniziato in televisione con Fox News. Eppure la mente di Bannon è tutt’altro che incapsulata. 

Anzi come scrive Gillian Tett, sul Financial Times, Steve Bannon, ormai fuori dalla Casa Bianca, ha molto da insegnare ai suoi avversari liberal. La direttrice dell’edizione americana del Financial Times ha fatto visita alla Casa Bianca a Bannon il quale l’ha accolta nella propria war room. Nonostante che egli la consideri una pericolosa globalist e il suo giornale un avversario ideologico al pari della CNN, di Wall Street, della Silicon Valley e dei repubblicani di ispirazione randiana, ha conversato a lungo con la Tett e le ha esposto le proprie idee. La Tett ne è uscita, indubbiamente colpita a riprova che il confronto reale con le opinioni differenti arricchisce e contribuisce al miglioramento delle relazioni. 

Ecco il resoconto che la Tett ha fatto sul quotidiano finanziario e le ragioni per la quale si dice convinta che gli avversari hanno da imparare qualcosa da quest’uomo, che l’Economist, il cui corrispondente a Washington ha, a sua volta, fatto visita a Bannon, definisce il più influente d’America. L’articolo porta il significativo titolo “What the left can learn from Bannon”. 

Non aspettatevi Fox News 

All’inizio dell’anno ho avuto l’occasione di conversare con Steve Bannon, chief strategist dell’amministrazione Trump fino alla scorsa settimana. L’ho incontrato nella, come lui la definisce, war room alla Casa Bianca e come molti altri visitatori sono stata colpita dai piani di battaglia sparsi nel suo bunker: poster su cui erano annotati i suoi obiettivi, elencati per priorità e con un segno di spunta su quelli andati a segno. 

Io però ero più interessata a ciò che veniva trasmesso sugli schermi delle TV allineate nella sua stanza. Alcune figure della Casa Bianca, come il vice-presidente Mike Pence, lavorano in una stanza con un solo televisore invariabilmente sintonizzato su Fox News, dal momento che questo è il canale più vicino alla presidenza e al Partito Repubblicano. Altre figure hanno più di una TV. Jared Kushner, il cognato di Trump e consigliere anziano del Presidente, per esempio, ha quattro televisori con uno schermo di uguali dimensioni su cui c’è un bilanciamento tra canali di sinistra e di destra, visto il suo desiderio di barcamenarsi tra differenti gruppi di interesse. 

Per Bannon è differente: ha quattro piccole TV che trasmettono una vasta gamma di notizie e una quinta al centro della stanza che non è sintonizzata su Fox, ma sulla CNN, un canale che ripetutamente Trump ha additato come fabbrica di “Fake News”. La ragione di ciò è che Bannon desidera “osservare il nemico” piuttosto che rimanere dentro la confortevole cassa di risonanza della propria gente. 
 
Il futuro di Bannon 

È una bella sfida intellettuale, anche per il partito repubblicano per non parlare del resto del mondo, cercare di capire che cosa farà Bannon dopo aver lasciato la Casa Bianca. Durante i miei vent’anni come giornalista ho coperto molte personalità politiche ed economiche nel mondo, ma Bannon è una delle figure più affascinanti che abbia mai incontrato.

Lasciando da parte il fatto che è estremamente intelligente con delle buone letture, ciò che mi colpisce di lui è che sembra avere una quasi-antropologica comprensione del potere dei simboli e dei modi di definire l’identità che egli riesce a manipolare per portare avanti i propri obiettivi. Non mi piace il suo nazionalismo economico e rifuggo con orrore dal movimento degli alt-right e dalla sua ideologia razzista. Quando era ancora il presidente di Breibart, il sito di informazione di destra, Bannon disse a un reporter del settimanale progressista Mother Jones che Breitbart era la piattaforma degli alt-right. Ciò è all’antitesi della mia visione del mondo. Ma la coerenza dei suoi principi è indubbiamente elevata, particolarmente se consideriamo che molti politici mancano di principi e di passione. E io ammiro il suo chiaro senso della strategia e il suo desiderio di considerare e analizzare l’intero ecosistema politico e informativo anche se ciò include la CNN che rappresenta tutto ciò che egli aborre. 

Quindi c’è poco da meravigliarsi se Bannon decide di parlare con il magazine progressista American Prospect dimenticando, apparentemente in modo accidentale, che avrebbe potuto pubblicare le sue parole (è proprio l’intervista che ha portato al suo licenziamento). Neppure sono rimasta sorpresa quando ha detto che ama leggere il Financial Times (ci sono molte foto che lo ritraggono con il giornale sotto il braccio). È facilmente prevedibile che sarà determinato a usare Breitbart come la piattaforma per continuare a promuovere la sua rivoluzione. E non è ancora chiaro quale minaccia ciò possa costituire per la Casa Bianca. Ci sono opinioni disparate su come Bannon possa controllare la base elettorale di Trump e di quale supporto economico possa ancora ricevere dalla famiglia Mercer, l’appartato finanziatore repubblicano che ha investito in Breibart. Ma una cosa è chiara. Bannon non starà con le mani in mano. Al contrario, sta dicendo agli amici che adesso si sente più forte e libero di prima nel gestire la propria campagna, fosse solo per la sua conoscenza del funzionamento della Casa Bianca e del modo in cui Trump può essere manipolato. 

La lezione di Bannon 

Naturalmente ciò terrorizza molti repubblicani. Mentre grande parte dell’establishment tradizionale si strofina le mani per la contentezza, bisognerebbe, invece, che si chiedesse che cosa può imparare di utile dalla lezione di Bannon. Non sto dicendo neanche per un attimo che deve abbracciare le sue idee, ma la decisione di Bannon di monitorare l’intero ecosistema dei media dovrebbe essere mantenuta. Come ho scritto più volte sulle colonne del giornale, oggi i media americani tendono ad essere tribali. I consumatori di informazione di idee liberal, per esempio, sono intrappolati in una camera di risonanza intellettuale che a malapena ha lasciato spazio alla comprensione dell’impatto degli alt-right prima che venissero proiettate le riprese della dimostrazione neonazista a Charlottesville in Virginia. 

Se i critici di Bannon desiderano contrattaccare hanno bisogno di uscire dal loro proprio bozzolo e iniziare a cliccare su Breibart, guardare Fox, leggere i message group su Reddit e iniziare ad ascoltare la radio quando ci sono ospiti di destra come Glenn Beck. Se ciò è già troppo per loro, potrebbero iniziare a dare un’occhiata ai commenti conservatori su mindingthecampus.com, un sito web che esplora i conflitti culturali che avvengono nelle università. Ovviamente questo passo non sarà facile per molti. Ma se non ci piace quello che accade oggi, dobbiamo almeno capirlo. Come Bannon sa, ciò non può accadere approvvigionandosi a un’unica fonte, sia questa la CNN o qualsiasi altra.

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