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Tecnologie e diseguaglianze, i pentimenti della Silicon Valley

Il ravvedimento sugli effetti delle nuove tecnologie sul lavoro e sulla società sta diventando uno dei mood prevalenti tra i fondatori di start up e tra gli inventori della Silicon Valley – Lo strano reddito di base proposto dal co-fondatore di Facebook

Tecnologie e diseguaglianze, i pentimenti della Silicon Valley

Ravvedimento, il nuovo mood? 

Il pentimento è una delle proprietà più nobili e progressive dell’essere persona. L’incapacità di pentirsi può condurre all’annichilimento come avviene per Don Giovanni e Smerdiakov. La capacità di pentirsi porta invece alla redenzione come avviene per Raskolnikov. Il ravvedimento, non sempre operoso, sta diventando uno dei mood prevalenti tra i tecnologici, i fondatori di start-up e gli inventori che popolano la Silicon Valley. 

Il più pentito dei pentiti è Jaron Lanier il cui nome viene sempre associato alla nascita della realtà virtuale. Adesso scrive libri. In due di questi, Tu non sei un gadget (Mondadori) e La dignità ai tempi di Internet (Saggiatore), ha spiegato il tradimento della tecnologia e la necessità di una cyber-ribellione contro lo stato delle cose. Nella recente autobiografia Dawn of the New EverythingEncounters with Reality and Virtual Reality riflette sul suo rapporto con la tecnologia. Un’opportunità per cambiare davvero il mondo se non fosse stata dirottata dalla Silicon Valley che non si cura e non comprende le conseguenze delle proprie azioni. 

Poi c’è Ev Williams, uno dei fondatori di Twitter, che ha pubblicamente riconosciuto il ruolo assolutamente nefasto del microblog nella conversazione pubblica globale. Per riparare ha fondato Medium una piattaforma di pubblicazione online dove la fanno da padrone i contenuti argomentativi; non c’è pubblicità e si finanzia attraverso gli abbonamenti. In effetti Medium è una delle cose migliori del web e quindi si può dire che il ravvedimento di Williams è stato molto operoso. 

Chris Hughes: che cosa dopo Facebook? 

Più tortuosa la vicenda di Chris Hughes, 35 anni. Hughes condivideva ad Harvard il dormitorio con Mark Zuckerberg, Eduardo Saverin e Dustin Moskovitz e insieme a loro ha avviato The Facebook, che Hughes ha lasciato nel 2007 per impegnarsi nella campagna elettorale di Barack Obama. 

Cinque anni dopo, nel 2012, Hughes ha acquistato un’istituzione della stampa progressista come “The New Republic” di cui è diventato anche amministratore. Di fede assolutamente democratica, coniugato a Sean Eldridge (l’unione è una delle coppie gay più potenti d’America) e forte del successo elettorale di Obama, Hughes sembrava la persona mandata dal destino per portare lo storico think-thank liberale verso la sicurezza economica. 

Il nuovo proprietario si proponeva di portare alla redditività la testata che nel 2012 aveva perduto 3 milioni di dollari. Bene, dopo neppure due anni di “cura Hughes”, il direttore responsabile, il direttore editoriale e una dozzina di giornalisti di “The New Republic” se ne sono andati via malamente o sono stati mandati via per contrasti insanabili con la proprietà. Franklin Foer, top editor di “New Republic” e altro tecno-scettico, nel suo ultimo importante, dibattuto e controverso libro, World Without Mind: The Existential Threat of Big Tech, ha tratteggiato un ritratto piuttosto tagliente del giovane Hughes con il quale ha lavorato per due anni, prima di essere bruscamente licenziato. 

Nel gennaio 2016 Hughes annunciava allo sbigottito staff del giornale che avrebbe lasciato la direzione della testata e ceduto la sua partecipazione. Lo annunciava con queste parole: 

Dopo avere investito tempo, energie e oltre 20 milioni di dollari sono arrivato alla conclusione che è tempo per una nuova leadership e una nuova visione a “New Republic”. 

Questa amara vicenda, iniziata con tante aspettative, ha convinto molti che il matrimonio tra la visione dei tecnologi e il giornalismo classico è molto problematico e può essere distruttivo per quest’ultimo. A tirar su il morale c’è, però, l’esempio contrario del “Washington Post” che, dopo l’acquisizione da parte di Jeff Bezos, sta conoscendo una nuova magnifica stagione. 

Viaggio in paradiso 

Chris Hughes ha appena finito di scrivere un libro che sta per essere pubblicato col titolo Fair ShotRethinking Inequality and How We Earn (St Martin’s Press, $19.99, 224 pagine). Il libro, stando alle anticipazioni della stampa e ai brevi estratti pubblicati, si può sommariamente dividere in due parti, la prima racconta la vicenda che conduce un giovane della provincia americana a raggiungere i vertici della ricchezza attraverso una serie di fortunate circostanze. Una storia che avrebbe potuto costituire la trama di un racconto di Fitzgerald ambientato nei dorati anni venti… a cui però fa seguito la più grande crisi economica del mondo contemporaneo. 

Quella di Hughes è, infatti, una favola che incarna il sogno americano. Cresciuto in una famiglia luterana di scarsi mezzi nella Carolina del Nord, accolto in un collegio di prestigio come Andover e quindi entrato ad Harvard con una borsa di studio, ha la fortuna di imbattersi e solidalizzare con Zuckerberg e quindi, grazie a Facebook, di diventare miliardario dall’oggi al domani. 

Poi c’è l’impegno con Barack Obama a cui porta la sua conoscenza della rete e dei nuovi media. Segue quindi il vano e doloroso tentativo di mettere in sicurezza una grande testata come “The New Republic” a cui intende apportare la visione della nuova economia. Un’esperienza che lo segnerà profondamente e farà da viatico alle successive scelte. 

Infine arriva la presa di coscienza che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modello sociale che si va affermando a seguito della grande trasformazione portata delle nuove tecnologie. 

Viaggio all’inferno 

La seconda parte del libro racconta la presa di coscienza delle conseguenze e dei rimedi del tradimento della tecnologia. Le nuove tecnologie hanno finito con l’aumentare la disuguaglianza, hanno attratto grandi risorse economiche senza redistribuirle efficacemente. I posti di lavoro perduti non sono stati rimpiazzati e neppure si è trovato un valido sistema di compensazione della ricchezza perduta. 

I rapidi progressi tecnologici, la globalizzazione e la finanziarizzazione stanno mandando al tappeto dalla classe media — scrive Hughes. 

Si tratta di un problema enorme. Per il quale occorre un programma politico. Ed è probabilmente questo il terreno sul quale si svilupperà il terzo episodio della vita del giovane miliardario. 

Da questa presa di coscienza parte la sua formazione come attivista politico contro la disuguaglianza. Si reca due volte in Kenya per studiare i diversi tentativi di combattere la povertà estrema. Il primo viaggio lo compie con Jeffrey Sachs, l’economista della Columbia University, per studiare il Millennium Villages Project, un esperimento per assicurare a una delle popolazioni più povere del mondo una vita dignitosa. Il secondo viaggio lo compie con un altro economista, Michael Faye, fondatore del progetto GiveDirectly, che si propone semplicemente di trasferire denaro a coloro che vivono con meno di un dollaro al giorno. 

Dopo avere comparato questi due approcci Hughes giunge alla conclusione che la soluzione più semplice e efficace è quella di trasferire denaro alle persone piuttosto che tentare di costruire le condizioni per il loro sviluppo. Da questa convinzione nasce la sua totale adesione al progetto del reddito di base universale. Per promuoverlo Hughes ha fondato l’Economic Security Project, una organizzazione non profit che si prefigge di distribuire risorse ai poveri. 

Un reddito di base… o qualcosa di diverso? 

In realtà, come spiega sul New York Times Felix Salmon, un reporter finanziario, quella di Hughes è una variante piuttosto problematica del reddito di base. La proposta di Hughes non è, infatti, universale ma va a supportare solo i cittadini con un lavoro sopra ai 6mila dollari all’anno e con un familiare a carico con meno di 6 anni o più di 70. 

I nuclei familiari con un redito superiore a 50 mila di dollari sono esclusi dal sussidio. Come lo sono esclusi coloro che hanno un reddito inferiore a 6mila dollari. Questi “poveri” continueranno ad essere assistiti dal sistema previdenziale classico. Ai 42 milioni di nuclei americani che sembrano rientrare in questi parametri la comunità verserà un assegno di 500 dollari al mese per ciascun componente che guadagna più di 6mila dollari all’anno. Questi pagamenti saranno fatti tramite lo schema del credito d’imposta sui redditi da lavoro. 

Salmon nota che ben 80 milioni di nuclei familiari americani resterebbero esclusi dal programma proposto da Hughes e commenta 

I sostenitori del reddito di base universale, soprattutto coloro che lo vedono come un’assicurazione contro la disoccupazione indotta dai robot, si spazientiranno all’idea che il piano escluda i senza lavoro e i più bisognosi. 

Come si ottengono le risorse per finanziare questo piano che costerebbe all’erario 290 miliardi di dollari, la metà del budget per la difesa? “Tassando persone come me” scrive Hughes. Hughes espone anche delle proposte piuttosto specifiche sulle misure fiscali necessarie e individua i soggetti a cui rivolgerle. A pagare il conto sarebbero le famiglie americane più ricche, circa 5 milioni di nuclei familiari. 

Insomma la proposta del pentito Crish Hughes è piuttosto complicata e presenta anche un connotato elitario, probabilmente collegato alla preoccupazione della sua sostenibilità. Rischia, però, di replicare l’amara storia del “New Republic”. 

Questo risvolto concreto non deve però oscurare i pregi di questo libro che è anche una testimonianza del nostro tempo e un segnale che qualcosa sta davvero cambiando. A questo proposito, scrive John Thornhill sul “Financial Times”: 

Fair Shot è un appello drammaticamente personale, profondamente sentito e persuasivamente argomentato di una personalità della gioventù dorata delle Silicon Valley ad affrontare l’evidente disuguaglianza che infanga il sogno americano. 

In ogni caso, onore a Chris Hughes.

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